Nicola Misasi: I motivi della realtà umana, di Maria Lorella

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Nicola Misasi: I motivi della realtà umana, di Maria Lorella

 

Raramente gli scrittori si sono serviti degli animali come autentici personaggi. Nell’autore in questione essi sono introdotti come elementi di un parallelo e come motivi che caratterizzano la psicologia dei personaggi; sono frequenti, infatti, le “comparazioni bestiali”.[1]

Per la descrizione, ad esempio, del componente di una banda, lo scrittore scrive che ha

“la testa piccola e deforme col muso sporgente come quello della volpe e del lupo, le labbra rosse e viscide cadenti sul mento, gli occhi piccoli, infossati, fosforescenti come gli occhi degli uccelli di rapina”.[2]

Gli attori in un racconto sono però solitamente degli esseri umani e, come tali, essi hanno certamente dei rapporti con la vita reale. Edward Morgan Forster, nella sua analisi delle “ragioni narrative”, afferma che

“i fatti principali della vita umana sono cinque: nascita, cibo, sonno, amore e morte”.[3]

Risulta interessante, perciò, vedere il ruolo che svolgono nella narrativa i suddetti motivi della realtà umana.

La morte è un motivo solitamente adottato per concludere lo svolgimento delle vicende della narrazione. Nel Misasi la morte non ha questo ruolo secondario; essa determina piuttosto una situazione di deficienza e un conseguente danneggiamento. In alcuni casi la morte, infatti, ha un ruolo importante in quanto costituisce una premessa alle vicende successive. Nella narrativa, solitamente, il fatto che un personaggio sia orfano non è elemento di base; il Manzoni, ad esempio, non si sente dell’orfano-Renzo per far nascere da questo elemento l’azione successiva. Per l’autore casentino il personaggio orfano è determinante ed è un presupposto per i fatti che seguiranno e che possono divenire essenziali per lo svolgimento del racconto. La morte di un genitore o di entrambi costituiscono allora l’esordio del racconto e dà vita ad un’azione successiva, spesso la condizione di orfano, infatti, ha una funzione decisiva e il personaggio è portato a risolvere la propria situazione procurando altra morte. È orfano Cola il Lupo, che uccide per vendetta il padre e il marito della donna amata; è orfano Stefano, che ucciderà la marchesa Fosca; è orfano ‘Ntonuzzo, che ucciderà la massara Giovanna; e così molti altri. il racconto può anche terminare con la morte del protagonista ma non, come di solito avviene nella narrativa, per por fine allo svolgimento della vicenda, bensì perché essa ha la funzione di catarsi. Frate Angelico, ovvero Ruggero Silvestri, muore alla fine del racconto, non prima però di aver mascherato colui che è stato causa della sua rovina; muore il brigante Giacomo, dopo essersi però comportato da eroe, riscattando in questo modo la dsua vita di uccisioni e di rapine. La morte è descritta nel Misasi quasi sempre con crudezza di particolari; è trattata con  delicatezza solo nell’episodio della morte di Elisabetta che “reclinò la testa sul petto”mentre l’amante sentiva “che le braccia di lei con le quali lo teneva a sé avvinto ricadevano inerti: un soffio gli sfiorò il viso”.[4]

Da quanto prima esposto è facilmente intuibile come alla morte sia collegato un altro tema più volte iterato nell’opera del Misasi: la vendetta.

“le offese si vendicano occhio per occhio, dente per dente”,[5] fa dire il nostro autore al barone Guiscardi. La vendetta, infatti, influisce sempre sull’anima del personaggio che cova risentimenti e rancori nei confronti di colui che l’ha danneggiato senza una giusta causa. Spesso la vendetta è il filo conduttore dei racconti del Misasi e ne è un esemplare tipico L’assedio di Amantea, nel cui prologo troviamo il movente: la violenza subita da Lucia di Roccanera. Già nel prologo Pietro Guiscardi, marito di Lucia, pregusta la vendetta, che doveva essere “terribile”; infatti “doveva vendicar lei, doveva vendicar l’onore di casa sua, così vilmente oltraggiato”.[6]

