Giro85
/ Movimento Il magnifico gioco dei paradisi fiscali La vicenda Enron come paradigma: l'arte
di far scomparire i profitti e
socializzare i debiti. Da Granello di Sabbia, ATTAC - http://attac.org/,
di Angela Pascucci tratto da Il Manifesto
"La Enron svaligiava la banca e la Andersen
procurava l'auto per
scappare".
L'immagine viene consegnata agli atti del Congresso americano
dal
rappresentante della Camera James Greenwood il 24 gennaio,
primo giorno
di audizioni sul crollo del gigante dell'energy trading.
L'indignazione e
lo scandalo crescono, come le montagne di fili sottili a
cui sono stati
ridotti, dalla società di certificazione Arthur Andersen
e dalla
medesima Enron, documenti fondamentali per le indagini.
Ma pochi mettono a fuoco un elemento non da poco: il piede
di porco con cui sono stati svuotati conti e tasche di azionisti,
dipendenti e contribuenti è stato fornito dai manuali
di business administration adottati dalle prestigiose accademie
che forgiano la classe dirigente mondiale.
La Enron aveva costituito 881 sussidiarie, leggasi società
di comodo,
distribuite tra alcuni dei più affidabili paradisi
fiscali: 692 alle
Cayman, 119 alle Turks e Caicos, 43 alle Mauritius, 8 alle
Bermuda. Con questo
apparato (sostenuto dai politici) ogni operazione finanziaria
era un
vorticoso gioco delle tre carte che alla fine lasciava i
profitti sotto
le palme dei tropici e nelle tasche dei vertici, e le perdite
nascoste
sotto qualche tappetino societario a partecipazione incrociata
di misteriosi
prestanome. Tutto grazie anche all'abilità delle
banche (ben pagate) che
dirigevano il traffico. Finché il traffico scorreva,
le azioni salivano
e tutti erano contenti. Dai vertici ai dipendenti, che sognavano
di
andarci prima o poi anche loro, con laute pensioni, sotto
le palme. Poi il
tamponamento a 200 all'ora. Oggi tutti scoprono che i bilanci
della
Enron erano un assurdo, che puzzavano lontano un miglio.
Che invece di stare
al settimo posto nella lista di Fortune avrebbe dovuto essere
piazzata al
287esimo. Oggi.
Oggi si scopre anche che, nonostante le sorti magnifiche
e soprattutto
progressive, grazie all'apparato di cui sopra, in 4 degli
ultimi 5 anni
la Enron non aveva pagato una lira di tasse. Anzi, nel 2000
un'imposta di
112 milioni di dollari si era trasformata alla fine in un
credito di 278
milioni di dollari. Il miracolo era frutto di un combinato
disposto: paradisi
fiscali che inghiottivano gli utili e detrazioni da stock
options. Tutto
quello che veniva elargito ai dirigenti era detratto dall'imponibile
societario.
Se la Enron non si fosse schiantata (per propri errori)
avrebbe
continuato esattamente così, simile a Moriana, una
delle città invisibili di Italo
Calvino: porte di alabastro e una distesa di lamiera arrugginita
come
suo rovescio. L'organizzazione americana Citizens for Tax
Justice,
nell'ottobre del 2000, ha esaminato metà delle 500
compagnie nella lista di Fortune
(cioè il Gotha delle corporations mondiali trionfanti),
scoprendo che 24 di
queste, nel 1998, non avevano pagato una lira di tasse,
come l'ultimo
dei nullatenenti. Un fenomeno globale verso il quale i governi
e le
istituzioni finanziarie internazionali mostrano un'inaccettabile
indulgenza. E
questo spazio grigio, dove i confini si annullano nell'anonimato
più complice,
sta crescendo a dismisura, assumendo un aspetto di normalità
nel panorama di un'economia asimmetrica e malata. Piccola
criminalità rispetto alla
grande (con cui comunque condivide percorsi e mezzi), ma
altrettanto
corruttrice e devastante.
Una lettura da non perdere è l'articolo pubblicato
dalla rivista
americana Opulence (sotto testata: il meglio che il mondo
ha da offrire) dal
target assai preciso. Tra un poppante che gattona con una
collana di diamanti
al collo e la pubblicità di yachts e Ferrari, il
signor Terry L. Neal,
consulente finanziario, spiega al lettore americano le meraviglie
e i
vantaggi dei Centri finanziari internazionali offshore (Ifc),
termine
"usato professionalmente per identificare un paradiso
fiscale legale".
Il riccone dall'anima puritana al primo impatto forse sussulta.
