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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Note a margine

di Sebastiano Leotta

Un'intimità con sé stessi che cerca continuamente la relazione, una vita, potremmo dire, al dativo. Infatti, il dativo è il caso delle relazioni con se stessi e con gli altri, dunque il caso della comunione, della compartecipazione, della pietà, della "pietas" insomma: "cca ci su i manu". In questo offrire le mani c'è ancora un residuo di rapporto che lo lega all'altro, quindi si ferma al di qua di un nichilismo compiuto 8immaginiamo l'assenza del verbo, una frase puramente nominale, la spettralità dell'ultimo Caproni).
Troviamo la condizione di un io in totale dissidio che nella poesia non trova catarsi, anzi una riconferma del proprio "cor irrequietum": "a poesie è / comu na cannila: / sciuscia cca". Questa poesia vuole assegnarsi una fine, ma questa fine coincide con il termine stesso della propria esistenza individuale: "Mon unique espérance est dans mon deséspoir" (Racine). La poesia non è dunque risarcimento, anzi aumenta il senso di precarietà. La scrittura poetica rivela la sua natura illusionistica ("ava / tri uri ca caminu e sugnu sempri ccà").
Qui non c'è nessuna ricerca sul dialetto, non vi è dialetto della nostalgia della comunità perduta, una lingua archeologica, una protolingua, anzi il dialetto di "Quattru sbrizzi" non ha bisogno nella gran parte dei casi di traduzioni. Non mi sorprenderei se molti di questi versi avessero una originaria stesura in lingua. Quello che accade è la tensione tra l' "humilitas" della parlata locale e il contenuto drammatico e mentale dei versi. Accade questo, che il dialetto non rende accettabile il dramma, non lo risolve alla ricerca di una consolante lingua perduta quanto rende più inquietante la biografia di Salvo Basso perché il dissidio è portato nelle zone dell'affettività, della ristretta comunità dei dialettali, quindi la natura dei suoi versi (lo scopo della sua operazione colta e raffinata) è natura ludica, ironica, di una ironia che potremmo dire ariostesca, dove la condizione di Salvo Basso è abbassata di tono e, tramite il dialetto, privata della sua presunta e irrelata singolarità. Ci vuol poco e si arriva alla parodia dell'elemento drammatico, essendo la parodia, il contrappunto giocoso, uno dei momenti della intelligenza di sé. Il dialetto diventa il luogo dell'ironia, non si tratta di scoprire il punto fisico o metafisico, l'io è questa incompiutezza ("l'assu d'oru ca mi manca"), insidiosa eppure necessaria. La scrittura perde il suo baricentro o meglio lo sposta a favore dei sensi (vista, tatto - anche il gesto della scrittura è un gesto che coinvolge i sensi). Le vie d'accesso a se stessi sono allora i "gestus corporis", ogni circostanza, anche la più quotidiana, diventa meraviglia ("scinnu do lettu co pedi giustu").
Il massimo affidarsi ai sensi, le mani sembrano incorporare la vista ("ti taliu che manu"), che è un bellissimo motto che pare avere tutta la dignità di quelle sentenze classiche che volevano definire il significato di un'arte particolare: "le sensazioni affluiscono alla punta delle dita, la mia mano vive, la mia mano vede" (Jean Genet, "L'atelier di Giacometti", Genova 1992). L'arte della scultura ha trovato il suo motto.
Released: Jennuary, 1998


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******July, 2000
 
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