Ma

“al suo odio non bastava una comune vendetta, egli la voleva atroce come atroce era stato il suo dolore”.[7]

In molti casi viene invocato addirittura Dio affinché renda possibile la vendetta. Pietro Guiscardi, infatti, accanto al cadavere della moglie Lucia, così giura:

“la giustizia di Dio non vuole che resti impunito il delitto che ti uccise e che a me ti tolse. Io giuro sulla tua anima benedetta che mi vendicherò, che ti vendicherò”.[8]sempre il medesimo personaggio, come in delirio, mormora:

“No mio Dio, non essere crudele… non togliermi questa gioia per aspettare la quale ho vissuto. Fa che sien dessi e mi confermerai che tu esisti per punire o per premiare”.[9]

Il movente della vendetta è la morte o l’ingiuria arrecata a un familiare. È significativa a questo proposito l’osservazione personale dell’autore nel romanzetto Giosafatte Tallarico:

“L’uccidere un uomo era un fallo assai lieve, che presto tutti dimenticavano, meno, s’intende, i parenti dell’ucciso, che ne vendicavano la memoria uccidendo alla loro volta”.[10]

Dalle parole di una madre che piange il figlio, deceduto per morte naturale, si può cogliere l’essenza dello spirito del popolo calabrese descritto dal Misasi. La donna non si rammarica tanto del fatto che il figlio sia morto, quanto dell’impossibilità di vendicarlo:

“O figlio, figlio, fossi tu morto con una palla al cuore che almeno tuo padre avrebbe saldato la partita; ma al Padreterno che ti ha colpito, che posso fare, o figlio, figlio mio?”.[11]

Non è solo la morte che provoca la vendetta, ma anche l’amore-passione. Come osserva Forster, nella narrativa l’amore ha un’importanza maggiore che nella vita reale dell’uomo. Anche nel Misasi l’amore è alla base del racconto. Seguendo i canoni naturalisti, l’autore in un breve racconto cerca di fare un’analisi dell’amore come espressione dell’anima; le sue osservazioni, infatti, hanno tutto lo stile di un trattatello scientifico, anziché di un’opera letteraria:

“Nello stato normale, quando le facoltà fisiche sono in perfetto equilibrio, l’amore è un desiderio e nulla più, che finisce appena soddisfatto; nello stato patologico invece i gusti e le tendenze sono sovvertite e l’ammalato è schiavo di un desiderio dispotico cui non sa, né può resistere: parenti, amici, orgoglio, avvenire, riputazione, tutto è messo in cale. Nel cervello non si ha che una sola idea, negli occhi una sola immagine…Non ragiona puù, non si vive più in un mondo reale, ma in un mondo abitato da un solo essere, o meglio da una sola larva; e se pur non si conserva un po’ di buon senso. Di lucidezza, l’animo reso fiacco non sa liberarsi dal peso che l’opprime”.[12]

Non è raro trovare il binomio amore-morte, permeato da un certo fatalismo pagano; dell’amore che unisce Tecla di Villa Florida e il Nibbio, egli scrive:

“iul destino aveva esaudito i loro voti, aveva svelato a lui il cuore di lei, a lei il cuore di lui, li aveva presi per mano e guidati verso l’abisso ove era l’amore, ma ove era anche la morte”.[13]

Il rapporto amoroso non è quindi quasi mai lineare e statico e comporta un ostacolo esterno: spesso la famiglia di uno o di entrambi. È presente, inoltre, il tradizionale triangolo della letteratura, in cui l’ostacolo all’amore tra i due protagonisti è costituito da un rivale. Mancano invece i sentimenti sottili e contrastanti e le implicazioni psicologiche tipiche della “narrativa maggiore”. Il triangolo amoroso non si conclude mai col trionfo dell’amore e il conseguente matrimonio, ma la presenza del rivale conduce sempre a situazioni tragiche di cui è facile prevedere la fine.[14] Tragicamente si conclude il triangolo Anna-Marcella-Giacomo, in cui Anna, mossa dalla gelosia, dapprima denuncia Giacomo ai carabinieri, poi lo pugnala a morte ed infine si uccide. Addirittura la gelosia fa pronunciare ad Anna:

“Ah, Madonna mia, fa che un toro la incontri nel suo cammino e le rompe il petto a quella origine di ogni mia sventura”.[15]

Ugualmente avviene nel racconto Maria Monaco, in cui Maria uccide la sorella Filomenea che è diventata amante di Pietro, suo marito. Così avviene ne Lo stendardo di San Rocco, come pure in Cola il Lupo e in altri racconti.  Nella trilogia di romanzi aventi per protagonista capitan Riccardo, il triangolo amoroso ha un lieto fine; lo scioglimento della vicenda si ha comunque con la morte, anche se naturale, di uno dei componenti il triangolo, la regina. In un solo racconto, Mentre piove, nella relazione a triangolo troviamo la rassegnazione di uno dei protagonisti. Domenico dice infatti ad Agata:

“Sposa il tuo mugnaio, Agata. Tu l’hai amato, egli t’ama. Sposa il tuo mugnaio. Addio”.[16]

L’ostacolo all’amore è rappresentato qualche volta anche dal padre della ragazza. Il Misasi, seguendo l’esempio verghiano, cerca sempre di calare l’argomento delle sue opere nell’ambiente in cui vivono i personaggi; nei suoi racconti troviamo, infatti, un’usanza tipica della famiglia patriarcale calabrese e meridionale in genere: il matrimonio- contrattazione. Tale costume è citato nella novella Cola il Lupo, in cui il padre di Anna, ponendo fine al colloquio con il massaro Santo, il sensale, dice:

“Do duecento ducati, il letto e il corredo, Peppe il guardiano (il padre dello sposo) farà donazione del suo fondo”.[17]

Allorché il massaro Santo domanda al massaro Antonio se Anna è favorevole alle nozze, il padre della ragazza afferma con decisione:

“Mia figlia non ha altra volontà che la mia. Se conviene a me converrà anche a lei”.[18]

Il valore religioso ew morale che la famiglia assume nei racconti misasiani è sottolineato dalle parole di alcuni personaggi femminili che, per non venir meno all’aobbedienza e al rispetto, sacrificano il loro amore, subordinandolo agli obblighi patriarcali. Per tale motivo Anna soffoca i propri sentimenti verso Cola e lo avverte con le seguenti parole:

“Se tata si sveglia e ci sorprende ce la farà pagar cara”.[19]

Nel romanzetto Marito e sacerdote è menzionata un’usanza tipica del passato:

“Fidanzata fin dal nascimento a Demetrio, la Serafina, cui la madre era morta, veniva custodita con gelosia nella più riposta stanza della casa paterna, e non usciva che la domenica per andare alla messa nella Chiesa del villaggio”.[20]

L’obbedienza non è comunque un dovere cui è sottoposta esclusivamente la donna. Infatti, Filippo Cavalcanti:

“sebbene avesse studiato nelle pubbliche scuole, e avesse viaggiato, e fosse stato a contato di tanta gente, aveva conservato integre le virtù familiari dei suoi padri, prima delle queali il rispetto, l’ubbidienza ai genitori”.[21]

Indicativo di un certo ambiente retrogrado tipicamente meridionale, sono le parole del barone di Polia, un ricco signorotto “defraudato” dell’eredità dal proprio cugino, rivolge al figlio che si era rifiutato di collaborare al rapimento della nipotina del cugino:

“Se tua madre non fosse una brava donna, o meglio, se fosse possibile che una donna di casa nostra venisse meno all’onore suo, io crederei che ella ti generò con chi sa quale pezzente. Già son questi gli effetti del Sessanta; lo diceva io che ne sarebbe andato travolto ogni buon principio, ogni domestica virtù, che i figliuoli educati dalla Rivoluzione si sarebbero ribellati al padre anche contro il loro interesse. Perché, infine, se io cerco di riavere quel che ci fu tolto non è pel tuo vantaggio, per accrescere la potenza e la ricchezza della tua casa e perché un giorno il tuo figliolo possa calcare il piede sul collo di quell’eretico del quale, sciocco che fui, ti obbligai a sposare la figlia. Non fu garibaldino? Non congiurò contro i suoi re legittimi´non è nemico acerrimo del Papa e della Chiesa”?[22]

