Giro86
Movimento
entropia sociale e ricombinazione
bifo - Lavoro Cognitivo 05.03.2002
la risorgente questione degli
intellettuali nasconde il problema del "che
fare?" contemporaneo, il problema dell'autorganizzazione
del lavoro cognitivo.
Riprende spazio la questione
degli intellettuali, nella discussione della sinistra
italiana. Ma la questione è malposta, e
la parola stessa (intellettuale) elabora malissimo
la geografia socio-mentale contemporanea.
Lenin collega alla figura intellettuale
il problema del che fare, della direzione politica
dell'azione collettiva. Gli intellettuali non
sono una classe sociale, non hanno interessi sociali
specifici da sostenere. Essi sono generalmente
espressione della rendita parassitaria e possono
compiere scelte "puramente intellettuali",
facendosi tramite della coscienza rivoluzionaria.
In questo senso essi sono quanto di più
simile al puro divenire dello spirito, al dispiegarsi
hegeliano della autocoscienza.
D'altra parte gli operai, pur essendo
portatori di un interesse sociale omogeneo, non
possono passare dalla fase puramente economica
(l'in sé hegeliano dell'essere sociale)
alla fase politica cosciente (il per sé
dell'autocoscienza), se non attraverso la forma
politica del partito, che incarna e tramanda l'eredità
filosofica (il proletariato come erede della filosofia
classica tedesca).
In Gramsci la riflessione sugli
intellettuali diviene più articolata, e
si avvicina a una formulazione materialistica
del carattere organico del rapporto tra intellettuali
e classe operaia. Il partito è comunque
concepito, nella intera tradizione comunista,
come l'intellettuale collettivo. L'intellettuale
della tradizione moderna (quello che non è
stato ancora messo al lavoro dalla rete digitale)
non può avere accesso alla dimensione collettiva
se non grazie al partito.
La rottura prodotta dall'operaismo
italiano (che io preferisco chiamare composizionismo,
per il rilievo che si dà alla questione
della composizione di classe) si fonda su un abbandono
della nozione leninista del partito come intellettuale
collettivo, e della nozione stessa di intellettuali
che viene sostituita con quella (marxiana, ma
non engelsiana e non leniniana) di general intellect.
Non mi pare che si sia però compiuta una
riflessione esauriente sul superamento della nozione
leninista di partito e della nozione gramsciana
di intellettuale.
Se vogliamo oggi definire un che
fare per il nostro tempo dobbiamo concentrare
l'attenzione sul rapporto tra funzione cognitiva
nel lavoro sociale complessivo e movimento che
organizza forme di autonomia produttiva e comunicativa.
Nel libro di Negri e Hardt manca
(dichiaratamente) una teoria dell'azione, e questo
non è un suo limite. La nozione di "moltitudine"
non ha, (IMHO) una potenza attiva, organizzativa,
meno che mai una funzione "soggettivante".
La nozione di moltitudine descrive
la tendenza dissolutiva, l'entropia che si diffonde
in ogni sistema sociale, e che rende impossibile
(asintotico, infinito, intermianbile) il lavoro
del potere, ma anche il lavoro dell'organizzazione
politica.
Noi abbiamo bisogno di individuare
una funzione ricombinante, e questa la troviamo
nella funzione cognitiva che attraversa l'insieme
della produzione sociale.
Il lavoro intellettuale non esiste
più come funzione sociale separata dal
lavoro sociale complessivo, ma diviene funzione
trasversale, creazione delle interfacce tecnolinguistiche
a cui è affidata la fluidità del
processo sociale, e quindi potenza ricombinante
(dove ricombinare non vuol dire sovvertire, rovesciare,
inverare o disvelare, ma significa ben più
concretamente montare elementi conoscitivi secondo
un disegno diverso da quello del profitto e del
capitale).
La risposta al che fare presente
è politica in un senso molto particolare.
Infatti non consiste nella creazione di un partito,
di una organizzazione esterna al sociale capace
di dirigerlo o di governarlo. La risposta consiste
nel dare forma alla specifica pratica conoscitiva
secondo modelli epistemici autonomi, secondo i
modelli epistemici etici che intessono quello
specifico livello di conoscenza.
Il programmatore deve fare il programmatore,
il medico deve fare il medico, il bioingegnere
deve fare il bioingegnere, e l'architetto deve
fare l'architetto, mentre nella visione leniniana
ciascuno doveva fare il rivoluzionario di professione,
e questo significava portare dall'esterno la coscienza
rivoluzionaria agli operai.
Ma il programmatore il medico il
bioingegnere e l'architetto devono in primo luogo
riorientare la propria azione conoscitiva, modificare
la funzione e la struttura del proprio campo conoscitivo
specifico e del proprio campo specifico di azione
produttiva.
Mi sembra che abbiamo raccolto
una grande quantità di elementi utili per
l'elaborazione del "manifesto dei lavoratori
della conoscenza (chenon si deve chiamare così)",
ma l'esitazione che ci attanaglia riguarda proprio
il metodo.
Non vogliamo un manifesto "dichiarativo",
perché questo ci ricorda troppo il volontarismo
leninista, il dire che rimanda ad un'azione esterna
al dire.
Vogliamo invece un manifesto che
sia come un software, o come un codice genetico.
Un dire che sia paradigma, che sia contagio e
al tempo stesso catena enunciativa ricombinante.
Abbiamo esagerato con le
pretese, le attese le intenzioni? Può darsi,
ma vale la pena perché le intenzioni non
sono soltanto intenzioni, a loro volta, ma disposizioni
ad essere.
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