Nicola Misasi scrittore d’appendice, di Maria Lorella

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Nicola Misasi scrittore d’appendice, di Maria Lorella

Il romanzo d’appendice, detto in gergo letterario “feuilleton”, cioè foglio aggiunto, nasce appunto per riempire spazio in un foglio aggiunto ai giornali. Il suo livello letterario si mantiene piuttosto basso, poiché gli scrittori, essendo pagati a puntate, hanno interesse ad ampliare la trama, anche senza apparente motivo, ed a ripetere episodi già narrati.[1]

L’autore calabrese, nel Commiato a La badia di Montenero, narra in che modo e in quanto tempo –nel giro di una settimana- si era svolta la stesura del romanzo e la contemporanea pubblicazione sul quotidiano “Il Mattino”.

Egli ammette:

“Non sempre la pubblicazione di un romanzo nelle appendici di un giornale incomincia quando già lo scrittore ha compiuta l’opera sua; spesso non ne ha composte che le prime puntate, dopo le quali ha il vuoto a sé dinanzi. È vero che per certuni, ed io sono del numero, è indispensabile perché il cervello funzioni in tutta la sua energia, il pungolo del dovere da compiere; e le cosucce mie che son vive ancora sul mercato librario, come spremute da una mano di ferro che parea si comprimesse il cervello, vennero fuori senza un concetto prestabilito, ma si svolsero man mano sulla carta come si svolge un filo raccolto intorno ad un rocchetto invisibile”.[2]

Più oltre egli scrive:

“la sera scrissi la prima appendice. Dove sarei giunto? Quali sarebbero stati i particolari, le scene, i personaggi secondari del romanzo? Sentivo che erano me,  ma in confuso, senza poter determinare né il prima né il poi”.[3]

L. Reybaud, in una specie di

2manifesto” letterario della narrativa d’appendice, afferma:

“Prendete, signori, prendete per esempio una donna giovane e infelice, e perseguitata. Le metterete vicino un tiranno sanguinario e brutale, un paggio sensibile e virtuoso, un confidente ipocrita e fervido. Quando avrete in mano tutti questi personaggi, mescolati insieme, vivacemente in sei otto, dieci feuilletons: e servite caldo”.[4]

Molti personaggi dell’autore cosentino rispondono ai requisiti espressi da Reybaud; uno di questi personaggi è la marchesa Lisa di Monserrato, la cui eterna tristezza viene così spiegata dai contadini del paese elle vive contro la propria volontà

“Poverella, col marito accidentato, con lo zio del marito burbero per natura e vieppiù burbero, più aspro ora che è colpito dalla cecità, sola in un paesello come il nostro, in un palazzo come il suo, vasto al par di un carcere immenso, ove ella è costretta ad aggirarsi sola, senza amiche, senza parenti che possano confortarla, è naturale che debba ignorare che cosa sia il riso. Quando venne sposa parea un occhio di sole; aveva venti anni, usciva allora di collegio, era fresca, rosea, allegra, talché a vederla ti si allargava il cuore: poi a poco a poco deperì. Chiudi un fiore in una fossa senza aria e ssenza luce, e in men di un’ora lo troverai senza profumi e senza odore”.[5]

Un secolo fa le appendici dei giornali erano il mezzo più immediato di educazione letteraria delle masse popolari; esse corrispondevano, più o meno, all’attuale fotoromanzo, sia per la forma dilazionata nel tempo che per la categoria culturale di lettori a cui erano rivolte. La maggior parte dei lettori di appendici sono persone che non hanno bisogno di una eccessiva cultura per arrivare a comprendere il messaggio. È al pubblico femminile che soprattutto si rivolge il Misasi; in particolare modo a quelle gentili e romantiche lettrici che egli presume possano essere assidue acquirenti dei giornali su cui egli scrive. Nel commiato al già citato romanzo, egli si rivolge loro direttamente, con toni melodrammatici cari alle persone assorte e romantiche:

