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C'era
una volta un garage e cinque anni della nostra storia ...
di Emma Baeri
Proponiamo ampi stralci della relazione
di Emma Baeri al convegno "Gli archivi al femminile:
Scrittura e memoria delle donne". Il brano è
stato pubblicato da Il Paese delle Donne.
C'era un piccolo archivio a Catania, l'archivio
del Coordinamento per l'Autodeterminazione della Donna:
cinque anni di discussioni, rapporti, lotte, dal 1980 al
1985, compressi in 12 cartoni e depositati molti anni addietro
nel mio garage.
Con quel gesto, timoroso e pieno di speranza,
molte donne della mia generazione chiusero una stagione
intensissima di cambiamento, individuale e collettivo insieme.
Il Coordinamento era un gruppo femminista
costituitosi a Catania nell'ottobre del 1980, a difesa della
legge 194 insidiata da due referendum abrogativi, quello
radicale e quello del movimento per la vita, che allora
ci sembrarono, seppure per ragioni opposte, integralisti
entrambi.
Il gruppo era nato dall'incontro di alcune
donne dell'Udi, dell'MLD e dei Collettivi femministi, ma
ben presto cancellammo tutte le sigle, e diventammo tante.
La storia che l'archivio racconta si svolge
dall'ottobre del 1980 all'ottobre del 1985, cinque anni
tondi che meritano a mio avviso più di una riflessione,
e abbiamo già perso tempo.
Negli anni Settanta ci piaceva dire che "i
tempi delle donne sono i tempi che le donne si danno",
facendo nostro il bel titolo di uno scritto di Annalisa
Usai e Lidia Ravera su un numero di "Ombre Rosse",
del '76 , se ben ricordo.
Oggi lo penso ancora, ma le attuali difficoltà
teoriche e politiche del movimento democratico, della Sinistra
per intenderci, e del movimento politico delle donne, del
femminismo per intenderci, mi fanno essere più attenta
e riflessiva.
Insomma, forte di quel tanto di sensibilità
che il mestiere di storica mi ha attaccato addosso, penso
che sarebbe opportuno dedicare attenzione e tempo ai contesti
politici, ormai storici, in cui le vicende di quegli anni,
e noi là dentro, si svolsero; interrogare le radici
e il percorso di un ventennio di cui quei primi anni Ottanta
furono l'approdo: dal movimento antiautoritario degli anni
Sessanta al centro sinistra, dal compromesso storico agli
anni di piombo, dal femminismo storico al pensiero della
differenza, fino all'era cosiddetta "craxiana",
scorrono oltre vent'anni di storia italiana del tempo presente,
per dirla con Paul Ginsborg che ne ha descritto la minuta
trama.
E tanto per cominciare vi comunico un mio
primo pensiero a riguardo: che in questi anni si sia consumata
la dissipazione di due corpi storici, quello della classe
operaia e quello del femminismo degli anni Settanta, corpi
solidali entrambi, individuali e collettivi insieme, corpi
di carne e ossa, "armati", letteralmente, conflittualmente
e pacificamente, di desideri e bisogni.
E' così? Era inevitabile? C'è
un nesso? Penso a riguardo che nella storia del movimento
femminista italiano la svolta dei primi anni Ottanta, nel
concettualizzare una drastica discontinuità di pratiche
tra femminismo storico e pensiero della differenza, tra
sessualità e simbolico, abbia prodotto una peculiare
forma di revisionismo storico, quasi una disfunzione del
senso del sé e della sua memoria: "partire da
sé" si diceva ancora, ma significò partire
da un soggetto impoverito delle sue connotazioni sessuali,
corporee, che restavano sul fondo del discorso, di nuovo
mute e barbare, in questo riproducendo surrettiziamente
la dualità mente-corpo. Quanto delle attuali difficoltà
politiche del movimento sono ascrivibili a questa scelta?
Più di quanto non immaginiamo, credo.