Talvolta si trova il binomio amore-stregoneria[23]: i personaggi, spesso poveri e rozzi montanari, credono facilmente all’

“istoria di una strega che aveva dato a bere non so che cosa a un giovane, il quale ebbe come una vampa nelle viscere e nelle vene”.[24]

‘Ntonuzzo, in Capanna di carbonaio, non ha dubbio alcuno di essere stato stregato dalla donna di Peppe, il suo padrone:

“La vista gli si faceva torbida e sentiva certe ondate nel cervello e nel sangue”.[25]

Nelle parole di ‘Ntoni si riflettono antiche credenze popolari calabresi:

“Ora non so far più nulla, ora non dormo più. Ora sono scontento di tutti e di tutto. Me l’hai fatta tu la stregoneria: e, per la Madonna, bisogna che me la levi. Peppe mi ha detto che quando una femmina una stregoneria fa d’uopo che una tale femmina sia tutta dello stregato, anche per un solo giorno. Tu mi hai fatto il male e devi guarirmene”.[26]

Così Cola confessa ad Anna il suo amore:

“La vecchia Orsola ti avrà insegnata qualche arte diabolica! Quando sono sulla montagnati ho sempre davanti agli occhi e ne ho rabbia e piacere insieme”.[27]

In questo modo il cavaliere Riccardo Lancia spiega la sua passione per Carmela:

“Ci sono delle vecchie… l’anno scorso me ne fu additata una, che infliggono sette spille in un cuore d’agnello e fanno certi diabolici scongiuri…Quando il cuore  di agnello diviene putrido, il cuore di chi si vuol fare schiavo incomincia a soffrire…come io soffro”.[28]

Analogo motivo è contenuto in Sacrificio d’amore, in cui comare Rosa ricorre alle arti magiche per far ritornare a lei l’antico amante; il Misasi racconta:

“Una sua comare era famosa nel dintorno  per far delle stregonerie; ed era andata dalla sua comare che si era mostrata disposta a spendere in favore di lei tutta l’arte sua. In un cuore d’agnello aveva infisso sette aghi mormorando certe parole; poi l’aveva avvolto in alcuni cenci e l’aveva seppellito al piede di un albero, e sulla terra smossa aveva sparso il sangue di un gallo allora ucciso. E aveva pagato venti lire per questo, e la comare le aveva detto che stesse sicura che l’uomo così fatturato avrebbe l’istesso giorno fatto ritorno a lei”.[29]

Parallelamente alla figura della “magara”, è presente anche quella della zingara che fa “mutare l’odio in amore e l’amore in odio”.[30]

L’amore è considerato a volte opera del diavolo; Elisabetta, uno dei personaggi minori de L’assedio di Amantea, così confessa al suo amante:”Che vuoi? È una fatalità, è lo spirito del male che mi è entrato nelle carni. Ed io sono andata in chiesa, un giorno che mio marito era assente, per farmi esorcizzare, ma invano, ma invano”.[31]

L’amore si presenta anche in forma di carità verso il prossimo: un esempio ne è la generosa ospitalità da parte del massaro Giovanni nei confronti del vecchio Francesco:

“Io benedico il Signore allorché manda quel vecchio al mio focolare”.[32]

Oltre all’amore verso il prossimo è presente anche l’amore verso la famiglia. Esso lega i componenti di una stessa famiglia e porta spesso a vendette e ad uccisioni a catena.

Anche il culto dei santi rientra sotto il motivo dell’amore. Ecco quello che scrive il Misasi in Giosafatte Tallarico:

“Da noi la predilezione per questo o quel santo, per questa o quella Madonna assume proporzioni grandissime, e spesso si fa alle schioppettate o alle coltellate e si uccide o si è uccisi per sostenere la supremazia del santo preferito. Nel vallo casentino si venerano due crocefissi, quello della Rinella e quello della Riforma, or fan dieci o dodici annii devoti dei due crocefissi, vennero a contesa a proposito dei miracoli dell’uno e dell’altro. Il nostro crocefisso della Riforma ne vuole quattro del vostro della Rinella, dicevano gli uni. E il nostro della Rinella se lo mette in tasca il vostro della Riforma, rispondevano gli altri. una domenica si venne alle mani, circa 500 contadini in due schiere erano risoluti a fare un m,massacro in onore e gloria del crocefisso pel quale parteggiavano”.[33]

