Per un ricordo del poeta Salvo Basso, di maria g. canfarelli

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Per un ricordo del poeta Salvo Basso

di Maria Gabriella Canfarelli (pubblicato sul n. 92/2002 di Girodivite)

A pochi mesi dalla morte prematura di Salvo Basso, avvenuta in aprile, ritroviamo nella sua vasta produzione poetica - in lingua, ma in dialetto soprattutto - , tra versi ironici e graffianti sempre più largo il dolore, colto in quell’ombra di malinconia già presente nel primo esito poetico in dialetto, “ Quattru Sbrizzi” (Catania, Nadir, 1997) con il quale Salvo connota fortemente il rapporto duale con la poesia, e con le parole alle quali dava/toglieva fiducia: parole che erano sue, e di nessun altro, scelte, sofferte, cercate ad una ad una, con le quali scongiurare il senso incombente della perdita, dell’assenza del proprio tempo.


E rileggendo una poesia in lingua italiana pubblicata nel 1997 sul periodico “ Sotto il vulcano”, nitido appare il presentimento, lo sguardo anticipante della visione che lo avrebbe riguardato: “Non ha preso parole -/perse tutte, cestinate /in una nuvola aprilina - /di quelle che s’acchiappano /con l’occhio / o le/parole prestate o incomprese, dette sotto le ciglia,/tra le gambe alberate/e/un pensiero/che non trova/l’uscita”.


Ma è in dialetto soprattutto, dicevamo, che Salvo Basso rilancia la preziosità della parola poetica. Scrive Franco Loi in prefazione al libro postumo “Ccamaffari” (Prova d’Autore, Catania, 2002) : “La poesia siciliana ha una splendida tradizione (...). Non deve dunque stupire se anche tra i giovani ci siano cantori importanti della più disperata modernità poetica europea (...). .L’esponente più significativo di questa disperazione giovanile é Salvo Basso. Sorprendente la sua forza espressiva (...) spesso rivolta contro se stesso e insensatamente nutrita di sfiducia persino contro la sua necessità di parola“.

Nulla, infatti, dell’usuale registro dialettale in questa poetica acuta e densa, come avverte Pina La Villa nella prefazione a “Dui” (Prova d’Autore, Catania, 1999): “L’uso del siciliano mette a disposizione del poeta una lingua assai più duttile e manipolabile, un dialetto personalissimo, parole, suoni, segni grafici (...). Un dialetto che (...) è ormai quasi interamente risolto nella struttura della lingua con sporadiche illuminazioni e rinvii di senso alla lingua appresa da piccoli”. Spesso si tratta di versi d’una fulminea e densa brevità con cui si verticalizza il respiro poetico, e il dettato è talvolta così scarno da somigliare alla nudità della nascita, o della morte : “ Mi dissiru/poeta ca tutti/ i paroli ti / iucasti quannu/ eri carusu / ora cchi vvoi”. Eccola, la parola dolorante, il balbettio dell’incompiutezza e della sospensione, lacerto e scansione di un colloquio da sé a sé, la sete di verità per una realtà avvertita come incomprensibile, il senso del limite, il giogo della cruenta dimensione esistenziale. Il poeta conosce il rischio dell’agguato, la trappola ma non può evitare il percorso accidentato e scorticante in cui nascono e si dichiarano le passioni e l’assenza, la presenza, anche: “un labboratoriu ppi continuari a scriviri/nonostanti a morti e a vita nonostanti - /picchì stamatina culavvaddiri mi susii/ccun pitittu e na frischizza dincoddu/c’ava assai ca nun mmu rriurdavu”(da “Ccammaffari”).

Familiarità e naturalezza del dialetto, della lingua-madre, non recano consolazione né durevole fiducia: non lingua rassicurante, ma generatrice del dubbio e del senso di negazione, altalenante tra persuasione/dissuasione dell’utilità/futilità della poesia, come già in ”Quattru Sbrizzi” Maria Attanasio osserva: “La scelta del dialetto assume talvolta il valore di una fictio, di un mascheramento stilistico dietro cui l’io del poeta sembra trincerarsi: una sorta di gioco a nascondere tra sentimento e linguaggio. Salvo Basso costringe infatti la concretezza estroversa della parlata della Piana ad adattarsi alle scansioni intimistiche di un soliloquio: è l’incontro-scontro, sul piano espressivo, tra un lessico che conserva la memoria delle modalità di vita e dei valori di un mondo estinto (...) e una sensibilità poetica che nasce dalla consapevolezza della spaesata e precaria identità dell’io. L’esito è una poesia che (...) esprime un bisogno di comunicazione e una necessità di silenzio, il recupero della tradizione e una volontaria effrazione di essa”. Come inficiata dal dubbio di vanità - mutuato da Qohelet - la poesia di Basso imprime spasmi lessicali, dolorose contrazioni: si pensi a “qo” (L’obliquo, Brescia, 1999) in cui versi smembrati (il corpo della poesia) sono in libera caduta sul fondo della pagina senza che una sola interpunzione li sorregga, come se ogni brevissimo emistichio avesse vita propria - lasciata in sospeso, deliberatamente inconclusa: “a statu / chiddu / ca è/// sutta/u suli///un tempu / ppì/ ogni ccosa /// comu / e accussì / si mora”.

Prende corpo scarno il disincanto, si riduce a puro suono. Ma in ”Ccamaffari” talvolta insiste il tentativo di comprensione del mondo, della rinnovata e momentanea fiducia nella lingua-madre: “Arristai fermu o telefunu.../autri/cosi nun ni sacciu per esempiu / tipu l’imeil - a scrivu comu a/pronunciu - certi voti unni arriva /u ddialettu mancu u inglisi...” La modalità espressiva è fortemente intrisa dalla disperata necessità di sconfessare la caducità del corpo, affrancarsi dal dissidio, dal conflitto irrisolto, dall’attesa del tempo: “ora comu ora e ancora tutti i/manu ti vulissi stringiri picchì/stai mali e ssi lluntana ma ppoi/pensu a tuttu u suffrimentu/ca mi dasti...ccu na parola e na/vutata d’occhi ”. La poesia di Basso irrompe per agitare le acque stagne delle consolidate certezze, smuovere al fondo la finta tranquillità dell’usuale e del quotidiano, con lo scatto della parola, quell’improvviso imbrogliarsi della lingua che riconduce all’ iniziale balbettio con il quale si comincia (e ri-comincia) a nominare il mondo. E’ un percorso iniziatico in cui l’adepto è anche l’officiante la cui gestualità sacrale mette in pratica il doppio atto dell’assimilazione e dell’espulsione della lingua con cui tutto si afferma e tutto si nega, per soprappensiero, diremmo, per un malinteso o frainteso punto di vista di un io poetico oscillante tra il sentimento che allaga e l’argine della ragione, sino alla lacerazione della carne.

 

Contesto

Salvo Basso
Maria G. Canfarelli

 


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