”Ed ora, buona e cara lettrice, se hai pianto per la morte di Giacomo letificata dall’amore di Marcella che sente nell’anima sua fondersi lo spirito di Giacomo, tergi gli occhi e ascoltami, ché in compenso della tua pietà ti narrerò come si svolse un tal romanzo che ben potrebbe essere una storia vera”.[6]

L’autore, riferendosi a questa ipotetica donna che leggerà il suo romanzo, cerca di renderla partecipi del “travaglio” che ha accompagnato la stesura del racconto e della vicinanza affettiva dell’autore ai due sventurati protagonisti:

“Io le avevo con me da gran tempo queste epiche figure dell’amore, con nomi diversi, ma con diverso cuore; pur non mi era mai venuto in mente di narrane i casi miserandi perché temevo non giungessi a renderla così come io le vedevo, così le loro anime mi si erano rivelate, ed anche perché mi occorreva un quadro nel quale fissarle per presentarle a te, cara e dolce amica, mio pensiero perenne, mio conforto soave, mia compagna diletta nella solitudine in cui io vivo”.[7]

Anche altrove l’autore calabrese ripete lo stesso entusiasmo per l’ipotetica destinataria delle sue narrazioni:

“È pur dolce il pensare che quella donna nel segreto della sua stanzetta da lavoro ricorse a noi per alleviare un dolore, per dimenticare anche per un istante un’amarezza, e noi le parliamo come ad amica, la facemmo sorridere e forse anche piangere, di quel pianto che fa bene e sgrava il cuore dalle lacrime accumulate dentro, perché nelle nostre storie malinconiche trovò qualcosa dei suoi dolori e delle sue amarezze”.[8]

In molti suoi scritti l’autore di Cosenza, influenzato da quella letteratura “terrificante” sorta nel 1700 e popolata di fantasmi, banditi, monaci e sotterranei, si perde dietro a fantasie macabre. Visitando il castello di Cosenza, egli sente:

“gemiti di feriti, rantolo di agonizzanti, urla di torturati”.[9]

Raccapricciante è la descrizione della visione del vallone di Rovito, nel quale venivano eseguite le decapitazioni di condannati politici o di malfattori:

“Un lampo bianco dall’alto in basso, un tonfo sordo si udiva, una testa di qua, un corpo di là cadevano tra fiotti di sangue. Quella testa, presa pei capelli, era mostrata al popolo silenzioso da quell’uomo rosso che aveva le braccia e il viso macchiato di sangue: poi quel corpo che ancora torcevasi, quel capo che apriva e chiudeva le palpebre, digrignava i denti e pioveva sangue dalle carni sfilacciate del colo, erano gittati in una cassa. Fra il cerchio, in luogo di una testa, striata di sangue vedovasi la mannaia”.[10]

Molto spesso nelle opere di Nicola Misasi, e non solo in quelle destinate alla pubblicazione nelle appendici dei giornali, si incontrano notturni senza luna ed ambienti tetri e oscuri, sovente in concomitanza con drammi violenti che si sono svolti o stanno per svolgersi. La certosa di un piccolo paesino della Calabria, luogo che vede il dramma d’amore di un monaco e di una baronessa, è così descritta:

“Di notte quel convento ha un aspetto fantastico e pauroso. In quelle senza luna vi è colà come un condensamento d’ombre, rotto da punti bianchicci. Le stelle scintillavano attraverso i fori, gli archi, le fessure: il vento fischia  fra le mura screpolate, agitando le erbe parassite, scotendo i sassi caduti, che talvolta vengono giù con sordo rovinio”.[11]

Ma accanto al romanticismo di gusto macabro, si trova nelle opere dell’autore cosentino, anche quello dal contenuto umanitario e sociale. Il romanzo popolare, avendo bisogno di un’ideologia che rispecchi gli ideali e le necessità dell’epoca in cui viene scritto, è spesso una fucina di denunce sociali, che non sono mai rivoluzionarie, dato che il romanzo popolare dà soluzioni consolatorie.  Così nasce il “superuomo” della letteratura popolare, il vendicatore, un personaggio, cioè, che possiede un potere che il lettore non ha.[12]