L’autore aggiunge un commento personale a questo tipo di culto:

“Fra le stranezze umane questa che concilia la devozione, il sentimento e il culto religioso con la rapina, l’assassinio e il padroneggio, mi è stata sempre inesplicabile”.[34]

Ma la “stranezza” avvertita dall’autore non è poi del tutto inesplicabile; questa forma di religiosità è piuttosto da collegare a quel fondo di paganesimo e di politeismo radicato nell’animo meridionale, che considera Dio un potente alleato contro i propri “nemici” e che vede nei santi la moltitudine di dei che affollavano l’Olimpo. La superstizione religiosa del popolo calabrese descritto nelle opere del Misasi dà origine a situazioni quasi grottesche, come nell’episodio del Santoro, il difensore di Longobucco durante l’invasione dei Francesi, il quale

“prima di muovere coi suoi per Acri e di lasciare sguarnito Longobucco, da buon generale volle che per ogni evento non riannesse indifesa, onde si diede a girare per  le chiese e armò di fucili, di pugnali e di pistole le statue dei santi”.[35]

L’autore commenta che

“era sconcio e risibile insieme il vedere una Madonna con uno scoppio ad armacollo, un san Francesco di Paola che, non il tradizionale bastoncello, ma aveva tra le mani una affilata scure, e nella corda che stringeva alla vita infilzati due pistoloni”.[36]

In tutta l’opera dell’autore di Cosenza si trovano varie manifestazioni di religiosità; oltre a quelle esposte, ce n’è una che ricorda l’antica fede, comune ai cristiani e ai musulmani, nel martirio religioso.  A proposito della guerra combattuta da sanfedisti e da borbonici contro i Francesi, la moltitudine degli assediati in Amantea riconosce che

“aspettando il nemico era utile anche rendere propizio il Cielo alle armi della santa causa e assicurare alle anime di coloro che sarebbero morti per essa, la gloria del paradiso”.[37]

Forster afferma che il cibo ha poca parte nella narrativa. Nei racconti dell’autore calabrese il sedersi a tavola non è un fatto mondano, ma vuol dire realisticamente sentir “il batter dei cucchiai e il ciucciar dei contadini affamati”.[38]

Tale motivo della realtà umana è nel Misasi un elemento di caratterizzazione ambientale e sociale inteso a mettere in evidenza la povertà dei personaggi dei suoi romanzi, i quali sono quasi sempre contadini o servi di contadini. Per contrasto è però presente anche la descrizione di qualche pranzo delle persone agiate. Sono tre gli strati sociali cui appartengono i personaggi del Misasi: i galantuomini[39]o borghesi, i massari e i contadini. A ognuna di queste categorie corrisponde un tipo differente di alimentazione. Al giovane ‘Ntonuzzo, ad esempio, il suo padrone “dava da mangiare pane di segala, di lupini, di castagne; qualche volta patate lesse, sovente castagne bollite”.[40]e la baronessa  di Montalto,  che cooemnta il Misasi ironicamente, “per dire il vero, era un cuor d’oro”[41], getta al piccolo Andrea, figlio di un contadino, “un pezzo di pane raffermo”.[42]. l’autore riferisce un detto popolare:

“L’han messo a pane bianco”,[43]per significare che la persona in questione sta per morire, a riprova egli scrive:

“si diventa ghiottoni in punto di morte: si vuole la leccornia, si vuole il cibo squisito, si vuole andare al mondo di là con la bocca dolce; il contadino che muore, vuol gustarla anche lui questa ineffabile felicità del signore, del ricco, del “galantuomo”, un pezzo di pane, bianco come la neve, leggero, poroso, morbido, rosolato nella crosta. Per tanti e tanti anni si è cibato di pane di lupini, di orzo, di castagne, duro, pesante, secco, aspro, che scortica la bocca, che fa male ai denti, e che pesa come piombo nello stomaco. Sarebbe curioso se un giorno quei tali contadini che lavorano e muoiono coltivando i campi di quella splendida signora, da noi ammirata nei teatri e nelle feste, la obbligassero, tanto per ridere, a mangiare per un giorno il loro pane!”.[44]

