Le due facce del mettersi assieme

di Marcello Benfante

Raccontare il Sud e rendicontare sulle sue reali condizioni sta diventando sempre di più un optional della nostra pubblicistica. Alle pittoresche e abbozzate inchieste giornalistiche delle grandi firme calate dal profondo Nord, il cui capofila è il solito ambiguo Bocca, si affianca una produzione "indigena" (vedi Claudio Fava) non meno superficiale, fatta di schizzi di viaggio, inconcludenti e ridondanti chiacchiere fra i soliti noti e consuete litanie politologiche e dietrologiche (dietro le quali c'è il nulla più assoluto). Di sostanza, insomma, neanche l'ombra. Al meglio, come nel caso di Deaglio, alcune notazioni sparse capaci di cogliere per exempla (ma più grazie ad intuito, empatia e mestiere che a una sistematica disanima di fatti) un'atmosfera, una tendenza, una linea d'evoluzione. E invece, quello che veramente servirebbe per un intervento serio e costruttivo nella realtà meridionale è una lettura scientifica della sua base socio-economica. Un ritorno, se vogliamo, all'approccio originario di Franchetti, Sonnino, Fortunato, Salvemini, Colajanni, Villari, per fare solo alcuni nomi eccellenti dietro i quali c'era un pensiero e un metodo oggi soppiantati dagli imperativi dell'instant-book, della mafiologia nazional-popolare, di una libellistica di pseudo-denuncia che usa materiale statistico grezzo, se non addirittura inattendibile.
Un lavoro, invece, che ci fornisce materiali validi e concreti per avviare un dibattito ed approfondire l'analisi del Mezzogiorno è sicuramente l'indagine condotta da Carlo Trigilia, coadiuvato da Ilvo Damianti e Francesco Ramella, per conto dell'Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes) e in collaborazione con il Formez. La ricerca appare nei Saggi dell'editore Donzelli col titolo Cultura e sviluppo. L'associazionismo nel Mezzogiorno, (pagg. 243, lire 40.000). Si tratta del primo censimento sistematico del vasto e variegato fenomeno dell'associazionismo culturale meridionale, ed è un'analisi che non manca di offrirci risvolti sorprendenti che possono essere interpretati, con un po' di buona volontà, come segnali di un risveglio del nostro Sud. Risvolti sorprendenti - si diceva - non solo se considerati in relazione a certi stereotipi o a una tradizionale chiave di lettura, ma anche rispetto ad analisi recenti come ad esempio quella di Renato Brunetta che nel suo (successivo) Sud, edito sempre da Donzelli, afferma che "in una realtà come quella meridionale l'elemento strutturalmente distorsivo è rappresentato da una troppa debole e, spesso, inesistente società civile, incapace di comportamenti realmente cooperativi". Inutile dire che Trigilia non afferma il contrario. E però ci mostra, per dirla con le parole di Sergio Zoppi, che firma la presentazione al volume, "un Mezzogiorno lontano da quella fissità immutabile che di continuo ci viene rappresentata".
Secondo Trigilia e i suoi collaboratori, uno dei limiti del meridionalismo del secondo dopoguerra è stato certamente la sua impostazione rigidamente economicista, che ha indotto a trascurare il contesto istituzionale interno, sia socio-culturale che politico, del Sud.
Più che un'esclusione di tale sfera istituzionale, si è trattato di una sua interpretazione (e sottovalutazione) come variabile dipendente, cioè come un'implicita conseguenza, logica e cronologica, del sottosviluppo economico. Non è difficile individuare in questa unilateralità dell'approccio analitico il vizio antico e l'influenza predominante di un certo determinismo economicista marxista, sempre tendente a una enfatizzazione della struttura economica e a una subordinazione degli elementi sovrastrutturali.