12 cartoni di memoria
La storia del Coordinamento catanese è un pezzo di
questo approdo, storia nazionale quindi, come fu ed è
sempre la storia del movimento politico delle donne, ma
con un orizzonte femminista nettamente marcato. Questa vicenda
racconta infatti la fantasia e gli scacchi di un'utopia
politica che ancora pensavamo praticabile in quegli anni,
che stavano oltre il confine di un decennio che aveva visto
il corpo femminile o-sceno, fuori scena, entrare prepotentemente
sulla scena politica con precise domande di cittadinanza,
diremmo oggi: autodeterminazione, denuncia della violenza
sessuale e sessuata, riconoscimento del lavoro di cura,
spazi e luoghi politici, disarmo unilaterale eccetera, tutto
tenuto insieme da quel rifiuto originario degli specialismi
e delle deleghe di qualsivoglia questione femminile, rigettando
piuttosto noi alla società tutta la responsabilità
di quella condizione che si pretendeva naturale ed era storica.
Questo raccontano i dodici cartoni, frettolosamente
assemblati e riposti assieme a striscioni e cartelli, a
manifesti e oggetti d'uso quotidiano, come quelli per prendere
il thè insieme, quei teporosi thè con la torta
nella sede di piazza Spirito Santo 4: speravamo che presto
vi avremmo rimesso mano, mentre ragni e tagliacarta cominciavano
ad avere altre speranze. Li riponemmo in garage, quindi.
Il mio sguardo ansioso e la polvere da me
periodicamente tolta non sarebbero tuttavia bastati a dare
un senso a quel deposito di memorie, se più di dieci
anni dopo Annarita Buttafuoco, lungimirante e appassionata
come sempre, non avesse deciso di prendere sul serio quelle
carte, la ricchezza che esse custodivano, e di prevederne
il riordino col sostegno di un finanziamento del MURST,
nel quadro di una ricerca su Politiche, culture ed esperienze
delle donne nell'Europa del Novecento da lei progettata:
anche per questo, grazie Annarita.
Fu così che cominciai a porre mano
all'impresa, individuando subito in Sara Fichera (una giovane
architetta siciliana laureatasi al Politecnico di Milano
con una tesi, da me seguita e correlata, sui luoghi politici
e gli spazi urbani del movimento femminista catanese) individuando
in lei quindi la compagna di viaggio ideale in questa avventura,
ché tale è stato il dar forma a quell'archivio,
costruirne l'inventario.
Inventario, quindi, come recita il titolo
del volume che racconta questa storia, Inventari della memoria
(questo volume sarà prossimamente in libreria per
i tipi di Franco Angeli, secondo di una collana promossa
dalla Fondazione Elvira Badaracco, Scritture d'Archivio,
che ripropone per una nuova lettura alcuni testi femministi
depositati per lo più presso gli Archivi Riuniti
delle donne di Milano).
Quando Lea Melandri la scelse per il titolo
del volume mi fece notare che questa parola racchiudeva,
racchiude, nella sua stessa etimologia un'idea di invenzione,
che nel testo si esprime in molte forme; sono infatti convinta
che laddove si assume come fondamento metodologico il partire
da sé, questa idea si presenta subito, a conferma
delle potenzialità euristiche ed epistemologiche
della pratica femminista.
Trovare e inventare
Avviene così che il desiderio e la speranza, la responsabilità
e la misura, diventino le parole chiave di una nuova grammatica
della ricerca. A cosa serve una ricerca, tanto per cominciare?
Forse a trovare un senso che sappia pre-vedere orizzonti
civili di felicità pubblica. Come si raggiunge questo
obiettivo, quando si ha davanti un piccolo capitale di memoria,
un archivio femminista? Forse ingegnandosi a inventare una
forma chiara più che un ordine rigido. "Trovare",
quindi, come esperienza etimologica e politica dell'invenire,
trovamento e invenzione insieme di quel senso. Insomma,
non c'è ricerca senza speranza - io penso - e la
speranza è qui, più che altrove, praticabilità
del mutamento, speranza civile, insomma.
E' stato con questi pensieri in testa che
io e Sara abbiamo cominciato a lavorare, forti anche di
un'autorizzazione a monte, quel nesso tra esperienza, competenza
e conoscenza che è stato un fecondissimo dono del
femminismo, quello slittamento dalla pratica al metodo che
ha consentito a me, storica, e a lei. architetta, di sperimentarci
con passione e modestia nel mestiere di archiviste, senza
pretendere di esserlo.
Accennerò quindi adesso ad alcune
questioni che strada facendo ci siamo trovate davanti, e
al modo nel quale abbiamo ritenuto di poterle affrontare
e saperle risolvere.