L’accenno alla bassa qualità e alla scarsità di alimentazione nelle campagne e sui monti silani rivela le istanze sociali dello scrittore. La denuncia della situazione del mondo contadino, anche se non apertamente polemica, è facilmente intuibile anche dalla descrizione di un pranzo presso i baroni di Montalto:

“Per tutta la notte la casa risonava di voci, di canti, di suoni, mentre nello spiazzo davanti la porta i contadini ascoltavano appuntando gli occhi per vedere dalle aperte finestre, vivamente rischiarate, i signori convitati rimpinzarsi di dolci e tracannar colmi bicchieri di liquori portati in giro da servi su vassoi d’argento. Anche essi però pigliavano parte alla festa, ché la baronessa faceva generosamente distribuire gli avanzi del pranzo imbandito agli amici: le croste dei pasticci, le lische dei pesci, le salse, i dolci raccolti e mescolati in un gran bacile. I contadini facevano le boccacce al sapore di quei cibi nuovi e strani, ma ingoivano quella roba con una certa voluttà, per poter dire che anche essi, almeno una volta in vita, avevano mangiato cibi da signori”.[45]

Del resto anche i massri godono di una certa agiatezza, riscontrabile, ad esempio, nella descrizione di un pranzo presso il massaro Antonio:

“Dopo le lasagne e mentre Anna versava in una grande scodella la carne di capra, Antonio diè di piglio alla brocca del vino e la porse al compare”.[46]

Il cibo può avere in alcuni casi anche la funzione di caratterizzazione ambientale. Nel racconto Cola il Lupo è descritta tutta la preparazione del cibo da parte della protagonista e tale descrizione risponde senz’altro a una esigenza di realismo dello scrittore. Ella aveva

“sparse ad asciugare le gialle lasagne, cibo di rito nelle grandi occasioni…andava e veniva dal focolare al desco; or chinandosi a rimestare nel fumante calzerotto, or riponendo il pane ferrigno, la brocca col vino e forchette di legno sulla tovagliola di tela greggia…Infine prese col mestolo un filo di lasagna, l’assaggiò per darsi conto del grado di cottura…[ prese] dalla rastrelliera un gran bacile di creta, e accoccolata sul pavimento versò le lasagne scolate nel bacile… poi dalla casseruola prese a grandi cucchiaiate il sugo nericcio dello stufato e lo versò sulla minestra incaciata ben bene”.[47]

talvolta l’inserimento del motivo suddetto è un pretesto alla narrazione di qualche racconto: intorno a una fumante zuppa o a un fiasco di vino c’è sempre qualcuno che si lascia tentare dalla propria vena narrativa, invitato anche vivacemente dagli altri commensali che seguono con grande interesse lo svolgimento della narrazione, spesso di contenuto amoroso. È il caso di Storia d’amore, un brevissimo racconto con finale drammatico. Questa è la cornice che introduce il narrare del vecchio pescatore:

“Dal mezzo dei pescatori, accoccolati intorno al fuoco, fra le due pietre s’’alzava il fumo nell’etere che rarefatto tremolava; strideva il pesce nella padella, e il vecchio, quasi carpone, soffiava fra le due pietre gonfiando il pesce e le guance; uno dei giovani stendea sull’arenile il tovagliuolo  con le vivande rifredde e la cocoma del vino. In un altro focherello, acceso più in là, bolliva con sordo rigoglio il pesce nella casseruola, ché a lui, famoso in tutto il litorale da Pizzo a Troppa, per la zuppa e la frittura, spettava l’alta direzione della cucina. Quando la zuppa fu al punto, in un largo bacile, colmo di pane affettato, si riversò il contenuto della casseruola; poi il bacile fu deposto nel mezzo del tovagliolo steso sull’arena”.[48]

Altro elemento che E.M Forster  definisce fatto principale della vita umana è il sonno. Esso, però, non essendo un elemento dinamico, viene quasi sempre dimenticato dai narratori. Nel racconto Capanna di carbonaio vi è la descrizione di massara Giovanna e la visione della donna addormentata non fa altro che acuire la passione del ragazzo che

“all’incerto barlume delle braci. Vedea sotto le coltri delinearsi quel robusto corpo di donna”.[49]

La ripetuta descrizione della donna che “supina, russava”, mentre le coperte scivolavano facendo vedere “metà del seno e delle spalle”[50]porterà ‘Ntoni al delitto.