E' pur
sempre vero che negli Stati uniti (e non solo) ancora è
vietato fare
pubblicità ai paradisi fiscali, tant'è che
la nostra Opulence neppure
richiama l'articolo in prima pagina e l'editoriale-sommario
della
platinatissima direttrice neppure lo menziona. Ma Neal,
misurando le
parole per non sconfinare nell'istigazione a delinquere,
è qui per dirci che
questa attitudine è roba vecchia, di retroguardia.
Proventi della droga,
attività illecite, riciclaggio? Miti d'altri tempi.
Oggi l'offshore è considerato
dai "sofisticati manager del denaro globale un modo
sicuro e ragionevole per
fare affari". Un'importante attività che "si
estende in ogni angolo del
globo e coinvolge ormai, in un modo o nell'altro, metà
delle transazioni
finanziarie mondiali". Vale a dire un fiume di duemila
miliardi di
dollari (cifre dell'Usa Federal Reserve System) che ogni
giorno fluisce
attraverso questi territori con legislazioni compiacenti,
architettate
appositamente per "attirare" ma soprattutto "proteggere"
i capitali internazionali.
Tant'è che "un americano su quattro, tra quelli
che guadagnano oltre 100mila
dollari l'anno" ha già scoperto queste meraviglie,
i cui vantaggi vanno
ben oltre la banale evasione fiscale (pardon, legittima
difesa dall'avidità
dello stato). Perché ben oltre l'erario, spiega Terry
Neal, va
l'esercito di quelli che potrebbero pretendere di mettere
le zampe sul vostro
capitale: dipendenti maltrattati, consumatori inferociti,
mogli livide, comunità
imbestialite. I motivi di querela e denuncia sono infiniti,
soprattutto
in una società come quella Usa dove si svolge il
94% delle cause civili
mondiali. Una bella compagnia offshore farà sparire
fino all'ultimo
centesimo, e chi potrà rivalersi su un nullatenente?
Poi c'è la privacy, fondamentale per le "strategie
d'impresa" e la
"pianificazione del rischio" (come anche i criminali
di ogni ordine e
grado che trafficano a livello globale potrebbero confermare).
Ormai non si è
più sicuri nemmeno in Svizzera e ci sono paesi, come
gli Stati uniti, che
sempre più minacciano l'inalienabile "diritto
alla segretezza", soprattutto
dopo l'emanazione delle leggi contro i finanziamenti del
terrorismo. La fuga
è il minimo, davanti a questo fuoco concentrico di
controlli che pretende di
appurare tutto su transazioni, scambi e quant'altro. Proprio
per questa
perniciosa attitudine da parte delle autorità nazionali
vi sono fondi di
investimento che non accettano capitali provenienti da alcuni
paesi. E,
guarda un po', sono i fondi più redditizi. Terry
Neal cita in proposito
la Guide to Offshore Investment Fund di Standard & Poor,
che riporta come
siano ben 6.200 i fondi off-shore che, per esempio, rifuggono
come la peste i
capitali targati Usa ("troppe vessazioni dalle autorità
fiscali e
regolatorie"). I primi 350 della lista sono riusciti
ad avere tassi di
rendimento che vanno dall'800 al 900%. Che aspettate allora
ad andare a
costituire una bella società offshore che farà
da "investitore"?
Certo non si fa con uno schiocco di dita. Per "lanciarvi
nel mondo
offshore" dovete avere un buon consulente (Terry Neal
largheggia in nomi con relativa posta elettronica) che scelga
il paradiso giusto (quello ideale deve
essere "politicamente neutro", "English speaking",
persino "democratico", ben attrezzato per infrastrutture
e leggi). Una banca privata affidabile,
meglio se con qualche filiale offshore, farà il resto
con i suoi "servizi
speciali" e completi. Ultima raccomandazione dello
zelante Terry. I capitali
possono girare a piacimento, ma non andate a raccontare
che volete volare via col malloppo per incompatibilità
con l'erario. E' unfair. Piuttosto
ricordate che se oggi questi 65 paradisi fiscali esistono
è perché molti anni fa
americani, britannici e canadesi decisero di ridurre gli
aiuti ad alcuni
paesi in via di sviluppo. Al posto di prestiti, doni e finanziamenti,
fu
loro concesso di garantire generosi incentivi fiscali alle
società
multinazionali che decidessero di investirvi. Quando gli
imprenditori si
accorsero di queste attraenti opzioni, "il gioco fu
fatto". Dunque non è
vero che si scappa con la cassa: si partecipa a un progetto
di sviluppo
del Sud del mondo. Che altro volete?