Giuseppe Gioachino Belli

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Giuseppe Gioachino Belli

Notizie biografiche

Nato a Roma nel 1791, il suo nome completo era Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo. Studiò al Collegio romano. Bambino, visse l'angosciosa vicenda della Repubblica romana del 1798 con la sua famiglia costretta a fuggire a Napoli perché ricercata dalla polizia francese per l'aiuto dato al generale borbonico Gennaro Valentini (cugino del padre) venuto a Roma segretamente per tramare contro la Repubblica. Rimase orfano di entrambi i genitori: il padre Gaudenzio era un computista pontificio, dopo il restauro pontificio ebbe un lucroso incarico alla darsena di Civitavecchia, morì di colera nel 1802: con lui Giuseppe ebbe sempre un rapporto difficile; sua madre Luigia Mazio, giovane e bella, si risposò ben presto ma morì nel 1807. Belli ebbe modesti impieghi privati e pubblici: nel 1809 il governo francese reintegrato lo esonerò dall'incarico presso l'Ufficio del Demanio, ebbe piccoli incarichi da computista presso privati e società, fu segretario alla corte del principe Poniatowski nipote dell'ultimo re di Polonia; passa il tempo tra biliardi, donne e piccoli teatri; dovette ricorrere all'aiuto di padre Lodovico Micara (che diventerà poi cardinale) per trovare un posto da dormire presso il convento dei cappuccini. Nel 1810 inizia a scrivere e pubblicare. Fondò con altri l'Accademia Tiberina , nel quadro della arretratissima cultura locale, divisa tra sonetteria arcadica e gusto antiquario. A 25 anni, nel 1816, sposò senza amore («una donna mi prese per marito», scrisse ironicamente in un sonetto autobiografico in italiano) una ricca vedova, Maria Conti , donna energica di 13 anni più vecchia di lui, da cui ebbe un unico figlio, Ciro . Raggiunta in questo modo una certa agiatezza, potè dedicarsi con maggiore impegno agli studi e alla scrittura. Fece numerosi viaggi, a Venezia (1817), a Napoli (1822), a Firenze (1824), Milano (1827, 1828, 1829), stabilendo contatti con ambienti culturali più avanzati e scoprendo alcuni testi fondamentali della letteratura illuministica e romanticista: a Firenze, presso il gabinetto Vieusseux, incontrò anche Didier e Stendhal ; a Milano oltre ai testi illuministici, vietati nello stato pontificio, fece il suo incontro fondamentale con le "Poesie" di Carlo Porta. Durante i suoi viaggi nelle Marche e in Umbria (allora sotto il dominio dello stato pontificio), conobbe e si invaghì della marchesina Vincenza Roberti da Morrovalle, cui dedicò i sonetti erotici. Sono anni di felicità creativa (i "Sonetti" in romanesco) e di timide aperture ideologiche. Nel 1828 si dimise dalla Tiberina e con un gruppo di amici liberali aprì in casa sua un gabinetto di lettura.
Nel 1837 morì la moglie. Ciò lo riportò in gravi angustie eco nomiche. Anche la situazione politica lo portò verso posizioni sempre più anguste. Angosciato per il futuro del figlio, nel 1838 chiese di essere riammesso all'Accademia Tiberina , e ottenne un impiego al Debito Pubblico. La repubblica mazziniana del 1849 lo sconvolse, spingendolo nella schiera reazionaria, dei difensori del trono e dell'altare: bruciò tra l'altro le varianti e le minute dei sonetti romaneschi (febbraio 1849, proprio mentre infuriava la battaglia per la proclamazione della Repubblica), e scrisse nel testamento che anche il resto della produzione romanesca fosse bruciata «affinché non sian dal mondo mai conosciuti, siccome sparsi di massime, pensieri e parole riprovevoli»: per nostra fortuna aveva poco tempo prima affidato copia manoscritta dei "Sonetti" all'amico monsignor Vincenzo Tizzani. Tizzani li conservò e, dopo la morte di Belli li consegnò quasi integralmen te al figlio. Restaurato il potere pontificio, Belli fu eletto presidente dell'Accademia Tiberina . Nel 1852 fu nominato censore della "morale politica", esercitando la carica con zelo: condannò i melodrammi di Rossini ("Macbeth" e "Mosè") e Verdi ("Rigolet to"), le tragedie di Shakespeare, le commedie di Scribe .
Morì nel 1863, per un attacco di apoplessia.