Il motivo della nascita, nei rari casi in cui viene adoperato, è inserito quasi sempre in un quadro drammatico. La nascita del piccolo Giorgio (il futuro Nibbio) ne L’assedio di Amantea), provoca la morte della madre che è stata violentata durante l’assenza del marito. Ella, con paura e orrore insieme, mormora a se stessa:

“Sentirlo qui, vivere nelle mie viscere, perché io lo sento; perché ei vive in me come io vivo in lui, sentire la ineffabile gioia di una tale parola e rabbrividire, rabbrividire di vergogna, di spavento quando egli si agita nel mio seno! Ed è lui che mi grida l’infamia; è lui che insozza il mio corpo. oh, disgraziato, oh disgraziata!”.[51]

Nel momento in cui Pietro di Roccanera, marito di donna Lucia, sta per entrare in casa dopo un anno, si sente “un grido acuto di dolore” della donna e poco dopo “il vagito di un neonato…nel silenzio profondo”.[52]

Anche la nascita di Stefano in Devastatrice è “un prodotto della violenza”; ecco come viene narrata:

“Dopo otto mesi dalla morte di Don Ruggero era nato Stefano, che la madre sin dal primo giorno mandò a balia in un paesello vicino, contro la consuetudine anche delle nostre più cospicue signore…Le pochissime persone che frequentavano la casa della giovane vedova lasciavano comprendere con mezze parole, con lo scrollare il capo e col giuoco espressivo della fisionomia che la nascita di quel figliuolo non era stato punto di consolazione alla madre; e la levatrice giunse anche a confessare ad una sua amica, la quale poi la confidò sotto il suggello della confessione a tutte le sue conoscenti, che donna Maria quando la levatrice le porse il neonato perché lo baciasse lo aveva respinto da sé con un grido di orrore”.[53]

Analogo motivo è contenuto ne Il tenente Giorgio: anche Maria, figlia della marchesa di Monserrato, è nata dall’inganno. Commentano i contadini che

“quando si sgravò la Marchesa, quasi nessuno se ne accorse. Il palazzo rimase chiuso, e la bimba fu battezzata alla chetichella: non spari, non funzioni in chiesa”.[54]

La stessasi Monserrato si rivolge al vecchio zio del marito che ha ordito il tutto per non perdere il patrimonio, con tali parole:

“Lo so, non siete voi, animo freddo, cuori corrosi dalla cupidigia e dalla superbia…che potete comprendere tutti i dolori, tutte le torture, tutti gli strazi della mia sciagurata esistenza, quando la figlia delle viscere mie mi cerca i baci e le carezze ed io debbo respingere, debbo respingere quella innocente creatura che mi fa rabbrividire di vergogna ad ogni sua parola”.[55]

In una situazione diversa è invece la nascita di Andrea che

“quantunque insocievole e testardo, si sapeva che la baronessa non lo avrebbe mai cacciato dal suo servizio, perché egli era nato nella stessa notte in cui era nata la signorina Bianca, e la baronessa nei dolori del parto, aveva fatto voto a Sant’Anna di tenere sempre al suo servizio i nati in quella notte della famiglia contadinesca a lei soggetta”.[56]

Come precedentemente esposto, in questo autore sono frequenti i personaggi orfani del padre o della madre, ma non sono infrequenti neppure quelli di natali ignoti. Spesso di un personaggio egli scrive, infatti, che non ha “mamma, non parenti, non nessuno”.[57]

Nella novella Il povero Rospo il nostro autore si esprime nei confronti di Rospo, il protagonista, nel seguente modo:

“non si sa di chi sia figlio”;[58]

in tale racconto, anzi, lo scrittore affronta il problema dei figli illegittimi con il fine specifico di spronare

“l’economia a studiare certi gravi problemi sociali”.[59]



[1] V. Luigi Russo: Giovanni Verga, cit. p. 322.

