Natsume Soseki

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Natsume Soseki


Natsume Soseki nacque a Tokyo nel 1867 (morì nel 1916). Il suo vero nome era Natsume Kinnosuke. Soggiornò per tre anni a London, nel 1900-1903, e accettò poi un posto di insegnante di letteratu ra inglese all'Università Imperiale di Tokyo. Fu un grande stili sta. Allevò una intera generazione letteraria nel circolo idealista Yoyuha (Più che sufficiente), da lui stesso fondato.
Esordì con romanzi di ispirazione satirico-umoristica come Io sono un gatto (1905), Il signorino (1906). Preferì poi, opponen dosi al naturalismo dominante, un genere narrativo più incline all'introspezione, sensibile al richiamo dello zen e all'esperienza della poesia haiku, nella quale Natsume fu uno specialista. In questa linea sono le più importanti opere successive: Guanciale d'erba (1906), Papavero (1908), Sanshiro (1909), E do po? (1910), Anima (1914), Il chiaroscuro lasciato incompiuto. Temi e situazioni ricorrenti dei molti libri di Natsume Soseki sono la grande città, l'ambiente universitario con i contrasti tra la generazione degli studenti e quella dei maestri, mondo della città e quello della campagna, le dispute su questioni di arte, filosofia, cultura. "Anima" è tra i suoi romanzi più riusciti. E' la storia di un rapporto intensissimo e doloroso tra il maestro (sensei) presente in tutta la vicenda solo con questo appellativo, e il giovane di scepolo (l'io nar- rante). Sono tre densi capitoli. Nell'ultima parte compare il giovane K, amico d'infanzia e di giovinezza del maestro. I tre personaggi sono accomunati dallo stesso bisogno di trovare la vera via, lo stesso disagio di vivere in un'epoca so spesa tra un mondo irrimediabilmente condannato e una nuova ir rompente realtà fatta di egoismi chiusure ostilità. Il maestro è l'incarnazione del 'Bunjin', il letterato-eremita, ma senza quie te saggezza: egli è ossessionato dal bisogno di trovare una pro pria identità, rifiuta la realtà che lo circonda. Il maestro odia la gente così come essa è oggi, pensa che la solitudine sia il prezzo da pagare per essere nati in un'epoca «così piena di libertà, di indipendenza e di egoistica affermazione individuale». Egli rimane in casa a studiare e pensare, e persino sua moglie non può capirne la silenziosa infelicità. Di folgorante bellezza, all'inizio, l'incontro tra discepolo e maestro, tutto visto dalla parte del discepolo. L'incontro tra due uomini solitari che in consciamente desiderano liberarsi dalla solitudine. Il disappunto che accompagna ogni volta l'emozione e l'entusiasmo del giovane, che si vede costretto alla freddezza del maestro. Il maestro non accetta l'intimità con gli altri, perché più che disprezzare il prossimo sembra disprezzare sé stesso. Il maestro e il padre sono i due poli dell'infelicità del giovane. Nella figura del padre, con la sua ingenua grettezza, è il segno della fame, della sete, la stanchezza, il sonno, il progredire della malattia, la morte. Su tutto questo invece il maestro può solo meditare e parlare. Nelle ultime pagine, il giovane K, anche lui votato all'ascesi, capace di distruggersi con le proprie mani e destinato, una volta tradito dal suo più caro amico con la fanciulla da lui amata, al suicidio. Alla fine della storia, restano al discepolo paura e dolore. Eppure sa che la rassegnazione del maestro «sembrava qualcosa di vivo». Gli tornano alla mente queste parole: «Ho vissuto in modo da essere libero da doveri, non certo per indifferenza verso gli altri, ma al contrario per eccesso di sensibilità. Non sono forte abbastanza per sopportare le pene che il senso del dovere ci può infliggere».



[1997]


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