Opere

I Sonetti sono la sua opera maggiore. Si tratta di una raccol ta di 2279 sonetti in romanesco, composti per la maggior parte in due fasi: 1830-1837 (1867 sonetti) e 1842-1847. Vivente Belli, ne furono stampati solo 23, ma uno solo con il suo consenso (si tratta de Il padre e la figlia, Er padre e la fijja): Belli si firmava 'Peppe er tosto' oppure 996, crittogramma che nascondeva le iniziali ggb; quando entrò ventenne nell'Accademia degli Elle ni , usò il nome di Tirteo Lacedemonio.
Un'ampia scelta comprendente 786 sonetti, insieme a poesie in italiano, ne pubblicò il figlio Ciro, in una edizione contraffatta per fini espurgativi ("Poesie inedite" 1865-1866 in 4 volumi). Seguirono alla fine del XIX secolo una raccolta incompleta (a cura di L. Morandi in sei volumi, 18861889) e solo nel 1952 una prima edizione integrale e rivista sugli autografi (a cura di G. Vigolo , in tre volumi). Questi dati e queste date sono significative del modo come la cultura letteraria accademica e ufficiale ha recepito la produzione belliana: con censure e diffidenze almeno fino alla metà degli anni '50 del XX secolo.

La parte dei "Sonetti" che fa grande Belli, non ha nulla in comune con il quadretto di genere, o con le stampe e acquarelli alla maniera di Pinelli o di Thomas; e niente in comune neppure con i poeti romaneschi che l'avevano preceduto, tutti legati a una poesia bozzettistica e letteraria, a personaggi da accademia, a contenuti intimistici e dolciastri, una lingua artificiosa. Belli sceglie la vita del popolo come soggetto della propria opera perché vive in una società senza sbocchi culturali, dominata dalla corruzione e dalla ipocrisia. Il popolano, per il suo stato di emarginazione, diventava in questa situazione bloccata, l'unico depositario della verità "nuda" e «sfacciata» («fra noantri soli | se pò trovà la verità sfacciata», sonetto 1808). Qui era possibile ritrovare l'impatto con la realtà, al di là di ogni mistificazione di potere. Una discesa non gioconda né purificatrice: il primitivo di Belli non ha i caratteri del 'buon selvaggio' rousseauiano, ma è un personaggio davvero reale e realistico, condannato a una vita di passioni sfrenate, le condizioni di mi seria quotidiana proprie della condizione di sudditanza politica e di sfruttamento economico. In Belli è un doppio atteggiamento, di repulsione e di attrazione per la massa delle manifestazioni plebee. Un atteggiamento che nei momenti migliori risolve con l'ironia e la comicità: in questo modo rimescola e oggettiva le insanabili antinomie di un'operazione culturale che non ammette catarsi. La tragedia personale di Belli è questa, e il suo esito sarà il ripiegamento nel conformismo reazionario, l'abbandono della scrittura in romanesco.
Belli scrisse in romanesco, ma occorre ricordare che quella plebe di cui fece protagonista nei sonetti, era una plebe che in gran parte non sapeva leggere né scrivere: quella plebe non avrebbe mai potuto "leggere" quei sonetti. Che però circolarono ben presto, in forma orale e circolarono tra il ceto di ecclesiastici e di nobili che ufficialmente condannavano qualsiasi forma di eversione: in ciò, come d'altra parte in Belli stesso, agisce una delle caratteristiche del secolare potere ecclesiastico, l'ipocrisia: è l'ipocrisia di un potere temporale (la teocra zia) che usa la repressione fisica degli oppositori e proclama le "verità" dei Vangeli; un potere oligarchico che ha come propria ideologia ufficiale il 'pauverismo' cristiano. La stessa ipocri sia permette la 'seconda morale', quella per cui ai preti si vie tava ufficialmente di prender moglie ma riempendo poi le canoni che di illegittimi e gli orfanatrofi di 'figli di nessuno'. Se condo la prassi cattolica, tutto ciò che non si può controllare è vietato, ma tutto ciò che è vietato è anche permesso purché non sia ufficializzato, 'reso pubblico'. Per questo Belli sceglie il 'segreto di pulcinella' (tutti a Roma sapevano che lui scriveva sonetti romaneschi) di nascondersi dietro pseudonimi e la circo lazione clandestina; e si nasconde nei panni dello 'studioso' che opera una dissezione anatomica all'interno del mondo della plebe romana. Con i panni da studioso inoltre, sfoga una esigenza sot terranea, parte dell'illuminismo in ritardo, che era una compo nente sincera (anche se transitoria nell'arco della sua vita): e nel clima di repressione dell'ambiente pontificio del tempo, vir tualmente eversivo ('giacobino') benché tollerato come tutti i buffoni, proprio per la limitatezza dei suoi effetti. La Roma in cui Belli viveva, e che riflette, è una città che vive in una povertà disperata e senza sbocchi, con pochissimi (ecclesiastici, nobili) detentori di una ricchezza sfrontata. Una città buia, in cui l'amministrazione papale appena tornata al potere dopo la parentesi napoleonica, aveva per prima cosa eliminato l'illuminazione a gas per le strade e chiuso le osterie. Una città in cui lo sfruttamento del popolo arrivava al punto che le leggi sull'ordine pubblico erano rese più o meno severe a seconda del bisogno di manodopera gratuita, in modo da riempire le carceri di «braccia schifose» sufficienti a mandare avanti le poche fabbriche senza assumere nessuno. Un inferno in cui la paga settimanale di un operaio bastava per comprare olio da illuminazione, legna per riscaldarsi e pane sufficienti per 2-3 giorni al massimo: per il resto bisognava arrangiarsi. Il furto e la pro stituzione erano metodi di sopravvivenza. E' in questa Roma che Belli "compie il regresso nel suo parlante pigro e collerico, esibizionista e filosofo" (come scriverà un secolo dopo *Pier Paolo Pasolini , in "Passione e ideologia").
