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Giro87
Speciale 23 marzo
Libertà di licenziare,
arroganza del potere e dissenso popolare
di Michele Di Schiena, da Il
Granello di sabbia n.40, www.attac.org
Nel maggio del 2000 la volontà
popolare si espresse nettamente contro l' abbattimento
dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori respingendo
il relativo referendum. Allora l'on. Berlusconi,
per evitare problemi sul cammino verso Palazzo
Chigi, si armò di strumentale prudenza
ma non mancò di dare assicurazione alla
Confindustria che da Presidente del Consiglio
avrebbe bruciato quella norma dentro l'attuazione
di un piano di interventi rivolti a liberare il
lavoro da vincoli e tutele.
E così oggi il Cavaliere,
ritenendo di poter padroneggiare a piacimento
gli orientamenti della gente, mette mano al suo
progetto partendo dal disegno di legge collegato
alla Finanziaria 2002 contenente la "Delega
al Governo in materia di mercato del lavoro".
Il delirio di potenza può fare però
brutti scherzi ed ha portato il premier a sottovalutare
la capacità di reazione di milioni di lavoratori
che sta trovando espressione democratica nella
dura opposizione delle forze politiche e sociali
più avanzate, nella mobilitazione dei nuovi
movimenti e soprattutto, come momenti di lotta
significativi ed unificanti, nella manifestazione
nazionale di protesta del 23 marzo e nello sciopero
generale.
Una protesta che vuole contrapporre
alle orchestrazioni propagandistiche del Governo
l'eloquenza dei fatti e la forza persuasiva degli
argomenti. E lo vuole fare partendo dall'analisi
dell'art. 10 della Delega il quale, sotto il titolo
mistificante di "misure temporanee e sperimentali
a sostegno dell' occupazione regolare nonché
incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato"
mette in cantiere una riforma che prevede la sospensione
dell 'art. 18 per quattro anni, "fatta salva
- dice il testo - la possibilità di proroghe
in relazione agli effetti registrati", nei
casi di emersione dal lavoro nero, di aziende
che assumendo superino la soglia dei 15 dipendenti
e di passaggio dal contratto a termine a quello
a tempo indeterminato. Una sospensione dunque
di lunga durata che, in forza delle progettate
proroghe, sarebbe destinata a protrarsi indefinitivamente
provocando un totale svuotamento dell'art. 18
anche a prescindere dalla sua formale abrogazione.
A dispetto di tutte le cortine
fumogene, non può invero sfuggire la forza
espansiva della riforma che, mentre conserva ad
esaurimento la tutela della reintegra per i lavoratori
in servizio, elimina tale garanzia per le nuove
assunzioni: quelle di emersione dal lavoro nero
che lasceranno comunque i lavoratori in una situazione
di precarietà, quelle comportanti il superamento
della soglia di 15 dipendenti senza effetti sulla
stabilità dell 'occupazione e, a ben guardare,
tutte le altre che nasceranno di certo a tempo
determinato, come effetto della sostanziale liberalizzazione
del relativo contratto introdotta dal D.L. n°
368 del 06.09.01, per essere poi trasformate in
rapporti privi di scadenza ma nel contempo sottratti
alla disciplina dell'art. 18. E sì, perché,
a riforma attuata, non vi sarà un solo
datore di lavoro tanto ingenuo da assumere lavoratori
a tempo indefinito senza farli prima passare attraverso
una fase di contratto a termine. Infatti è
proprio questo caso, quello appunto del vantaggio-truffa
costituito dal passaggio dal contratto a termine
a quello a tempo indeterminato, che consuma in
danno dei lavoratori l'inganno maggiore perché
apre una vera e propria autostrada alla libertà
di licenziamento con lo specchietto per le allodole
di un contratto nominalmente stabile che nasconde
in realtà un rapporto più precario
di quello precedente. Diamo allora uno sguardo
agli argomenti utilizzati dal Governo e dalla
Confindustria a sostegno della riforma per disvelarne
l'infondatezza.
