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Giro88
Movimento
Lo sciopero necessario
Ancora una volta, come in tutti
i passaggi storici essenziali, la mobilitazione
dei lavoratori assume una valenza generale. Tantopiù
di fronte a un governo che sposa le ragioni dell'impresa
di adolfo pepe, da Il Manifesto,
11 aprile 2002 (prima parte) - leggi
seconda parte.
Il 16 aprile l'Italia sciopererà
contro la politica economica di governo e Confindustria.
Lo scorso 23 marzo si è svolta la più
imponente manifestazione di protesta di lavoratori
e cittadini della storia repubblicana, organizzata
dalla Cgil. Al centro di queste azioni di lotta
c'è una questione «simbolica»:
l'abolizione dell'articolo 18. Inevitabilmente
lo sciopero generale assumerà il significato
di una prova di forza che finirà con incidere
profondamente sulla futura evoluzione non solo
delle relazioni industriali ma del sistema politico
italiano. Ancora una volta, uno sciopero generale
si interpone alle scelte politiche ed economiche
di un governo di destra, palesemente ostile al
mondo del lavoro e ai suoi diritti. Nonostante
gli esorcismi intellettuali e politici, il peso
della storia sociale e culturale del paese appare
superiore alle capacità illusionistiche
del governo Berlusconi e dei suoi corifei. L'atteggiamento
dell'esecutivo, che ha irriso la manifestazione
del 23 marzo e ostentatamente sottovaluta lo sciopero
generale unitario, è emblematico della
cultura politica della destra di governo e affonda
le sue radici nella cattiva metabolizzazione della
sconfitta del `94.
Sin dalla sua costituzione il governo
Berlusconi ha orientato la propria azione a una
strategia volta a restituire lo scacco subito
nell'autunno del `94, scongiurando il ripetersi
dello scenario che rese inevitabile, allora, la
disfatta politico-parlamentare del suo primo governo.
La compagine governativa,in sé frastagliata
e implosiva, ha trovato il suo equilibrio nella
comune convinzione che, per non ripetere l'esperienza
del `94, occorresse colpire e marginalizzare il
mondo del lavoro e il sindacato, imponendo loro
un rapporto basato sulla forza.
Nel 1994, secondo le analisi del
Polo delle Libertà, il sindacato era un
soggetto debole e scarsamente rappresentativo
del mondo del lavoro. Quest'ultimo si configurava
come un aggregato informe di singoli individui,
mediatici, consumisti e in lotta, sul libero mercato,
l'uno contro l'altro. Ma il sindcato riuscì
a prevalere perché il governo non ebbe
la possibilità e l'energia di smascherarne
la debolezza, accettando lo scontro sociale e
utilizzando fino in fondo la sua forza impositiva.
Prova di forza
Oggi, di fronte ad un sindacato
palesemente più forte e combattivo, ad
una opposizione parlamentare debole e incerta
e ad una presidenza della Repubblica meno politica
e più istituzionale, il governo ha ritenuto
che occorresse, innanzitutto, evitare ogni confronto
di merito sul proprio programma sociale ed economico,
utilizzando una strategia unilaterale che ponesse
al centro la prova di forza come unico strumento
di dialogo sociale. Appoggiandosi al radicalismo
irresponsabile di una parte della Confindustria,
il governo ha proceduto abolendo la concertazione,
escludendo ogni ipotesi di reale trattativa, puntando
a dividere i sindacati,isolando politicamente
la Cgil e ponendo Cisl e Uil in una situazione
di insostenibile tensione con i lavoratori. L'obbiettivo
sociale è divenuto quello di marginalizzare
il lavoro deprimendone i valori di solidarietà
e di lotta, annullandone i diritti sociali, economici
e di cittadinanza, espungendoli dai confini della
democrazia politica. La sfida aperta sul terreno
della libertà incontrollata di licenziamento,
ha assunto così il carattere di bandiera
ideologica, per promuovere ed alimentare la prova
di forza in uno scenario ritenuto favorevole al
governo.