[2] Giosafatte Tallarico, cit., p. 26.

[3] E: M: Forster: Aspetti del romanzo, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 57.

[4] L’assedio di Amantea, cit., vol. I°, p. 231.

[5] ibidem

[6] L’assedio di Amantea, cit, vol. I°. p. 24.

[7] Ibidem, p. 147.

[8] Ibidem, p. 25.

[9] Ibidem, p. 123.

[10] Giosafatte Tallarico, cit., p. 11.

[11] Il gran bosco d’ Italia, cit., p. 101.

[12] Tre date, racconto contenuto nello stesso volume de L’assedio di Amantea, cit., vol. II°, p. 227.

[13] L’assedio di Amantea, cit.

[14] c.f.r. O rapire o morire, cit, p. 46:

“Qui la gelosia è intesa fortemente e un forestiero che cerchi di sedurre una nostra donna è sicuro di ricevere quando meno se lo aspetta, due palle incatenate nel cuore”.

[15] La badia di Montenero, citr., p. 93.

[16] Mentre piove, nella raccolta In Magna Sila, Bideri, Napoli 1905, p. 65.

[17] Cola il Lupo, cit., p. 59.

[18] Ibidem, p. 57.

[19] Ibidem, p. 49.

[20] Marito e sacerdote, Bideri editore, Napoli 1905, p. 8.

 

[21] Carmela, cit. p. 75.

[22] Il tenente Giorgio, cit., pp. 82-83.

[23] Stregoneria, in calabrese “magaria”.

[24] Capanna di carbonaio, cit. p. 109.

[25] Ibidem, pp. 109-110.

[26] Ibidem, p. 112.

[27] Cola il Lupo, cit., p. 50.

[28] Carmela, cit., vol: II° p. 166.

[29] Sacrificio d’amore, cit., p. 192.

[30] V. La badia di Montenero, cit., p. 109:

“Me l’ha detto una zingara… sapete che le zingare sanno tante cose, predicano il futuro, fanno mutare l’odio in amore e l’amore in odio, e non s’ingannano mai”.

[31] L’assedio di Amantea. Cit.

[32] Francesco il mendico, In Magna Sila, cit., p. 12.

[33] Giosafatte Tallarico, cit. p. 87.

[34] Ibidem

 

[35] L’assedio di Amantea, cit., vol. I°, p. 137.

[36] Ibidem

 

[37] L’assedio di Amantea, cit., vol. 1°, p. 137.

[38] Francesco il mendico, cit., p. 12.

[39] Ne Il dramma di Pizzo nel 1815, contenuto nel volume di Marito e sacerdote, cit., p. 74, egli definisce ironicamente i borghesi che sono “detti galantuomini…spesso con improprietà di linguaggio”.

Lo stesso spirito canzonatorio è riscontrabile ne Il gran bosco d’Italia, cit., p. 10, in cui dice a proposito dei galantuomini:

“Nome che si dà da noi a coloro che han terre e danaro anche se siano dei  farabutti

2.

[40] Capanna di carbonaio, cit., p. 107.

[41] Andrea, In Magna Sila, cit., p. 5

[42] ibidem

[43] Mentre piove, cit., p. 65.

[44] ibidem

[45] Mentre piove, cit., p. 46.

[46] Cola il Lupo, cit., p. 63.

[47] Ibidem, p. 62.

[48] Storia d’amore, cit., pp. 8-9.

[49] Capanna di carbonaio, cit., p. 109.

[50] Ibidem.

[51] L’assedio di Amantea, cit., vol. I°. p. 4.

[52] Ibidem, p. 6.

[53] Devastatrice, cit.

[54] Il tenente Giorgio, cit., p. 45.

[55] Ibidem, p. 66.

[56] Andrea, cit., p. 43.

[57] Capanna di carbonaio, cit., p. 107.

[58] Il povero Rospo, cit., p. 395.

[59] Ibidem, cit., p. 394.

Contesto

La narrativa di Nicola Misasi, di Maria Lorello

 



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