Archivi speciali?
Si tratta innanzi tutto e ovviamente di rispettare il soggetto
produttore, sì da non modificare il contesto di produzione
della fonte.
Abbiamo scelto di descrivere ciascun documento
utilizzando una sequenza apparentemente tradizionale, dando
però conto del significato nuovo che ad essa volevamo
attribuire. Quindi prima di tutto il soggetto, per registrare
la priorità simbolica e politica dell'evento della
soggettività femminile; subito dopo l'oggetto, per
tenere insieme quanto più possibile il pensare e
il fare, dentro quell'idea di pratica politica che ha inteso
risolvere drasticamente ogni dualismo, a partire da quello
originario: uomo-donna, mente-corpo; poi la data, un elemento
tradizionalmente ordinatore: ho scelto di adottare una sequenza
cronologica continua per consentire che questa storia, segnata
da una radicale discontinuità, fosse leggibile sia
nella sua durata, sia rispetto ai contesti politici di riferimento;
infine il luogo, meno importante ieri, quando nostra patria
era il mondo intero che si vivesse a Gela o a Milano, più
rilevante oggi, in tempi di reti telematiche, per ricostruire
quella velocissima rete di relazioni informali che il famoso
tam tam accendeva periodicamente, creando uno spazio geopolitico
estemporaneo e stabile insieme, arato da quel continuo viaggiare
per incontrarsi, per comunicare, per scambiare, di cui tutti
i volantini che ci restavano in mano alla fine erano il
residuo materiale. Ci sono inoltre qua e là alcune
piccole note in margine al testo, che danno conto sia della
opacità di quel preciso documento, sia delle perplessità
di chi doveva collocarlo nel posto giusto.
Una nuova urgenza
Ma quello che ha fatto letteralmente la differenza è
stata un'urgenza nuova, assolutamente imprevista, presentatasi
in corso d'opera: la necessità di segnalare il nuovo
contesto, quello nel quale la fonte, prodotta oltre venti
anni addietro, ha rivisto la luce: una questione di nascite
e rinascite insomma, un modo peculiare di muoversi tra le
categorie storiografiche tradizionali dell'origine, della
durata, e del mutamento.
Nel momento in cui ho aperto quei cartoni,
man mano che quelle carte ricominciavano a respirare, la
storia che esse raccontavano mi è sembrata così
straordinaria da meritare un gesto anch'esso fuori dall'ordinario
lavoro di sistemazione: avrei provato a far risuonare il
taglio del partire da sé che quella storia aveva
mosso anche nel gesto del dare forma a quelle carte, nel
passaggio dall'archivio all'inventario, e in molti modi.
Dare forma e non ordine, lo ripeto, e non
solo perché registravo l'inadeguatezza del raccontare
una storia di radicale trasgressione più che di disubbidienza,
quale quella storia era stata, utilizzando una parola fortemente
disciplinante, quanto per il significato nuovo che la parola
"forma" aveva assunto nel lessico politico di
quegli anni, quando si parlava di forme della politica,
di critica delle vecchie forme e di produzione di forme
nuove, come la pratica dell'autocoscienza, per esempio;
infine, poiché quello che mi passava tra le mani
era un corpo politico con una sua forma precisa, la cura
della sua memoria doveva allargare l'area semantica e politica
di questa parola, piuttosto che imporne delle nuove.
Decisi allora di riproporre quel gesto luciferino,
che implicava il governo orgoglioso del tempo di sé
come tempo della liberazione, in quanto esso era espressione
della forza simbolica originaria, quella che aveva fatto
nascere il soggetto imprevisto, noi, interrompendo la continuità
del senso comune del tempo storico, che non ci aveva previste
come soggetti.
Lo avrei reiterato quindi, per vedere cosa
succedeva, sperando in una rinascita politica assieme alla
memoria della nostra storia. Insomma, tra origine, mutamento
e durata, scelsi di misurare l'eventuale durata del mutamento
a partire da quell'origine chiara.
Contrariamente a quello che avviene per la
sistemazione delle fonti storiche - anche per quelle di
storia delle donne - mi sembrava infatti che le fonti del
femminismo sollecitassero un altro trattamento, proprio
in virtù dei residui fortemente metodologici che
la pratica del partire da sé aveva inaugurato nella
strutturazione di un nuovo senso comune dell'essere donne,
cambiato per sempre dopo quel taglio.
