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Il Provenzano mancato

Troppi i fallimenti del centrosinistra nella lotta alla mafia. Dalla non-cattura del boss alla (ingenua?) soffiata dell'Avvenire. Dall'omessa realizzazione dell'archivio unico bancario all'attesa ratifica dell'accordo per le rogatorie in Svizzera. Anch'essa mancata (da Il Manifesto)

di GIUSEPPE DI LELLO

In campagna elettorale è necessario far tornare a parlare di mafia un infelice abitante delle regioni meridionali impropriamente definite "a rischio" come se ci fosse ancora spazio per evitare nelle stesse la diffusione di una piaga che ormai le domina da decenni. Il vero rischio sta proprio nella trasversalità di una rimozione dei problemi reali da risolvere o nel condiviso ottimismo di un'opera di contrasto istituzionale che ormai prosegue inesorabile e inarrestabile, tanto da dovere, appunto, lasciar lavorare in pace gli operatori e permettere a noi di pensare ad altro, parlare d'altro. La lotta alle mafie, in una fase politica di probabile alternanza di governo dal centrosinistra al centrodestra, esige una qualche riflessione concreta di bilancio anche per chiarire che, se un domani il centrodestra vorrà giustificare la sua inerzia, la potrà spacciare come opera di contrasto in continuità e coerenza con quanto fatto dal centrosinistra.Lasciamo da parte la genericità del "calo di tensione" contrastato da una speculare genericità delle ricorrenti mobilitazioni della società civile e veniamo al punto sul quale, almeno a sinistra e almeno a parole, si è tutti d'accordo: la lotta alle mafie, per distinguersi da quella del ventennio fascista, deve essere parte integrante di un processo di crescita democratica ed esige, quindi, trasparenza nelle azioni delle istituzioni (parlamento e governo compresi) e credibilità nei relativi controlli. L'elenco dei fallimenti in questi campi è corposo e vale la pena riproporne solo alcuni, passati e recenti, magari fino alla noia, perché siamo ancora in attesa di comportamenti trasparenti e risposte credibili. La cattura di Totò Riina si è svolta in un ambiente asettico, nel senso che ci si è ben guardati da infettare chiunque, da lasciare in giro oggetti (carte soprattutto) che avrebbero potuto contagiare qualche sprovveduto. Venne evitata una incauta perquisizione della sua abitazione e una altrettanto incauta sorveglianza della stessa così da dar modo ai suoi uomini, a trasloco compiuto, di passare anche l'aspirapolvere. Un incauto ufficiale dei carabinieri si lasciò scappare una incauta dichiarazione su alcuni personaggi che, a operazione compiuta, avrebbero dovuto lasciare Palermo per la vergogna: lui, evidentemente, li aveva identificati, ma non condivise mai con noi comuni mortali le sue scoperte. Il tutto fu etichettato come un fraintendimento di ordini e di dichiarazioni, ma le risposte credibili non sono mai state date. Per il rispetto e l'affetto che porto agli amici fatti ammazzare da Totò Riina sento il dovere morale di dire, con indignazione tutta meridionale: 'cà nisciuno è fesso! Tra la cattura asettica di Riina e il tormentone della sempre imminente e mai realizzata cattura di Provenzano c'è una stretta connessione perché è chiaro che non si riuscirà a far partorire anche questa seconda fino a quando non le si assicurerà la stessa asetticità, fino a quando non si sarà certi che anche questa porterà qualche beneficio senza però fare del male a nessuno. Siamo ancora nella fase precontrattuale e non sembra, comunque, possibile che l'accordo si concluda prima delle elezioni, anche per non fare un favore al centrosinistra che parte e un contestuale sgarbo al centrodestra che arriva. Quali sono i segnali logici di questo stallo? Provenzano non è un latitante inattivo: è un manager che, anche se non viaggia, si occupa di affari e muove freneticamente le sue pedine per contatti, pressioni, riscossioni, investimenti ed altro. Da qualche anno in qua cadono periodicamente latitanti storici, tutti definiti come il "braccio destro" del capo: Pietro Aglieri, il pupillo affetto da manie religiose, Simone Castello, Luigi Ilardo, Giuseppe Palazzolo, Nicola La Barbera, Vincenzo Virga, Benedetto Spera, insieme con una miriade di favoreggiatori minori, assicurando che gli si sta facendo terra bruciata: ma che moltitudine di uomini fidati ha Provenzano, tanto da non esaurirsi mai? Che stratega di latitanze è costui se i "nostri" arrivano sempre un minuto dopo la sua partenza dal rifugio dove si trovava o irrompono in rifugi ubicati solo un po' più a destra o un po' più a sinistra di quello dove si trova? Come diavolo mai l'Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, lo scorso 23 marzo rivelava l'esistenza di indagini su un convento dove potrebbe essersi rifugiato Povenzano, avvisandolo che si era giunti vicino alla sua cattura, invitandolo a stare attento e, comunque, a cambiare aria (o convento)? Come mai le tante procure interessate alla caccia e così sollecite a perseguire le "fughe di notizie", a