Trigilia pone giustamente la questione del rapporto fra cultura e sviluppo in termini di interdipendenza e di reciproco condizionamento, intendendo per cultura un "insieme di risorse cognitive, normative ed espressive, che orientano l'interazione sociale". E' ovvio che in questa prospettiva l'associazionismo culturale assume le caratteristiche di un decisivo e discriminante "indicatore della vitalità sociale e culturale". Non si tratta, evidentemente, di una cartina di tornasole di immediata e inequivocabile lettura, che possa cioè consentire una metodologia meramente quantitativa e descrittiva. L'associazionismo culturale è anche, e in misura non indifferente, effetto ed emanazione di quella che Trigilia definisce la "colonizzazione politica della società", e non sempre questo fenomeno esula e si distanzia da quel "familismo amorale" (ovviamente adeguato ai tempi) che è l'elemento tradizionale del solidarismo meridionale. Occorre dunque non limitarsi al dato nudo e crudo, ma integrare l'analisi con un'interpretazione qualitativa dei fenomeni. I numeri, comunque, sono di per sé molto eloquenti: circa seimilaquattrocento associazioni culturali basate sul volontariato (escluse le strutture pubbliche e le associazioni religiose) che coinvolgono circa settecentomila soci e tre milioni di utenti saltuari. Un fenomeno di massa, dunque, la cui innegabile vastità assume intrinsecamente, al di là di ogni ulteriore interpretazione, caratteristiche di dinamismo e un senso di trasformazione dei rapporti sociali che getta una luce nuova e diversa sulla realtà meridionale.
Ovviamente, non tutto quello che luccica è oro. Tuttavia è possibile affermare che siamo di fronte a un fatto nuovo per il Sud: a un bisogno e a una volontà di stare insieme a cui si aggiunge una crescente capacità di auto-organizzazione nella legalità e comunque all'interno della dimensione civile, della polis. E' troppo poco per sbilanciarsi in ottimismi statistici, ma è abbastanza per affermare che il Sud non è una realtà immobile e stagnante, che invece ha un'evoluzione, per quanto lenta e peraltro non priva di settoriali accelerazioni. Il fenomeno dell'associazionismo è infatti recente ed è stato caratterizzato da uno sviluppo rapido: gran parte delle associazioni sono sorte dopo il 1980, e una significativa quota risale appena ai primi anni Novanta.
Questo movimento così rigoglioso può essere a sua volta foriero di ulteriori dinamismi sociali in grado di scardinare il familismo, il fatalismo, la carenza di un comune sentire la "cosa pubblica", la sfiducia nelle istituzioni, la deficienza di un senso dello Stato, l'inibizione atavica dello spirito di intraprendenza: può essere cioè volano di uno sviluppo autonomo, tutt'oggi zavorrato non solo da ritardi strutturali, ma anche da retaggi culturali e ideologici. Ancora una volta dobbiamo usare però il freno della prudenza. L'associazionismo da solo non può innescare una sorta di moto perpetuo, ma solo favorire le condizioni e le probabilità di attuazione di un circolo virtuoso. Né d'altra parte, esso è immune (giova ripeterlo) da quei vincoli di assistenzialismo, clientelismo e consociativismo che costituiscono i mali incancreniti della realtà meridionale. Bisogna allora discernere il grano dal miglio, pur valutando nel complesso la portata innovativa e propulsiva del fenomeno. E' innegabile che il volontariato associativo è stata una risposta spontanea alla latitanza dell'intervento pubblico e delle istituzioni deputate, che ha colmato (parzialmente) un vuoto, offrendo nel contempo "un canale di partecipazione alternativo e compensativo" che in qualche modo riequilibrasse gli scompensi dovuti alla crisi di credibilità e di attrattiva dei partiti politici. L'arcipelago associativo - per gran parte costituito da isolotti e atolli - è comunque un universo assai difficile da scrutare per la sua precarietà, la sua frammentazione e la sua incerta, mutevole configurazione. Tutti fattori di instabilità acuiti da elementi contestuali. Constatiamo quindi nel contempo "fragilità del retroterra associativo e effervescenza del tessuto sociale", condizioni oppositive ma non contraddittorie. La metà delle associazioni è costretta ad operare con risorse finanziarie estremamente misere. Il che ci dà immediatamente un'idea molto nitida sia della fragilità economica del fenomeno, sia della sua tenacia motivazionale. Se alla base di tutto c'è un incremento del reddito che ha favorito una crescita dell'istruzione e di conseguenza della domanda di beni e servizi culturali, dobbiamo anche registrare il significato extraeconomico della realtà associativa, la sua vocazione politica e ideale in senso lato, che peraltro a sua volta concorre a incentivare e promuovere il consumo culturale.
