Un nobel per Kertesz / di Mariarosaria Sciglitano

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Un nobel per Kertesz / di Mariarosaria Sciglitano

Questo articolo di Mariarosaria Sciglitano è tratto dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 ottobre 2002.

Si fiutava aria di nobel per Imre Kertesz gia' nel 1999 alla Buchmesse di
Francoforte, quando l'Ungheria, ospite d'onore, si presento' con una nutrita
schiera di scrittori in larga parte gia' noti al pubblico tedesco. Nato a
Budapest nel 1929, Kertesz e' noto anche come traduttore di Canetti, Freud,
Hofmannsthal, Nietzsche, Joseph Roth, Wittgenstein - nei suoi scritti si
ferma principalmente sulla storia dell'orrore nel '900, sull'odio razziale,
sullo sterminio, sulla disumanita' che alloggia nell'animo umano. Dopo la
guerra ha lavorato come giornalista, il suo esordio letterario l'ha pagato
con il bando, e solo dopo la caduta del muro di Berlino ha ottenuto,
finalmente, un riconoscimento anche in Ungheria. Aveva quarantacinque anni
quando usci' il suo romanzo titolato Sorstalansag (Essere senza destino,
tradotto dal tedesco da Barbara Griffini per Feltrinelli nel `99); ma non
suscito' alcuna eco critica fino a quando, nel 1983, Gyorgy Spiro' - noto
scrittore e storico della letteratura - non lo recupero', determinandone lo
straordinario successo in patria e fuori. Kertesz vi racconta la storia di
un ragazzo sopravvissuto a Auschwitz che, una volta tornato a casa, non
ritrovandosi piu', viene assalito da un atroce senso di nostalgia per
l'ambiente orribile, eppure protettivo, del lager. Il libro parte dal dato
autobiografico - la deportazione dello scrittore adolescente in uno dei
campi di concentramento di Auschwitz - che restera' il punto di partenza per
ciascuno dei libri a venire. Il problema dell'identita' si pone in
Sorstalansag in maniera struggente, ma nell'intervista rilasciata dallo
scrittore al mensile "Mozgo' Vilag" nell'ottobre del 1997 egli ritorna piu'
serenamente sull'argomento: "Non ho problemi di identita'. Il fatto di
essere ungherese non e' piu' assurdo del fatto di essere ebreo e il fatto di
essere ebreo non e' piu' assurdo del fatto stesso che esisto". Nello stesso
anno pubblica A nyomkereso (L'esploratore) e nell'88 A kudarc (Il fiasco).
Ma il suo disagio di vivere Kertesz lo esprimera' in maniera piu' raffinata
e toccante in un altro suo romanzo del 1990: Kaddis a meg nem szuletett
gyermekert (Kaddish per un bambino non ancora nato, da me tradotto per il
Saggiatore, nel '96, e non ancora pubblicato). Il kaddish, la preghiera
ebraica per i morti, da' il ritmo alla narrazione in cui un intellettuale
del centro Europa si chiede se abbia il diritto di trasmettere la sua
pesante eredita' paterna - l'eredita' di un sopravvissuto all'Olocausto - a
una creatura destinata fin dalla nascita all'infelicita'.

"I sopravvissuti devono rassegnarsi: Auschwitz sta per sgusciare via dalle
loro mani sempre piu' indebolite dall'eta'. Ma, poi, di chi sara' l'eredita'
dell'Olocausto? La domanda non si pone: sara' delle nuove generazioni se,
ovviamente, ne sentiranno l'esigenza. C'e' una terribile ambiguita' nella
gelosia con la quale i sopravvissuti si attaccano ai diritti di proprieta'
esclusivamente morali dell'Olocausto": cosi' si esprime Kertesz sulle pagine
del "Die Zeit", nel settembre del 1998, in una lunga riflessione sorta dalla
polemica che fece seguito al film di Benigni La vita e' bella. L'inchiesta
minuziosa sui sentimenti di un ebreo sopravvissuto alle deportazioni e in
cerca di casa - nel senso di famiglia, di patria, di identita' -
raggiungera' le sue vette piu' alte nel libro in forma di diario intitolato
Valaki mas (Qualcun altro), uscito nel `97: qui Kertesz annota pensieri
relativi alla scrittura, alla vita, al ricordo e alla rinuncia alla memoria,
in una sorta di documento filosofico nel quale rivede le sue scelte nei sei
anni del silenzio creativo che lo separano dal romanzo breve Az angol
lobogo' (Lo stendardo inglese). Un anno dopo, A gondolatnyi csend, amig a
kivegzoosztag ujratolt (Un attimo di silenzio mentre il plotone di
esecuzione carica), raccoglie saggi e interventi sulla conoscenza e le
responsabilita' dell'Olocausto.

"I decenni mi hanno insegnato che l'unica via verso la liberazione passa
attraverso la memoria. Ma anche le modalita' del ricordo variano. L'artista
spera che l'esattezza della rappresentazione, che riporta anche lui nei
sentieri mortali, lo condurra' alla forma piu' nobile di liberazione, alla
catarsi, alla quale forse anche il suo lettore prendera' parte, in seguito.
Potrei contare sulle dita delle mani gli scrittori che hanno creato una
grande letteratura sull'esperienza dell'Olocausto... e' molto piu' frequente
che lo rubino ai suoi depositari e ne facciano una merce scadente. Oppure
istituzionalizzano l'Olocausto, ne stabiliscono il rituale politico-morale,
ne elaborano il linguaggio - spesso falso - impongono alla divulgazione
persino le parole che, quasi automaticamente, provocano negli
ascoltatori-lettori il riflesso dell'Olocausto: insomma, lo straniano in
tutti i modi possibili e impossibili. Istruiscono i sopravvissuti: come
devono riflettere su quello che hanno vissuto, del tutto indipendentemente
da come questa mentalita' si accorda con le esperienze reali; il testimone
autentico un po' per volta sara' soltanto d'impaccio, bisogna rimuoverlo
come una sorta di ostacolo".

Contesto

Imre Kertesz

 


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