perquisire giornali e tv e a inquisire giornalisti, non hanno avuto la curiosità di chiedere allo sprovveduto giornalista della Cei chi diavolo gli abbia dato una notizia vera che potrebbe aver compromesso gli sviluppi di una operazione così importante, sollecitandogli una risposta in coerenza con la rinnovata filippica antimafia di Giovanni Paolo II? Non sarà che con tutte le "rogne" legate alle catture eccellenti e ai relativi scontri tra corpi abbastanza separati la magistratura non vuole avere nulla a che fare, pur avendo il dovere di esercitare un potere di controllo di legalità, essenziale per la tenuta democratica dello stato? Nessuno è così sprovveduto da ritenere che la cattura di Provenzano possa segnare la fine della mafia, ma certo la sua mancata cattura e le vicende legate alla cattura di Riina ci dicono quanto sia impervia la strada di una lotta democratica al crimine organizzato. Veniamo ad altri due punti dolenti, niente affatto scollegati dal primo: la mancata realizzazione dell'archivio unico dei conti correnti e la mancata ratifica dell'accordo con la Svizzera per le commissioni rogatorie tra le rispettive autorità giudiziarie. La istituzione dell'archivio unico risale, nientemeno, alla legge finanziaria del 1991 ed era destinata ad accellerare al massimo le indagini bancarie e a diminuire drasticamente i tempi processuali delle inchieste, evitando prescrizioni e scarcerazioni per decorrenza dei termini. Il ministero della giustizia sta preparando in questi giorni il relativo regolamento. Quando il ministro Visco, alcuni anni or sono, si azzardò a rispolverare il provvedimento, in Parlamento ci fu una levata di scudi della destra berlusconiana che gridava alla violazione della privacy. In realtà la magistratura ha il potere di accedere a detti conti e, con l'attuale procedura, vi accede sprecando mesi e mesi in missive e attesa di risposte: si trattava solo di accelerare i tempi e il centrosinistra, colposamente, ha fatto passare (per ora) dieci lunghi anni, anni di processi lenti, prescrizioni e scarcerazioni molto utili alla mafia. Il trattato con l'odiata Svizzera è stato ratificata da questa a tambur battente, mentre la maggioranza, dopo l'approvazione alla camera, l'ha chiuso nei cassetti del senato e da lì lo ha tirato fuori, inutilmente, solo negli ultimissimi giorni della legislatura, in una con l'altro progetto di legge sul conflitto di interessi, anch'esso miseramente abortito. La Svizzera sa benissimo che un suo più stretto rapporto con l'Unione europea lo può ottenere solo smantellando il sistema con il quale nasconde i segreti europei relativi al riciclaggio dei proventi derivanti dai conflitti di interesse, dalla corruzione, dal traffico di stupefacenti e da quant'altro sa di malaffare. Sa anche che uno dei paesi più interssati a ciò è l'Italia. Questa Italia, però, ha alzato il suo muro non ratificando l'accordo: cosa ne sarà del trattato con un probabile governo delle destre? Perché Berlusconi, in mancanza di una legge specifica (come quella esistente nei suoi tanto ammirati Stati Uniti), dovrebbe essere tenuto a dirci da dove ha preso i primi fondamentali miliardi con i quali ha costruito il suo potere, se lo stesso governo di centrosinistra ha bloccato la possibilità di avere alcune di queste risposte? Non sarà che la trasparenza finanziaria, indispensabile per combattere il crimine organizzato e i suoi profitti, ma anche molti altri reati tra i quali la corruzione, ha trovato nemici trasversalmente alleati? Alla causa della lotta alla mafia non era più utile la ratifica di quel trattato che i tanti solenni raduni di massa nel corso dei quali vengono letti per ore i nomi dei caduti? Si dirà: demagogia di estremisti! Sì, ma intanto ci vorrebbe qualche risposta credibile e sensata, prima che sia troppo tardi, magari prima del prossimo 13 maggio. Data fatidica quest'ultima, che avvicina il potere mafioso alla resa dei conti con quei pochi che, in sparuti angoli delle istituzioni e della società, in quest'ultimo decennio hanno osato opporre un po' di resistenza. Qui e ora in Sicilia, in questa campagna elettorale, ci sentiamo stretti nella tenaglia tra una inconcludente retorica antimafia del centrosinistra e un blocco di potere politico-mafioso riorganizzatosi "naturalmente" sin dalle elezioni del 1994 intorno al polo berlusconiano e, cioè, intorno agli interessi e agli uomini di sempre. Bisognava fare qualcosa di più prima, certo. Bisogna, comunque, fare qualcosa ora, cominciando con non credere (e non far credere) in via di estinzione - magari per qualche voto in più - gli intrecci tra mafia, politica, finanza, imprese e istituzioni, ma rimettendoli in discussione senza ipocrisie, senza reticenze. Proprio quando c'è un maggior pericolo per la democrazia, bisogna chiedere coerenza e trasparenza, senza timori di stupide accuse quali quelle di "delegittimare" l'antimafia, la magistratura, le forze dell'ordine o, addirittura... la patria.


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