Spesso la presenza di un “vendicatore” e la contemporanea lotta tra il debole e il forte costituiscono la trama dei racconti più suggestivi e più significativi del Misasi, nei quali sono messi in rilievo la grande miseria dei protagonisti, la prepotenza dei ricchi e il vergognoso regime politico. Egli è perciò uno scrittore popolare nel senso che il Gramsci dà al termine.[13]

I romanzi e i racconti del nostro autore appaiono a puntate sul quotidiano napoletano “Il Mattino”, prima di essere pubblicati in volumi. Molto spesso tali volumi sono in edizione economica e hanno un formato ridotto; famosa è la collana che raccoglie romanzi che “si leggono tutti d’un fiato”. Il romanzetto Resurrezione è contenuto, ad esempio, in un mini-volume di circa centimetri 8 x 9, sulla cui copertina è ricordato al lettore:

“La Biblioteca Diamantina esce ogni otto giorni con eleganti volumetti come il presente. È una scelta raccolta di Romanzi, Novelle illustrate, d’autori italiani ed esteri, che per la loro natura possono servire d’amena lettura a tutti ed entrare anche, per il loro tenue costo, in ogni famiglia, essere letti dallo studente, dalla signorina, dall’uomo d’affari, da chi viaggia, ecc.”[14]

le opere dello scrittore calabrese sono ricercatissime dai suoi contemporanei e suscitano il massimo interesse nelle classi popolari, verso cui erano principalmente rivolte. Tali opere contengono quasi tutte gli ingredienti d’obbligo del romanzo d’appendice: sventurati perseguitati, amori sovrumani, pericoli terrificanti, colpevoli puniti, rapimenti, lontananze, separazioni, nonché agnizioni, ricongiungimenti e vendette. L’autore, nel rivelare la fonte dei suoi scritti, ricorda:

“Ed eran drammi di passione, di vendetta, di odi, ed eran avventure romanzesche nel rozzo stile, nell’aspro e pur efficace dialetto siano, che mi tenevano intento e facevano rivivere innanzi ai miei occhi i fieri personaggi che ne erano stati gli eroi”.[15]

Lo stile classico di una letteratura rivolta alle masse[16]è senz’altro caratterizzato dalla presenza del dialogo  e il nostro autore, rivolgendosi a un pubblico di estrazione socio-culturale non molto alta, adopera molto spesso e abbondantemente tale forma.[17]

Sempre nella sua analisi della letteratura popolare Antonio Gramsci afferma che

“una certa fortuna ha avuto in Italia la letteratura popolare sulla vita dei briganti”,[18]

ma subito dopo tiene a precisare che

“la produzione è di valore bassissimo”.[19]

Fra i nomi menzionati dal critico in proposito, non c’è quello del Misasi, anche se lo scrittore calabrese ha trattato diffusamente il brigantaggio e i briganti. Il brigante descritto dall’autore cosentino è “il vendicatore”, è

“il difensore, l’amico, il protettore della povera gente”,[20]

è colui che risponde all’esigenza di giustizia e di punizione del potente. Dice un uomo del popolo a proposito del brigante:

“Non fa male a noi povera gente, anzi molte volte ci ha fatto bene. se la piglia coi galantuomini”.[21]

Ma nella letteratura popolare, accanto alla figura del vendicatore-giustiziere, c’è anche quella del superuomo, nata probabilmente dall’esigenza popolare di evadere dalla vita meschina di tutti i giorni. Tale necessità è rivelata indubbiamente da alcuni motti popolari, come quello che fa auspicare “un anno da leone piuttosto che cento anni da pecora”.

“meglio un anno tori che cento anni bue”, è il motto del brigante; a lui non importa se la sua vita eroica duri poco o tanto tempo; egli sarà contento se proverà

“la voluttà di sentirsi lupo, lui che per tanti anni era stato agnello”.[22]

Non gli importa:

“se domani, sorpreso in mezzo a un banchetto, o un ballo, o un tripudio di passione, una palla di fucile lo farà rotolare cadavere in fondo a un burrone…o se, dopo aver lottato come un cignale inferocito e aver ferito ed ucciso, sarà tratto dagli uomini della legge in un carcere oscuro”[23]

in quanto

“per un anno, per pochi mesi avrà goduto, lui nato per soffrire la brutalità e l’ingordigia dei signori; si sarà pasciuto di cibi succulenti, lui che si sfamava con un pezzo di pane d’orzo o di granone, avrà dormito avvolto nell’ampio e ricco mantello presso un buon fuoco scoppiettante in una vasta caverna o sotto i pini maestosi, lui che per tanti anni averva dormito nei fetidi canili e nell’immonde stalle presso i buoi ed ai maiali: avrà amato e sarà stato amato dalle più belle contadine, lui  che aveva visto le sorelle, le mogli, le figlie in braccio ai signori ingordi  e feroci”.[24]

Il romanzo d’appendice ha molto spesso un finale che appaga il lettore; al termine di complicati intrecci il “cattivo” viene punito e il “buono” viene finalmente premiato. Ciò avviene per Riccardo, personaggio principale della trilogia di romanzi incentrati sulla figura storica di Carolina d’Austria e intitolati rispettivamente S.M La regina, Capitan Riccardo, Sola contro tutti. Ha un lieto fine la vicenda di Riccardo, povero trovatello dalle oscure origini, e di Alma, figlia del duca di Fagnano. Già nel primo romanzo della suddetta trilogia è rivelata, ma sotto forma di pettegolezzo non del tutto credibile, il mistero che circonda i natali del giovane, ma solo nell’ultimo è esplicito, sia al lettore che ai personaggi della vicenda: il giovane capitano è il cugini di Alma e per di più erede legittimo del titolo e dei beni del duca di Fagnano, essendo nato da regolari nozze tra una giovinetta morta subito dopo il matrimonio e ilk fratello maggiore del padre di Alma, il quale era stato costretto a fuggire all’estero perché denunciato dal fratello come rivoluzionario ed eretico. Dopo lunghe e intricate vicende, Riccardo può finalmente congiungersi alla sua amata e l’ultimo romanzo che pone fine alla trilogia termina con la visione della meritata felicità dei due giovani:

“Il sole in tutta la maestà, in tutto il fulgore avvolgeva nella sua porpora i giovani sposi stretti l’uno all’altra e che avevano nel cuore un sole assai più sfolgorante: quello dell’amore”.[25]

Qualche volta però i romanzi del nostro autore hanno un finale inatteso, non necessariamente a lieto fine. Non è raro trovare, alla fine della narrazione, la morte del protagonista e spesso tale morte è un elemento purificatore, quasi una catarsi, una componente inevitabile, che serva a giustificare la simpatia del lettore per un personaggio il quale magari è condannabile per la morale comune. Sotto questo aspetto va vista senz’altro la morte del brigante Giacomo ne La badia di Montenero; sarebbe stato assurdo, infatti, che egli, dopo una vita di omicidi e di rapine, potesse diventare felice sposo di “ragazza d’angelo”. La morte, perciò, più che la vita, serve al brigante per poter ottenere una completa e indiscussa riabilitazione. Nella narrativa dell’autore preso in esame, in parallelo al dualismo tra il “buono” e il “cattivo”, è presente la lotta tra il bene e il male. Essa rappresenta uno di quegli atteggiamenti  che sono insiti nell’uomo e che proprio per il fatto di essere comuni a tutti, sono ritenuti dai narratori gli ingredienti necessari di una letteratura  rivolta alle masse.[26]Molto spesso incontriamo nel Misasi questa tesi manichea dell’esistenza, ma non sempre lo scioglimento della vicenda, pur col trionfo del bene, porta la felicità: Marcella riesce ad avere la meglio su Anna, ma ciò è accompagnato dalla morte del suo amato; Ruggero Silvestri, dopo avere dimostrato la propria innocenza e provocato la morte del suo odiato persecutore, muore colpito durante la fuga. In Carmela abbiamo addirittura un finale inatteso che lascia personaggi e lettori in sospeso. La vicenda non si evolve secondo lo schema tradizionale, che vuole, cioè, la riconosciuta malvagità e la necessaria punizione del personaggio che rappresenta il male, ma fa rimanere Carmela e il marito nella penosa attesa di una giusta vendetta. È tipico della letteratura popolare e dell’autore in questione il conflitto di sentimenti contrastanti, come quello che si agita nella mente di capitan Riccardo, combattuto tra l’amore platonico verso Alma e quello esclusivamente sensuale verso la regina; analoga lotta è in Demetrio, sposo e sacerdote albanese, combattuto tra l’attrattiva e la ripulsa per la propria moglie:

“come lui, anche ella forse trasaliva quando i loro sguardi s’incontravano, anche ella si sentiva preda a un demone inesorabile che le dava né pace né tregua, e Dio, in nome del quale si compiva quel martirio, non aveva per lei, come non aveva per lui, né misericordia, né conforti, né pietà”.[27]

Il conflitto odio-amore in Demetrio è però più visibile in tale brano:

 

2

si lasciò cadere sul lettuccio e scoppiò in singhiozzi. Stette così per più ore, e intanto a poco a poco si sentiva assalito da brividi acuti e da struggimenti. No, Dio, non aveva pietà per lui, se nel corpo e nel cuore gli aveva messo tanto strazio, se, pur maledicendola, ei si sentiva come inseguito da quella immagine di donna. In quel silenzio alto e solenne, sentiva come un ronzio nelle orecchie, un confuso balbettio di voluttà, misto a scoppi di baci, a sospiri di piaceri. In quella stanza fredda e malinconica, negli angoli oscuri, in piena luce, vedeva errare cento immagini con le carni nude, con le pupille di fuoco e, cosa strana! Quelle immagini non avevano che un viso, una fisionomia; il viso, la fisionomia di quella donna che era sua, sua in cospetto di Dio e degli uomini, e nondimeno ne era separato da un abisso. Ne vedeva il sorriso rosso che scopriva i denti bianchi ed aguzzi, le pupille nere che sprizzavano scintille, le sinuosità voluttuose del corpo, il rotondo delle anche, il bianco smagliante del petto e delle spalle che egli aveva la sera avanti sfiorato”.[28]

Continua ancora, con un pizzico di compiaciuto senso erotico, la descrizione della lotta interna cui è sottoposto il povero Demetrio, che sogna ad occhi aperti:

“Essa si muoveva, si stendeva, restava immobile con la bocca tumida e socchiusa, mentre le pupille lo fissavano, lo pungevano, gl’inviavano lampi di luce, guizzi di fiamme e che egli sentiva fuggir per le membra…Egli tendeva l’orecchio, immobile, tremante e pensava con sgomento che se quella donna comparisse là, in quella stanza, così come la vedeva in immagine, nuda e bianca e gli tendesse le braccia e gli parlasse d’amore, di voluttà, d’ebbrezza, egli, non avrebbe avuto forza di lottare, egli sarebbe caduto nell’abisso della colpa e della vergogna…No, non l’avrebbe data vinta alla carne, lui ministro, lui sacerdote del Signore…E immerso in tali pensieri, non sapeva tôrre gli occhi dalla striscia di luce in cui si disegnava un’ombra di donna riversa; non sapeva chiuder l’orecchio al leggiero mormorio che a lui veniva dalla stanza nuziale. Si sentiva profondamente infelice”.[29]

Non è raro trovare nel Misasi elementi erotici descritti con evidente compiacimento e il continuo riferimento al seno muliebre è l’elemento più ricorrente. Anche nelle situazioni meno opportune il nostro autore indulge nella descrizione maliziosa del corpo femminile. Ecco come viene descritta una bella e giovane vedova che assiste al funerale del marito:

“I suoi occhi avevano lo sguardo lucido, insistenete, di chi è fuor di sé per un gran dolore. Le vesti scomposte lasciavano vedere le carni bianche degli omeri e del seno su cui si spargevano i riccioli dei capelli biondi”.[30]

Un archetipo della letteratura popolare è la donna fatale. Esempio tipico di donna fatale è Fosca,[31]protagonista di Devastatrice, il cui corpo e i cui gesti sono in funzione permanente della seduzione; donna fatale è anche Carolina d’Austria, il cui personaggio, negli scritti dell’autore, è frutto della fantasia popolare, più che attestato da veri epropri documenti storici.