Dicono Berlusconi e D'Amato di
non comprendere tanta determinazione nella difesa
dell'articolo 18 assumendo che esso trova applicazione
solo in un numero limitato di casi ma trascurano
di considerare la funzione di deterrenza dell
'istituto della reintegra e, contraddicendosi,
ne confermano il valore civile e l'importanza
pratica quando portano avanti con pervicacia la
riforma anche a costo di laceranti conflitti sociali.
Affermano poi che la flessibilità in uscita
favorirebbe l'assunzione dei giovani disoccupati
fingendo di ignorare che i più accreditati
economisti escludono un rapporto di causa-effetto
tra tale flessibilità e l'incremento della
occupazione, come peraltro emerge dal fatto che
con l'attuale normativa il fenomeno della disoccupazione
è praticamente assente in vaste zone del
Paese.
Ed ancora, sostengono che, in caso
di licenziamento illegittimo, verrebbe previsto
un adeguato risarcimento ma non dicono che si
tratterebbe pur sempre di un enorme arretramento
perché la disciplina in vigore già
prevede, oltre alla riammissione in servizio,
la corresponsione di tutte le retribuzioni dal
momento dell'illegittimo licenziamento fino a
quello della effettiva reintegra e, soprattutto,
non considerano che il rapporto di lavoro, avendo
ad oggetto una prestazione non assimilabile alle
merci, si pone su un piano diverso da quello degli
rapporti contrattuali per i quali, in caso di
ingiustificata risoluzione, è prevista
solo la sanzione del risarcimento del danno.
Asseriscono inoltre che l'art.
18 sarebbe un vincolo incompatibile con le esigenze
di ristrutturazione delle imprese ma omettono
di precisare che l'attuale normativa prevede la
legittimità del licenziamento non solo
in presenza di una giusta causa e di un notevole
inadempimento del lavoratore ma anche nel caso
del cosiddetto "giustificato motivo oggettivo",
quello cioè determinato da ragioni inerenti
all'attività produttiva, all'organizzazione
del lavoro ed al suo regolare funzionamento. Assumono
infine che nelle altre legislazioni europee non
sarebbe rinvenibile una norma analoga a quella
dell'art. 18 senza dire che la Carta europea dei
diritti fondamentali stabilisce all'art. 30 che
ogni lavoratore ha diritto alla tutela (ovviamente
piena ed effettiva) contro ogni licenziamento
ingiustificato e che il nostro Paese ha in materia
di lavoro dipendente una storia dolorosamente
segnata da sfruttamenti e discriminazioni.
Ma c'è di più e cioè
che la progettata riforma dell'articolo 18 si
collega funzionalmente ad un'altra, quella della
delega in materia di arbitrato nelle controversie
individuali di lavoro, che punta ad una forte
riduzione del controllo di legalità da
parte del giudice. Il fatto è che la delega
per la riforma dell'art. 18 si inquadra nel piano
disegnato dal Libro bianco pubblicato dal Ministero
del Welfare dello scorso ottobre: un piano che
va ben oltre la riforma della disciplina del licenziamento
e dell'arbitrato perché si propone, attraverso
una gradualità di interventi, di operare
un vero e proprio stravolgimento dell'intero impianto
dell'ordinamento del lavoro con l'eliminazione
del sistema di garanzie previste a tutela dei
lavoratori e col ritorno ad una concezione servile
del lavoro. Un progetto in aperto contrasto con
la Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro
ed impegna le istituzioni a rendere effettivo
il diritto al lavoro ed a tutelare l'attività
lavorativa in tutte le sue forme ed applicazioni
in attuazione della grande scelta democratica
volta a rimuovere gli ostacoli che impediscono
di fatto l'eguaglianza dei cittadini e l'effettiva
partecipazione dei lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese.
L'art. 18 è uno scudo contro
le più gravi ingiustizie in danno dei lavoratori
e perciò va esteso anche alle aziende con
meno di 15 dipendenti. Esso fa onore alla legislazione
sociale del nostro Paese ed ha una grande importanza
simbolica: la sua intransigente difesa assume
pertanto un valore strategico di enorme portata.
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