In breve, mi è parso che per dare
forma alla memoria del femminismo fosse giusto riattivare
in qualche modo una pratica femminista, creare uno scivolamento
da quella pratica a un metodo, e poi a una pratica nuova,
recuperando l'idea di laboratorio, di artificio, che era
stata alla base dell'autocoscienza, un'invenzione, insomma.
Ho quindi scelto di definire non più uno bensì
due contesti per la lettura delle fonti, quello della loro
produzione e quello della loro sistemazione, rendendo ben
visibili le due diverse forme, la forma del passato, della
memoria politica di quel passato, e la forma del presente,
della pratica politica del presente, solo alludendo ad una
possibile proiezione da ieri a oggi, inevitabile quando
ci muove nello spazio empatico della storia delle donne.
Insomma, ho proceduto in modo che il dare forma a quella
memoria non potesse prescindere dal disegnare una forma
nuova, affiancata ma non sovrapposta, che segnalasse la
fecondità politica ed euristica del femminismo.
Cosa abbiamo fatto
Prima di tutto, ovviamente,abbiamo, dato valore alla relazione
tra me e Sara, relazione tra età differenti (58 anni
io, 34 lei) ma soprattutto tra differenti generazioni politiche,
quella tra una femminista storica e una "ereditiera",
come sono state nominate le giovani donne in consapevole
ascolto e pratica della tradizione femminista.
Su questa definizione ho tuttavia qualche
perplessità, perché mi sembra che dica troppo
alla lettera il movimento del dare e avere, in modo unidirezionale,
dalla vecchia alla giovane. Nella mia esperienza invece,
ben oltre questo fatto, il gesto del trasmettere ha avuto
subito implicazioni di coscienza impreviste. Nel rapporto
tra me e Sara ho sentito infatti di ereditare io il suo
ascolto, il suo desiderio di sapere, la sua curiosità
per la mia storia, nel momento stesso in cui il mio narrare
riempiva il sacco della sua esperienza; insomma, ho avuto
la precisa sensazione di radicarmi nel futuro attraverso
lei nel momento stesso in cui lei si radicava nel passato
attraverso me.
Quale era l'origine di questa reciprocità?
L'esperienza delle mie maternità, della mia riflessione
su di esse, e quella della mia ricerca didattica, mi hanno
fornito, entrambe e insieme, alcune risposte. "Governo
della simbiosi" avevo chiamato e chiamo quella misura
della relazione tra due che prevede la possibilità
di acquistare autonomia senza perdere affetto e godere dell'affetto
sperimentando l'autonomia, una possibile via femminile all'emancipazione,
insomma.
E' stata infatti la previsione di uno spazio
di trasgressione tra me e Sara - e questo solo io potevo
prevederlo - a consentire l'evento della reciproca eredità;
è stata la creazione di un intervallo di rispetto,
di cura mite, a dare letteralmente corpi, i nostri, ai desideri
che le nostre diversità generazionali esprimevano:
questo mi è parso il bene più grande da trasmettere.
Così ho proposto a Sara di annotare qualsiasi pensiero,
suggestione, critica, le venisse in mente nel concreto lavoro
della costruzione dell'inventario, sia in relazione alle
carte, sia rispetto a quanto tra noi scorreva. All'inizio
la cosa mi era parsa un modo per non perdere le sue domande
e la mia curiosità, alla fine questo "diario
di bordo" si è rivelato uno strumento straordinario
per dare forma e rappresentazione alla trasmissione della
storia del movimento femminista, e soprattutto del femminismo,
alla sua risonanza in una giovane donna, ben al di là
della nozione corrente di "femminismo diffuso":
esso è diventato uno dei molti strati di memoria
di cui gli inventari che abbiamo messo insieme sono composti.
Infine, questo evento è stato anche
salvato, simbolicamente e politicamente: Sara ed io curiamo
entrambe questa ricerca, firmiamo il libro a pari titolo,
entrambe riconoscendoci la fatica e il merito della cura
della memoria, attraversando in tal modo consapevolmente
e allegramente il confine disciplinare, disciplinato, e
accademico, che prevede gerarchie consolidate tra le diversità.
