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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

Dolceamara nostalgia del presente - Bertolucci era nato nel 1911 a San Lazzaro in provincia di Parma ed è morto ieri a Roma. La sua lingua rivela una quieta purezza che la rende tra le più illuminate e affabili del '900. E' stato un poeta letteratissimo, e abile nel cancellare le tracce di prestiti e inevitabili innesti.

Carico di anni e di versi, se ne va un altro poeta, ma restano i suoi anni e i suoi versi, per noi. Di Attilio Bertolucci, amo soprattutto una poesia, che s'intitola Gli anni. E' una poesia del 1951. La rileggo, e mi dà una strana pace laica, e cioè popolare, umana: "Le mattine dei nostri anni perduti,/ i tavolini nell'ombra soleggiata dell'autunno,/ i compagni che andavano e tornavano, i compagni/ che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.// Perché questo giorno di settembre splende/ così incantevole nelle vetrine in ore/ simili a quelle d'allora, quelle d'allora/ scorrono ormai in un pacifico tempo,// la folla è uguale sui marciapiedi dorati,/ solo il grigio e il lilla/ si mutano in verde e rosso per la moda,/ il passo è quello lento e gaio della provincia." Nel Meridiano Mondadori, uscito nel 1997 e curato egregiamente da Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, si commenta "l'inversione - con la struttura nominale dei primi tre versi e mezzo, e l'anacoluto, al v. 4, del secondo emistichio" - segnalando il "felice intreccio ritmico-melodico di questi versi", oltre al gioco dell'allitterazione in or , che tocca tutta la poesia (giorno, ore, allora, tornavano, tornarono, scorrono ormai, dorati, rosso). Sono tre quartine, forma che mi ha molto guidato nel mio lavoro. Basta leggere una poesia come questa, per rendersi conto della quieta purezza di una lingua poetica tra le più illuminate e affabili del Novecento italiano. Tratta dalla silloge Lettera da casa , in essa ritroviamo alcuni dei temi e dei modi più sorprendenti dell'ispirazione dell'autore parmense, della sua laica gratitudine d'esistere. Innanzi tutto, la compresenza di passato e presente (il passato presente proustiano), colta negli accadimenti naturali del sole e della luce, in una nostalgia dell'attimo che la memoria svolge in durata, in accettazione evocativa di un dolore (storico, alluso) che esce trasfigurato. E il passato che rivive nel presente, nello spazio urbano o agreste, sembra anche la chiave per cogliere il passaggio espressivo, in Bertolucci, dalla lirica breve all'ode narrativa, e infine al romanzo lirico in versi. Un'altra osservazione, accanto a questa poetica di ascendenza proustiana, - una sensazione soprattutto visivamente rimemorante, luminosa, pare fondare le sue "intermittenze del cuore" - Bertolucci la suggerisce nei suoi modi sintattici apparentemente semplici, allineativi, fatti di ripetizioni e riprese avvolgenti, di ritorni recursivi, dove la metrica s'incarica di un'ulteriore lettura all'indietro. Si tratta di un verso, già ne Gli anni , che naturalmente si nutre della frase, spezzandola in un ritorno suppletivo: "Ho pensato ad essi lietamente, che non tornarono più". E' Leopardi, nello Zibaldone , a parlare della natura agrammaticale o antigrammaticale della devianza lirica. Il ritorno, vera orologeria poetica di questa "falsa prosa", permette di misurarne un battito quasi di prima stesura, fisiologico e obbediente solo a un singulto ulteriore, e in questo caso allo sfinito sgomento che, come la sintassi brada, può mutarsi in lietezza, liberazione del fiato. Il metro viene così svincolato da ogni regola che non sia l'identificazione formale del sentimento, fruttando un verso libero e lungo: dalle prime undici sillabe tradizionali, ai successivi versi di sedici sillabe, quindici, sedici, e poi dodici, tredici, tutti irregolari (settenario e novenario, o doppio ottonario), fino alla ripresa dell'endecasillabo: "scorrono ormai in un pacifico tempo". Le tre strofe coprono due lunghe frasi, e la seconda più lunga non è neppure rotta dal punto, scorrendo davvero come il senso esplicito causale indicato in una perfetta concordanza di forma ed evento. Le mattine della provincia (prima e ultima parola della lirica) ritornano a noi come forse in nessun altro poeta del secolo, con un'aggettivazione nobile e popolare allo stesso tempo, e con quel vero piccolo capolavoro di esattezza che è la nominazione dell'"ombra soleggiata", che fa vibrare tutto il corso dei versi. Basta una poesia come questa per affermare che Bertolucci possiede, come sua dote unica e rara, uno sguardo espressivo , che non sembra mestiere, anche se certo lo è, ma disposizione fisiologica al "disturbo" dell'emozione, a quella "poetica dell'extrasistole" (di cui sofferse in gioventù) che gli ha fatto ripetere una massima di Paul Klee: "Segua ognuno il battito del suo cuore." Di che cosa è fatta l'emozione di Bertolucci? Di una nostalgia del presente, si potrebbe ripetere, di una memoria della discendenza (familiare e personale), di una campagna (la pianura e l'Appennino emiliani), di una città amata (Parma), e di una città della convalescenza (Roma), che diventa lo sfondo di una "nevrosi morbida", accolta come la visione dei gabbiani invernali sul Tevere: luogo di "un'intenta pazienza", di "un emporio mobile", di "una rivelazione gioiosa e sterile" (I gabbiani, da Viaggio d'inverno, 1971). Una poesia domestica, insomma, da storia minore, fatta di nascite e morti, incontri, scoperte giovanili, capace di ritagliare scorci di vita agraria e cittadina, dall'anteguerra al dopoguerra, con gli avvenimenti della grande Storia che restano sullo sfondo, poiché in primo piano resta invece il suo tema: l'amore corrisposto, coniugale e paterno, oppure semplicemente creaturale. L'intersoggettività, dunque, e non la singolarità, l'appartenenza redenta e non l'inconciliata deprivazione (come in Saba): non il dramma, ma la nostalgia amaramente dolce del presente accettato e custodito. Fatta di cristallizzazione narcisistica aperta, e di prosa del mondo, la poesia di Bertolucci coincide così con un pacato realismo del trauma, tramandandoci la ferita privata e la sua gioia, lasciando sullo sfondo la storia collettiva. Ed è questa la sua forza, e, se si vuole, il suo limite. La morte di un poetaarticolo apparso su il Manifesto, 15 giugno 2000, sulla morte del poeta Attilio Bertolucci. Il pezzo è scritto da un altro grande poetadi Gianni d'Elia******July, 2000
 
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