Va da sé che l'associazionismo si configura come una risposta autogestita alle difficoltà dei giovani di penetrare nel mercato del lavoro. Circa la metà dei soci non ha un'occupazione, un terzo è costituita da studenti. E tuttavia bisogna tornare a dire che non è tutto economico il propellente di questo movimento. L'aggregazione può essere intesa come tentativo di trovare una compensazione a una inadeguata collocazione sociale. Le associazioni consentono anche strategia relazionali, processi di riconoscimento, collocazione, identità. Ma non solo questo: c'è una diffusa esigenza di condurre insieme ad altri un impegno volto al miglioramento delle condizioni di vita nella propria comunità. C'è il desiderio di condividere attivamente esperienze, di perseguire interessi comuni. Anzi, è proprio questo il dato nuovo. Si consideri ad esempio che sono proprio le associazioni sorte più di recente quelle che risultano maggiormente capaci di realizzare una più vasta e intensa partecipazione dei propri iscritti (è anche vero, d'altra parte, che talvolta una forte motivazione ideologica, come nel caso ad esempio delle associazioni ambientaliste, può dare vita più a forme di mobilitazione che di partecipazione).
I dati confortano questa chiave di lettura: il 58% dei responsabili delle associazioni si dichiara impegnato politicamente, e a costoro bisogna aggiungere un'ampia percentuale di soci e dirigenti che in passato hanno avuto esperienze di militanza. C'è quindi un'evidente matrice etico-civica, di intervento sociale finalizzato, in queste associazioni, le quali interpretano un ruolo pubblico di critica e di stimolo soprattutto nei confronti delle amministrazioni locali, ma anche della politica in generale. Se in passato l'associazionismo è stato considerato e usato dalle sedi tradizionali di coesione del consenso politico come un "sistema parallelo" di reclutamento, una sorta di integrativa cinghia di trasmissione intimamente connessa al "partito" inteso quale sede e sbocco di un processo formativo, oggi pare connotarsi come un'alternativa ai modelli organizzativi e partecipativi della cosiddetta Prima Repubblica. C'è una "elevata contiguità tra l'universo della politica e l'associazionismo", ma anche una radicale rottura nei comportamenti collettivi, nei modi di concepire l'impegno e nella visione stessa della società. Gli interlocutori privilegiati restano quelli pubblici (Comune, Provincia, Regione e Stato), ma anche la scuola è un punto di riferimento importante. Gli ambiti tradizionali della politica hanno ancora una notevole forza di attrazione, ma c'è un 13% circa dei dirigenti (la percentuale - suppongo - sarà molto più alta fra i soci) che rivela in rapporto ad essi un atteggiamento che si potrebbe definire freddo e che va dalla delega passiva, al distacco, al rifiuto e perfino al disgusto. Il disincanto e il disinteresse per la politica (nella sua accezione e nella sua dimensione tradizionali) cresce in misura inversamente proporzionale al grado di istruzione, il che fa supporre nella base una vasta area di insofferenza. Anche la collocazione politica si differenzia in base al livello di istruzione (più a sinistra la componente provvista di titoli di studio più elevati, tendente al centro-destra quello meno istruita). Ma anche la data di fondazione delle associazioni è indicativa. In linea di massima, le associazioni più recenti sono orientate verso sinistra, mentre quelle più antiche, fondate prima degli anni Sessanta, propendono verso il centro-destra.
Analogo discorso si può fare in base ai settori d'intervento: a sinistra, ad esempio, le associazioni ambientaliste, moderate invece quelle che operano nel campo delle tradizioni culturali (fatto spiegabile con la necessità di muoversi in un campo ristretto e quindi di avere un rapporto tecnico-"amicale" con le istituzioni locali). Significativa è però anche la percentuale di coloro che si sottraggono ad una collocazione tipica nell'asse destra-sinistra. Ad ogni modo, il senso di appartenenza ai partiti si è fatto globalmente assai più blando, ed è diffusa la predilezione di formazioni politiche nuove o comunque più marginali nel panorama politico tradizionale. La nuova leadership dell'associazionismo degli anni Novanta presenta caratteristiche diverse dal passato: una cultura più laica, una maggiore autonomia, una maggiore attenzione alle esigenze individuali, una ricerca di canali alternativi a quelli tradizionali, una predilezione per ambiti associativi piccoli.