La donna bella per il Misasi deve avere tutti i requisiti della bellezza classica: capelli biondi, viso pallido e pupille penetranti. Eccone un esempio:

“La signorina Emma Alimondi dei baroni di S. Giulio era proprio quel che si dice una bellezza. Alta, slanciata, bionda, bianchissima, di un’eleganza deliziosa, nell’incesso”.[32]

Anche quando Emma entra in chiesa non fa che suscitare ammirazione:

“Tra le sforacchiature delle trine e biondi capelli avevano riflessi aurei e le guance bianche e rosee sfumature delicate.era stupendamente bella, e il corpo molle e grassoccio mostrava tutte le sue bellezze, stretto nella  veste nera. Aveva negli occhi un certo languore e nel camminare un certo abbandono deliziosissimo: quell’anno di matrimonio e quella vedovanza avevano maturato la sua bellezza; sicchè quando entrò in chiesa, rispondendo con un cenno di testa fra il modesto, il severo e il malinconico al saluto dei conoscenti, vi furono esclamazioni irriverenti forse per il Creatore, ma di ammirazione pwer quella creatura”.[33]

Donna fatale è anche Monna Lisa di Ligny, la cui luminosa bellezza fa sospirare invano le rozze anime dei paesani, non abituati a una “civetteria” tipicamente cittadina. Ecco come Lisa viene descritta nell’episodio in cui ella conosce Guglielmo:

“Intanto premeva con le le due mani leggermente i capelli per rassettar l’acconciatura che quella sera dava maggior risalto al bel viso; con rapido atto passò la mano pel collo lucidamente bianco, arabescato di fili d’oro su la nuca, per stirare la piega della veste, chiusa al principio del seno da un fermaglio scintillante di gemme; si sdraiò più mollemente sulla dormeuse, strinse alle dita affusolate e piccolette gli anelli contesti di pietre preziose e attese con la sua grande aria di signora altera ma garbata”.[34]

Il comportamento di Lisa, nei momenti in cui ella vuole “ammaliare”, è del tutto simile a quello di Fosca: analoghi sono i gesti e ugualmente ricercato il modo di vestire. In altre pagine viene detto su questo personaggio:

“Saliva lenta, come una dea, con una stupenda veste a fiorami, dalle maniche larghe, che lasciavano vedere il braccio bianco, tornito, con due cerchietti d’oro ai polsi; sul seno la veste si apriva e una spume di trine velava ma pur non ne nascondeva le rotondità delicate; i capelli biondi e luminosi, in trecce grosse e molli le si avvolgevano sul capo, e alcuni riccioletti folti, sottili ne indoravano la nuca”.[35]

Nei racconti e nei romanzi del nostro autore è frequente un procedimento tipico della letteratura d’appendice: l’agnizione.[36]Già le prime pagine della narrazione fanno comprendere, mediante allusioni frequenti, pettegolezzi, insinuazioni, la vera identità delle persone, che sarà svelata in seguito, quando il lettore ha già intuito tutto. Molto spesso la tecnica del riconoscimento è inutile e per tale motivo perde ogni potere drammatico. Il nostro autore fa cadere tanti e tali sospetti da far sembrare inverosimile che proprio gli interessati non abbiano compreso nulla. In tutto il romanzo “Frate Angelico” si accenna ai sospetti che sorgono circa l’identità del frate, mentre fin fin dalle prime pagine il lettore sa che sotto le vesti di frate Angelico si cela Ruggero Silvestri. L’identità sarà svelata a quei personaggi che non avevano ancora compreso –la moglia di Ruggero, il Guercio, don Jacopo- quasi alla fine del romanzo, quando ormai la tecnica dell’agnizione ha perso la sua carica di “suspence”. Donna Maria, allorché vede il frate per la prima volta, ha subito dei dubbi:

“Ella trasalì a quella voce che nel primo udirla non le era parsa nuova”.[37]

Analoghi “trasalimenti” sono avvertiti da don Jacopo:

“Ma chi più di tutti pareva colpito dalle parole del monaco era don Jacopo Rinaldi. Ai primi accenti aveva impallidito e il cuore gli era balzato nel petto: ascoltava come intontito, rabbrividendo talvolta, talvolta crollando la testa come per respingere un dubbio atroce.