Un secondo elemento, strettamente
collegato a questo,concorre a formare tale comportamento
decisionista e bellicoso. Berlusconi, Fini e alcuni
uomini vicini a Bossi si sono formati la convinzione
che, nel `94, l'uso politico della forza fu impedito
dalla mancanza di coesione interna del ceto politico
di centro-destra, ma ancor più dalla mancata
saldatura programmatica, culturale e psicologica
con quel mondo che la destra dei parvenus ha ripreso
a definire come poteri forti dell'economia e dello
stato, le grandi famiglie del capitalismo e la
presidenza della Repubblica. In quel frangente,
entrambi questi segmenti del potere erano apparsi
non allineati alla destra e ancora saldamente
legati a quella porzione maggioritaria del ceto
politico di centro-sinistra che, dal governo Amato
in poi, era stato considerato affidabile ed idoneo
a trarre l'Italia dal collasso economico-finanziario,
senza rompere gli assetti fondamentali dei poteri
dominanti, scaricando sui lavoratori e sull'intero
ceto medio il costo dell'operazione.
Nasce da questa analisi retrospettiva
la scelta della ricomposizione politica, e non
solo economica, della destra con l'insieme dei
poteri forti, attraverso l'attivazione di un collateralismo
vincolante, programmatico e ideologico con la
Confindustria e con i valori dell'ultraliberismo.
Se il centro-sinistra aveva tentato, senza riuscirci,
una mediazione politica tra quei poteri forti
e il mondo del lavoro in favore dei primi, la
destra rinuncia a esercitare un ruolo politico
autonomo, facendo propri programmi, strategie
e interessi del mondo economico, contrapponendoli
a quelli del mondo del lavoro.
Nell'analisi della destra, lo stesso
fallimento del centro-sinistra nell'imporre la
sua mediazione era dovuto all'impossibilità
di prescindere dal consenso del sindacato nel
realizzare una politica di compiuta restaurazione
liberista istituzionale ed economica. Il nuovo
governo di centro-destra poteva e doveva rompere
questa rigidità, prescindendo dal consenso
e colpendo direttamente la forza rappresentativa
del sindacato. Subito dopo la sua costituzione
l'esecutivo ha precisato quali dovessero essere
i tempi e le modalità di questa strategia
unilaterale che prevedeva, come strumento privilegiato,
l'impiego della coazione per restringere gli spazi
dell'azione politica e contrattuale del sindacato.
La inaudita repressione di Genova
delegata a Fini, è suonata come un monito
preventivo rivolto alla Fiom e alla Cgil, perché
rinunciassero da subito (era allora cogente l'accordo
separato per il contratto dei metalmeccanici)
a esercitare il dissenso e la protesta sul terreno
della mobilitazione e della lotta dei lavoratori.
Fini e Berlusconi hanno inteso chiarire immediatamente
che non avrebbero consentito, senza fronteggiarlo
pesantemente, il dispiegarsi del conflitto sociale.
Questo ritorno tipicamente fascista a una concezione
della lotta sindacale in termini di ordine pubblico
e di confronto con le istituzioni repressive dello
stato, ha fatto da sfondo all'elaborazione di
una pratica della forza come predominio politico-parlamentare,
che ha sottratto alla discussione parlamentare
e al confronto con le parti sociali l'insieme
delle tematiche concernenti le riforme delle condizioni
sociali ed economiche dei lavoratori, attraverso
un'incredibile somma di decreti e di deleghe governative.
Così, non solo si è vanificata la
trattativa sindacale, ma si è depotenziata
la democrazia parlamentare e prefigurato un tentativo
di riscrittura della stessa Costituzione materiale
e formale del paese.
E' sorprendente come il governo
di centro-destra abbia completamente dissipato
l'opportunità - che pure sosteneva di voler
perseguire sull'esempio tracciato da De Gasperi
dopo il `48 - di un superamento della fase storica
precedente e si sia invece «avvitato»
in un processo che ha riprodotto le tradizionali
costanti della storia politica delle classi dirigenti
italiane. Così Berlusconi, Fini e Bossi,
mescolando i geni delle rispettive culture di
appartenenza, hanno dato luogo ad un profilo politico
che si inscrive nella fattispecie della destra
conservatrice italiana come mussolinismo (che
non coincide con la definizione politologica di
regime fascista).