La discesa nel personaggio "popolo" comportava l'adozione totale della sua parlata. Fu anche questa una operazione non indolore. Implicava la condanna del lungo esercizio letterario dell'accademico tiberino, il ripudio di una "favella" (lingua) illustre «fradicia per quasi sette secoli di vita». La scelta del romanesco era cosa diversa dal milanese, dal veneziano o dal napoletano: queste erano parlate comuni a tutti gli strati sociali delle rispettive società, e quindi capaci di esprimere ogni tipo di contenuti, popolari e borghesi, istintivi o intellettualistici. Il romanesco invece, per un insieme di ragioni storiche, era un idioma esclusivamente privato e subalterno. usato solo dalla plebe o nella comunicazione domestica. Sceglierlo significava trasferirsi integralmente nelle strutture mentali e culturali della "turba": gli strati popolari disordinati, incoerenti, instabili. Belli come nessun scrittore realista italiano, attuò in pieno questo difficile transfert. E in più riuscì a decifrare una intera realtà, varia e contraddittoria, attraverso le sole strutture del popolano.
Belli andava per osterie e botteghe, in una Roma misera e in carognita, rubando ai parlanti battute, scene, a volte endecasil labi che riportava a volte fedelmente nei suoi sonetti. Come del resto provano i manoscritti, in cui si vede come Belli partisse proprio da frasi o battute, e intorno a queste costruiva il so netto. Scrive nell'"Introduzione" ai sonetti:
«esporre le frasi del Romano quali dalla bocca del Romano escono tuttodì , senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall'uso, ecco il mio scopo. Io non vo' già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nel la mia poesia».
Belli afferma decisamente di non usare il dialetto romano, che del resto in quanto tale non esisteva, ma una lingua corrotta, «strausata» da plebei che, si legge sempre nell'"Introduzione",
«o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d'idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli».
Belli per far passare a sé stesso e ai suoi lettori l'operazione di avvicinamento al mondo dell'altro, dell'emarginazione e della sudditanza, si traveste da studioso. Scrive l' "Introduzione", e puntualissime note a piè pagina, attento a spiegare ogni minima particolarità antropologica, i proverbi, i modi di dire, e le superstizioni dei suoi parlanti. Compie una operazione letteraria, come del resto mostra la stessa perfezione strutturale dei componimenti, ma riversando tutta la sua capacità mimetica nei componimenti stessi: lo sdoppiamento (lo studioso / l'oggetto del suo studio) rende possibile il preservamento dell'oggetto. Belli mostra una notevole consapevolezza di quanto sta facendo. Scrive nell' "Introduzione":
«Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, i costumi, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza [...]. Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più , abbandonata senza miglioramento».