-Pare impossibile, pare impossibile: si direbbe che è lui. Lui! Monaco! Priore! Qui! No, no, ho male all’orecchio, o meglio, è la fantasia che è malata. E ascoltando con avidità più il suono delle parole che le parole, perché appunto il suono gli aveva destato nel cuore il dubbio atroce, cercava di fissare gli occhi in fondo al cappuccio, ma non discerneva che la lunga barba fluente e i confusi tratti del viso”.[38]

Soltanto un personaggio riconosce Ruggero non appena lo vede:

“Il sordomuto ebbe come un rantolo nella gola, aprì la bocca, stese le braccia, poi cadde in ginocchio ai piedi del monaco e si diè a baciare il lembo della tonaca.

-Giovanni, povero Giovanni, -fece il frate mettendo le mani tra i fulvi e intricati capelli del prostrato-  mi hai riconosciuto. Me ne ero accorto. Mentre ero sul pulpito non sapevi distogliere gli occhi da me. Povero Giovanni!…

il muto gli gagnolava come un cane ai piedi”.[39]

Nell’episodio in cui il frate si reca nella casa di Maria, si ripete nella donna il sorgere del sospetto, ma non ancora la certezza; tutto il tono della narrazione è melodrammatico, parole e gesti sono teatrali e contribuiscono a dare alla narrazione la ridondanza e l’inutilità di alcune situazioni:

“I quell’atto il cappuccio gli cadde e apparve la testa di lui tutta rosa da cicatrici, da rughe. Donna Maria di Santafiora diede un grido; alzando gli occhi aveva incontrati quelli del monaco che sfolgoravano accesi.

-Ma chi siete voi, chi siete?- mormorò la poveretta, colpita da uno spavento mortale”.[40]

Più oltre è ribadito:

“Nel breve istante in cui per la caduta aveva potuto vederne in piena luce il viso, un dubbio angoscioso che a poco poco diveniva certezza ne sconvolgeva tutto l’essere suo: che quell’uomo, che quel monaco fosse Ruggero Silvestri”.[41][42]

Ruggero si svela al suo nemico, un tempo amico fraterno, con la stessa tecnica adoperata da Dumas per le agnizioni ne Il conte di Montecristo:

“Io sono Edmondo Dantès”, dice il conte di Montecristo a coloro che hanno ordito inganni nei suoi confronti e tali parole, nella loro sinteticità, vogliono dire più o meno: “Tu sei colui che mi ha tradito e che mi ha denunciato ingiustamente; io mi vendico uccidendoti”. Analogo significato ha il discorso di Ruggero Silvestri nel momento in cui si svela a Jacopo:

“Jacopo Rinaldi, assassino, ladro, violatore di donne. Jacopo Rinaldi, che pur sapendomi innocente, mi facesti condannare nel capo; Jacopo Rinaldi, usuraio e spia; Jacopo Rinaldi, che hai mangiato il mio pane, che hai bevuto il mio vino; che hai dormito nel mio letto, e mentre io ti chiamavo fratello, il tuo cuore fremeva d’odio, e mentre io ti stringevo al seno, la tua mente infernale macchinava la calunnia che dar dovevo la mia testa al carnefice; Jacopo Rinaldi, che non contento d’avermi condannato alla vita dell’esule, all’infamia, alla miseria, pur sapendomi vivo, hai fatto proclamare la mia morte e volevi insozzar così con le sacrileghe nozze la donna che portava il mio nome? Jacopo Rinaldi, perverso per quanto vile, ora dopo cinque anni di dolori, di torture senza nome, ti ho in mia balia… Qualunque vendetta, per quanto feroce, mi sarebbe perdonata da Dio”.



[1] Edgar Poe ne I formalisti russi, cit., rimprovera, ad esempio, ad alcuni romanzieri incongruenze ed errori scorgendone la causa

“nell’attuale assurda usanza di scrivere romanzi per pubblicazioni periodiche, con la quale l’autore, iniziando a stampare un romanzo, ancora non ne ha in mente nei particolari l’intero piano.