Soggetto politico/soggetto storiografico
Un'altra difficile questione è stata quella del soggetto,
del rapporto tra soggetto politico e soggetto storiografico,
sotto due differenti angolature.
Come sciogliere il nodo io-noi che aveva
caratterizzato la storia del femminismo in quegli anni?
Come ritessere, sempre che lo si scelga, la trama fitta
dei rapporti tra i molti io che fecero quella storia, tra
quei molti "partire da sé" che rappresentarono
sulla scena pubblica e privata, personale e politica, il
grande taglio del femminismo?
La scommessa di far durare il mutamento ha
trovato in questo punto il suo ostacolo più duro,
perché se ieri la passione politica del fare rese
inevitabili grovigli e conflitti, oggi, sulla scena politica
del rifare, del registrare la nuova forma del mutamento,
la passione sola non mi bastava, dovevo cercare una misura
prudente e rispettosa, che desse voce a quell'io-noi del
soggetto politico di ieri.
E' a questo punto che ho sperimentato una
misura etica e politica, che potesse dar conto al meglio
sia della forma nuova della memoria, sia della sua cura.
Una scelta difficile, accompagnata da dubbi e tormenti:
quella storia è infatti ancora calda, e molte ferite
stentano a rimarginarsi, o sono ricoperte da una pelle ancora
troppo sottile e delicata.
Sono uscita dal tormento facendo scelte chiare,
e inevitabilmente parziali, tutte dichiarandole. Delle molte
che venti anni fa eravamo ho cercato e rintracciato solo
tredici compagne: tutte erano state protagoniste degli eventi
narrati, tutte volevo che ne scrivessero. Ma come fare?
Avrei potuto intervistarle seguendo la feconda
metodologia della giovane storia orale; ho scelto di non
farlo, per molte ragioni. Perché non volevo far loro
sgambetti della memoria, perché non volevo precipitare
senza rete in un gioco rischioso di rimandi, perché
mi interessava ancora una volta raccogliere la durata di
quel mutamento in loro, o la sua evaporazione, piuttosto
che raccogliere estemporaneamente i loro ricordi.
Ho pensato: per le fonti "oggettive"
c'erano, ci sono, le carte d'archivio; ma le fonti soggettive
erano loro, in carne ed ossa, le mie compagne: non potevo
perderle.
Protagoniste diverse di una storia differente,
esse erano ancora lì, preziose testimoni di una storia
comune, di una memoria forse difforme, forse divisa, di
una coscienza mutata, duratura, smarrita, chissà:
mi sembrava importante saperlo.
Per questo ho costruito tracce di interviste
con parti comuni per tutte e parti mirate su ciascuna, per
come io ne ricordavo le diversità biografiche e politiche,
gli interessi e l'impegno. Alla fine si è composta
una storia plurale, un controcanto corale al mio a solo,
alla mia narrazione che introduce la memoria di quegli anni
e il suo inventario sotto l'ultimo dei nostri slogans, quello
dell'8 marzo 1985, "Noi, utopia delle donne di ieri,
memoria delle donne di domani".
E' nato così una sorta di un
testo a fronte, la cui lettura consente di dare voce alle
diverse memorie, divise o condivise che siano, costituendosi
il libro stesso come un luogo politico imprevisto, forma
politica inusitata - forse effimera, forse duratura, ancora
non so - di una relazione nel presente che il comune bisogno
di aver cura della memoria ha sollecitato e composto. In
fine, e in gran parte derivata dalla questione inizialmente
posta - forma e cura della memoria - c'è un'altra
questione: come scrivere quando si sono vissute e fatte
le cose che si devono scrivere? Quale prossimità,
quale distanza tra me e quei fatti? Qui le trasgressioni
sintattiche, gli anacoluti ricorrenti e voluti, le discontinuità
verbali, danno conto della difficoltà, e insieme
della necessità, di una scrittura del genere, di
genere, de-genere mi vien da dire. Sì, perché
sconfinare, attraversare, trasgredire, e a voce alta dire,
è il necessario supplemento da pagare per questo
viaggio, il viaggio politico e transdisciplinare del soggetto
femminista, di cui la forma stessa della ricerca dice il
percorso: stratigrafia di memorie, inventari per l'appunto,
rigorosamente in transito.
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