La realtà belliana è quella di uno stato teocratico, una piramide che ha al vertice il papa, il vicedio, il despota che "commanna e sse ne frega" (comanda e se ne frega, come scrive ne Il papa, Er papa), che è «ssempre quello» da secoli perché ne mutano solo le fattezze esteriori ma l'anima «passa subbito in corpo ar zuccessore» (Il passamano, Er passamano). Sotto di lui i cardinali, i prelati corrotti e prepotenti. Alla base la plebe, vittima della sopraffazione dei ricchi, rassegnata o ribelle, onesta o ladra, che per dimenticare si rifugia in una religione di «smorfie», o si stordisce nei piaceri del mangiare, del bere, del sesso. Al centro del cattolicesimo Belli ne scopre le insanabili contraddizioni, le miserie, le ipocrisie. Siamo lontanissimi dagli esperimenti aristocratici cattolico-liberali delle città del nord-italia, come dalle speranze provvidenzialistiche di un Manzoni . Tra Rabelais e Villon , in una amplificazione bertoldesca del mondo. Un ribaltamento, che è il ribaltamento proprio della realtà. E quando si dice che «er demonio, su o giù , vòi o nun vòi, | è cratura de Dio quanto che noi» (il demonio, sopra o sotto [supergiù ], lo vuoi o non lo vuoi, è una creatura di dio quanto lo siamo noi: ne Le maledizioni, Le maledizzione) si dice qualcosa che non è solo arguzia o gusto del paradossale. In let teratura il tragico era stato patrimonio delle classi elevate, le grandi storie erano riservate ai re, ai nobili, ai potenti: il popolo compariva come servitore furbo, allegro perché incolto. Anche Manzoni , che fu il primo italiano a tentare di capovolgere questa impostazione, ha costruito una sola figura popolare tragi ca (la madre di Cecilia nei "Promessi sposi") senza andare più in là di quanto gli consentivano le sue convinzioni provvidenziali stiche; il dramma dei suoi "umili" protetti paternalisticamente da figure di nobili (fra' Cristoforo, l'Innominato) è a lieto fine. Belli rovescia la situazione. Riporta l'inferno di Alighieri sotto la poltrona del vice-dio, descrivendo la realtà . Il suo è un comico tragico, dostoevskiano. La Roma di Belli è un inferno vissuto nella paura dell'inferno (si legga il sonetto La morte con la coda, La morte co la coda): una Romaccia sporca, «tutt'in un mucchio, facce, culi e panze». Non esiste possibilità o spe ranza di salvezza per il popolo belliano. Come per un altro poe ta, anch'egli nato e vissuto per gran parte della propria vita nello stato pontificio, Leopardi, esiste un tema dominante e angosciante, il pessimismo che deriva dal vedere l'immobilità della storia: non vedere cioè speranze per i viventi. Di contro alle "magnifiche sorti e progressive" (Leopardi) romanticiste, la storia belliana è un mare sì che ribolle, ma che rimane sostanzial mente piatto, uno stige immodificabile in cui ogni urlo, fatto, delitto, risata, rimane inghiottito da una eternità che, sopran naturale o terrena, risulta essere la vera condanna. Se la storia è romanticisticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia. La protesta di questa «turba» è destinata a restare parolaccia, le domande senza risposta. In questo senso Belli (ma anche Porta ) svela l'esilità della costruzione di una cultura nazionalista-popolare dei romantici sti. Sul piano personale, il pessimismo belliano, una volta presa coscienza di questa impossibilità di qualsiasi redenzione prove niente dal campo sociale, porterà Belli all'esito reazionario; Leopardi alla proiezione di una piuttosto confusa e astratta ansia solidaristica.
E intanto, proprio perché è il linguaggio l'unico sfogo permesso alla plebe, in questa condizione di miseria la parola resta una delle poche consolazioni dell'uomo, l'unica libertà possibile. Il linguaggio spregiudicato, sconcio, blasfemo, infiammato dal vino, è il mezzo con cui la plebe sfoga i propri dolori, le ire, la carnalità e la veemenza dei sentimenti, in una immediatezza corporea. In essa trovava il suo diletto estetico, ne faceva come un teatro, popolato di immagini e di figure. L'intelligenza, l'arte di quella plebe era nel suo linguaggio, e Belli è il tramite perché quel mondo possa trasmettersi ancora oggi a noi.

E' vero che il motivo principale per cui all'inizio si apprezza Belli è il comico dei suoi sonetti, ciò che fa di lui uno dei maggiori autori comici italici. Solo che poi, proprio per la ricchezza estrema dei suoi sonetti, si va oltre il piacere comico.
Quella belliana è una "commedia romana", particolareggiata in una infinità di caratteri e di situazioni, che si dilata oltre i confini della città e coinvolge il destino di tutti gli uomini, e il dio stesso che di questo destino è responsabile. Il dio belliano è il tiranno che dopo aver cacciato nell'inferno gli angeli ribelli, «stese un braccio | longo tremila mijja [...]| e sserrò er paradiso a ccatenaccio» (Gli angeli ribelli, L'angeli ribbelli). E' il Cristo che sulla croce sparse per i potenti «er zangue» (il sangue) e per i poveri «er ziere» (il siero) sancendo la spaccatura in due dell'umanità(I due generi umani, Li du'ggener'umani, son.1169 datato 7 aprile 1834):
«Noi, se sa, ar monno semo usciti fori | impastati de merda e del monnezza. | Er merito, er decoro e la grannezza | sò tutta marcanzia de li signori. || A su' Eccellenza, a su' Maestà, a su' Artezza | fumi, patacche, titoli e sprennori; | e a noantri artiggiani e servitori | er bastone, l'imbasto e la capezza. || Cristo creò le case e li palazzi | p'er prencipe, er marchese e 'r cavajere, | e la terra pe noi facce de cazzi. || E quanno morze in croce, ebbe er penziere | de sparge, bontà sua, fra tanti strazzi, | pe quelli er zangue e pe noantri er ziere».