I suoi elementi costitutivi sono
la personalizzazione della strategia di potere
intorno all'interesse del capo, anche se conflittuale
con quelli politici generali; lo scioglimento
della dimensione pubblica e politica, sostituita
da un trasferimento di risorse e funzioni ad un
sistema privatistico di interessi; la negazione
della distinzione della rappresentanza sociale
e dei diritti del lavoro all'interno di un indistinto
e coattivo universo economico e culturale.
Il centro-destra ha così
evitato di riflettere sulla costruzione di un
confronto tra un forte governo conservatore a
larga base industriale e populista e un movimento
sindacale autorevole e rappresentativo del mondo
del lavoro, percorrendo un sentiero inedito, al
di là di quello europeo che aveva il suo
modello di riferimento nel rapporto tra governo
prolabour e sindacato.
E tanto più grave appare
questa scelta quando si consideri che si trattava
di gestire una complessa fase di riassestamento
del paese, di ammodernamento competitivo e tecnologico
del suo apparato produttivo, all'interno del nuovo
e più difficile contesto europeo a moneta
unica e del diverso ordine mondiale, ispirato
dalla politica economica, finanziaria e militare
dell'amministrazione americana. Poteva essere
una sfida per formare una matura classe dirigente
di destra, protagonista di una moderna politica
conservatrice di stabilità sociale e democratica,
in linea con i tradizionali programmi delle forze
politiche moderate europee.
Scontro di civiltà
Aver mancato questa occasione sospinge
ora la classe dirigente di centro-destra, nel
«cul de sac» di uno scontro sociale
che, mentre lacera il paese, restituisce, da un
lato, al sindacato quel ruolo più incisivo
e rappresentativo che si voleva esorcizzare, dall'altro
rende difficile l'uso politico della forza da
parte del governo e prepara lo sgretolamento della
coesione all'interno della stessa maggioranza
di centro-destra e nel fronte delle imprese e
del mondo economico.
Il semplicismo con cui ancora ci
si illude di potere insieme votare integralmente
le deleghe e riprendere, dopo lo sciopero generale,
il dialogo sociale, ripristinando il tavolo di
trattativa, magari escludendo la Cgil, senza aver
compiuto quegli atti preliminari (a partire dallo
stralcio dell'articolo 18) fa presagire una prospettiva
preoccupante, che rivela una netta contrazione
della capacità di sintesi politica e l'incomprensione
dell'evoluzione sociale e psicologica del paese,
in queste ultime settimane.Qui vi è un
vero e proprio difetto di cultura e di prospettiva:
non si riesce a comprendere che cosa sia uno sciopero
generale, quali i processi sociali e le dinamiche
politiche che esso produce e questo anche a voler
scontare una perdurante fase di incertezza e di
debolezza del fronte politico dell'opposizione
parlamentare. In questo contesto, infatti, lo
sciopero generale unitario del 16 aprile assume
sempre più chiaramente un carattere di
grande protesta civile, di rivendicazione dei
diritti dei lavoratori e della democrazia politica
e finisce per rivestire, dunque, un duplice, straordinario
rilievo. Se da un lato esso nasce dall'impasse
in cui l'esecutivo e la Confindustria hanno gettato
le istituzioni politico-parlamentari e le relazioni
sociali, dall'altro si configura come uno dei
principali, possibili fattori risolutivi della
crisi stessa, in quanto propone una modifica della
politica economica e sociale del governo.
Questo ruolo lo ricollega così
a quello assunto nei passaggi cruciali della storia
italiana del `900, quando dal mondo del lavoro
e dal sindacato sono venute le proposte decisive
che hanno selezionato e modernizzato le stesse
classi dirigenti, allargando l'area della libertà
e della democrazia per i lavoratori e per l'intero
paese.
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