Da tutto ciò Trigilia ricava la conclusione che nel Mezzogiorno si è venuta consolidando negli ultimi anni una "mobilitazione sociale" che procede dal basso ed è auto propulsiva, nonché un processo di crescente "autonomizzazione della società civile". Lo stereotipo di un Meridione statico e apatico viene, se non altro, incrinato. Ed è una situazione generale a carattere "diffusivo" che riguarda sia i capoluoghi (dove opera il 46,8% delle associazioni) che le province, e si articola in maniera interessante a livello regionale e provinciale (la Sicilia detiene il maggior numenro di associazioni, ma è la Sardegna ad avere la più alta densità associativa, e quest'ultimo primato a livello provinciale spetta a Pascara). E' un quadro nuovo, che comunque va interpretato con estrema cautela. Vi è, infatti, ancora una forte dipendenza politica, sia finanziaria che organizzativa, dell'associazionismo. Così come si registra una persistente connotazione culturale piccolo-borghese a cui si affianca una nuova "borghesia di stato" che vede nella partecipazione associativa uno stile di vita mutuato sul modello del circolo aristocratico e usato come strumento per intessere relazioni finalizzate all'ascesi sociale.
La crescita dell'associazionismo va ricondotta alla crescita del welfare pubblico. Ma questo processo è stato caratterizzato da un aumento della capacità di consumo a cui non ha fatto riscontro una crescita della base produttiva. E' una situazione di sviluppo dipendente che non manca di effetti virtuosi, ma neanche di aberrazioni. L'associazionismo culturale e le nuove figure professionali di elevato profilo tecnico-culturale sono ancora in questo contesto un polo di una dialettica di compromesso imperniata su vecchie logiche particolaristiche e clientelari che regolano il funzionamento di istituzioni tenacemente irriformabili. Nell'associazionismo si riflette dunque "l'ambivalenza degli orientamenti e delle strategie delle nuove classi medie cresciute nella società meridionale". Eppur si muove, questo Sud, ma non sempre nella direzione giusta.
L'associazionismo si presta sia ad essere strumento di un'integrazione di tipo clientelare a livello locale, sia ad essere grimaldello di uno scardinamento di questa logica. Il giudizio dei ricercatori è che comunque in questa dinamica prevalgono gli aspetti positivi. Assciarsi significa aggregare la domanda, partecipare, condividere volontariamente uno scopo e unitamente perseguire fini comuni. Tutto ciò avversa la cultura atavica del fatalismo e promuove una cultura moderna dell'intrapresa e della fiducia. Quest'analisi e questo giudizio sono ovviamente condivisibili, oltre che confortanti (una volta tanto), perché basati su fatti. E tuttavia, forse per storica propensione allo scetticismo, mitigherei queste conclusioni di segno positivo, ricordando nuovamente anche l'altra faccia dell'associazionismo culturale, la sua idoneità, soprattutto in provincia, al perseguimento di logiche parentali, il suo carattere assistito e spesso addirittura parassitario, il suo farsi ricettacolo di ambizioni velleitarie pronte a scagliarsi contro ogni politica di rigore, giustamente selettiva, e perfino contro la logica stessa del mercato. Stiamo attenti, allora, bisogna distinguere: c'è pure un associazionismo marcio e squallido che vive (o magari vivacchia) di finanziamenti a pioggia in un sottobosco clientelare, che è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore o di chi promette la manna e gli sperperi di una società-spettacolo con troppi circensi.
Nota: L'articolo "Le due facce del mettersi assieme" di Marcello Benfante è stato pubblicato dalla rivista "La terra vista dalla luna" (n.10, dicembre 1995) nell'ambito di una discussione su "Mezzogiorno : L'associazionismo nel Sud" a cui hanno partecipato, oltre a Benfante, Francesco Ramella e Antonio Perna.
Released: August, 1998


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