In questo tipo di sonetti Belli usa l'ironia per esprimere una realtà drammatica. L'ironia è il mezzo stilistico per impadronirsi di questa realtà, ma è poi la stessa ironia che riporta il contenuto in una dimensione tragica. La potenzialità iperbolica e iper-quotidiana del romanesco serve a Belli per rendere comicamente sulla pagina una realtà profondamente tragica. Una risata che si spegne (come in altri sonetti del genere) con l'approssimarsi dell'ultima terzina. Appartiene a questo genere un sonetto come La lavandaia zoppicona (La lavannara zoppicona, son.1975).
Altrove la risata è affidata al linguaggio turpe o duro, che non ha mezzi termini: così nella Santaccia di Piazza Montanara (Santaccia de Piazza Montanara, son.597-598), su una famosa pro stituta romana che a volte concedeva le sue grazie senza farsi pagare, come obolo in favore delle anime dei defunti. La lingua di Belli è sempre senza peli sulla lingua, "dal basso". E "dal basso" sono guardati i potenti, che sono in questo modo demistificati. Straordinario un sonetto come I sovrani del vecchio mondo (Li soprani der monno vecchio, son.361, datato 21 gennaio 1832), in cui il parlante toglie rabbiosamente il velo dalle parole dei potenti e fa dire al re la verità solitamente tenuta nascosta. E' la favola amara della realtà politica:
«C'era una vorta un Re che dar Palazzo | mannò fora a li popoli st'editto: | "Io sò io, e voi nun zete un cazzo, | sori vassalli buggiaroni, e zitto. || Io fo dritto lo storto e storto er dritto: | pòzzo vé nneve a tutti a un tant'er mazzo: | io, si ve fo impiccà, nun ve strapazzo, ché la vita e la robba Io ve l'affitto. || Chi abbita a sto monno senza er titolo | o de Papa, o de Re, o d'Imperatore, | quello nun pò avé mai voce in capitolo". || Co st'editto annò er boja pe curiero, interroganno tutti in zur tenore; | e arisposeno tutti: "E' vero, è vero"».
Il confronto drammatico e tremendo, faccia a faccia, del dise redato con la divinità è il filo conduttore che attraversa tutta la raccolta belliana, tanto che si può parlare di una "bibbia belliana", apocrifa e eversiva. Tra le cose migliori, La creazione del mondo (La creazzione der monno, son.165, datato 4 ottobre 1831):
«L'anno che Gesucristo impastò er monno, | ché pe impastallo già c'era la pasta, | verde lo vorze fà , grosso e ritonno, | all'uso d'un cocommero de tasta. || Fece un zole, una luna, e un mappamonno, | ma de le stelle poi di' una catasta: | su ucelli, bestie immezzo, e pesci in fonno: | piantò le pianne, e doppo disse: "Abbasta". || Me scordavo de dì che creò l'omo, | e coll'omo la donna, Adamo e Eva; | e je proibbì de nun toccaje un pomo. || Ma appena che a magnà l'ebbe viduti, | strillò per dio con quanna voce aveva: "Ommini da vienì , sé te futtuti"».
Spesso però la tensione drammatica si allenta, si aprono spazi per il divertimento puro, l'effusione lirica, il raccoglimento elegiaco. Sono momenti di tregua, che variano e arricchiscono la fondamentale epicità dei "Sonetti".
Quantitativamente superiore a quella in romanesco, è la produ zione in italiano qualitativamente mediocre: l'edizione in tre volumi è uscita solo nel 1975 (Belli italiano). Più interessanti l'epistolario (due volumi di "Lettere" 1961, e due volumi di "Lettere a Cencia" 1973-1974) dove affiora a volte un po' dell'«umor nero» belliano. Lo "Zibaldone" (pubblicato in minima parte nel 1962) è una raccolta di estratti e indici di opere che documenta la conoscenza di illuministici e romanticisti, italiani e europei, e l'interesse per la produzione realistica, da Boccac cio a Berni e ai berneschi.


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