[2] Commiato a La badia di Montenero, cit

[3] ibidem.

[4] U. Eco: L’industria aristotelica, in Cent’anni dopo, almanacco Bompiani, 1972, p. 10.

[5] Il tenente Giorgio, cit., p. 47.

[6] Commiato a La badia di Montenero, cit.

[7] ibidem

[8] ibidem.

[9] Il castello di Cosenza, ne Il castello di Corigliano, cit., p. 23.

[10] Vallone di Rovito, in Pagine calabresi, cit., p. 120

[11] Il castello di Corigliano, cit. p. 32.

[12] Antonio Gramsci, in Letteratura e vita nazionale, cit., p. 41, spiega il successo del romanzo d’appendice:

“Quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla “punizione” da infliggere loro? Il conte di Montecristo gli offre il modello, lo “ubriaca”di esaltazione, sostituisce il credo in una giustizia trascendente…il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti…nel popolo il fantasticare è dipendente dal complesso di inferiorità (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc.”

 

[13] Nell’opera precedentemente citata, il Gramsci spiega il significato di “scrittore popolare”. Egli, dopo aver negato che il Manzoni sia uno scrittore popolare in quanto si rivolge agli  con la piena consapevolezza di una sua superiorità morale e intellettuale, avverte che uno scrittore può essere considerato popolare solo quando è presente in lui la partecipazione e la disponibilità verso il popolo, quando, infine, cerca con i suoi scritti di mettere in luce e di risolvere i problemi del suo popolo.

[14] Sul retro della copertina di Resurrezione, Trevisini editore, Milano 1982.

[15] Il gran bosco d’ Italia, cit., p. 45.

[16] Sempre in Letteratura e vita nazionale il Gramsci si rammarica del fatto che in Italia le tradizioni auliche e aristocratiche della letteratura non abbiano reso possibile la nascita di una vera e propria letteratura popolare e d’appendice.

[17] C.f.r. capitolo Poetica-Linguaggio-Stile.

[18] A. Gramsci: Letteratura e vita nazionale, cit., p. 145.

[19] Ibidem.

[20] Giosafatte Tallarico, cit., p. 88.

[21] Ibidem, p. 45.

[22] La Sila, cit., pp. 128-129-

[23] ibidem

[24] ibidem

[25] Sola contro tutti, cit., p. 348.

[26] Jean Tortel, in Almanacco popolare, cit., p. 22, sostiene che il bene e il male

“sono il giustiziere e il criminale, l’innocente e il colpevole, l’infelicità e la felicità, lo splendore e la miseria, il castello e il tugurio, il gran mondo e la teppa, la principessa e il marciapiedi. Gli accoppiamenti si corrispondono implacabilmente e l’universo non funziona che nell’interdipendenza delle coppie antinomiche”.

 

[27] Marito e sacerdote, cit., p. 35.

[28] Marito e sacerdote, cit., p. 35.

[29] Ibidem, p. 36-37.

[30] Risurrezione, cit. p. 7

[31] c.f.r. analisi del personaggio Fosca nel capitolo intitolato Personaggi.

[32] Risurrezione, cit., pp. 4-5.

[33] Ibidem, pp. 49-50-51.

[34] Sacrifizio d’amore, cit., p. 112.

[35] Ibidem, p. 88.

[36] Umberto Eco, in Almanacco popolare, cit., p. 91, spiega il significato del termine:

“Intendiamo per agnizione il riconoscimento di due o più persone, che può essere reciproco (“Tu sei mio padre!”, “Tu sei mio figlio!”), o monodirezionale (“Guardami! Io sono Edmond Dantès).

[37] Frate Angelico, cit., p. 140.

[38] Ibidem, pp. 177-178.

[39] Frate Angelico, cit., p. 183.

[40] Ibidem, p. 214.

[41] Ibidem, p. 216.

[42] Ibidem, p. 283.

 

 

Contesto

La narrativa di Nicola Misasi, di Maria Lorello



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