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Viscere (un libretto nero)

Giovanni Padrenostro , “Viscere (un libretto nero)”, Statale11, peregrinazione in 8 tappe nelle profondità viscerali, nel grumo sanguinoso e indistricabile della malvagità umana.

di Maria Gabriella Canfarelli - mercoledì 21 gennaio 2009 - 6272 letture

“Viscere”, racconti di Giovanni Padrenostro. La stanzialità del male.

Ripensando a Baudelaire, è sicuramente l’uomo il “fiore del male” par excellence; del resto , come non ricordare i versi di Vincenzo Cardarelli “Ma il male è continuo, stillante. / Il bene è l’infrazione, il male è norma / nella nostra esistenza”, mentre entriamo nella scrittura lancinante, tenebrosa e orrorifica di “Viscere (un libretto nero)”, esordio narrativo di Giovanni Padrenostro per l’editrice Statale11. Esordio di forte impatto emotivo e intellettuale, una peregrinazione in 8 tappe (il numero dei racconti, il numero che, adagiato su un fianco, è simbolo dell’infinito) nelle profondità viscerali, nel grumo sanguinoso e indistricabile della malvagità umana di cui è mèntore, spettatore e vittima Alex, alter-ego del giovane narratore.

Un io-narrante distinto, asse portante tra incipit ed epilogo che, nel corpo mediano del libro, assume altre maschere alla maniera di mister Hyde e con appropriato, angosciante lessico descrive il piacere del male, gli effetti devastanti del potere intersecando piani narrativi con abilità, con incursioni nella legge del contrappasso, come ne “Il balletto della ferocia. SONO UN ASSASSINO” o “La carta che rende potenti. Posso tutto come Dio”, riferimento, quest’ultimo doppio titolo, al denaro che tutto compra (sesso, dignità, speranze), denaro che però non serve a evitare la morte cruenta del personaggio ad opera dei suoi “servi”, “cani” che scodinzolano, obbediscono, leccano, salvo poi azzannare il loro “padrone”, a smembrarne il corpo con la stessa ferocia con cui il potente di turno abusava e straziava la loro anima.

La cifra etica che pervade “Viscere” è sostenuta da aggettivi e sostantivi incalzanti, utili a mostrare l’abisso in cui la coscienza sprofonda, e forte è il senso di pietà per le vittime come altrettanto è l’indignazione impotente che si ricava dalla lettura di questa opera prima in cui gli strumenti della narrazione (climax, soprattutto) sono posseduti in pieno; Padrenostro racconta fatti di quotidiana sopraffazione come in una cronaca, quasi fosse un inviato, un giornalista, senza fare trasparire il suo personale giudizio, tenendosi a distanza di sicurezza emotiva, e tuttavia, ma solo in filigrana, si intuisce una reale sofferenza per l’umanità violata. La comunicazione (e il suo significato morale) arriva attraverso lemmi la cui reiterazione è funzionale a sottolineare l’orrore: “disgusto”, “tenebroso”, “sbrana”, “sangue”, “lacerato”, “scorticare”, “coagula”, “materia”, “carne”, e altri; tra rimandi, intrecci, ossimori, simboli, piani narrativi slittanti tra passato e presente, inarrestabili flussi di coscienza la narrazione scava nelle brutture umane mostrandone le molte sfaccettature. Dal sordido intreccio di storie di abusi, delirio, sesso, morte all’arma bianca, bisturi o pene che vìolano il corpo d’altre esistenze (il prete pedofilo, il killer seriale, il chirurgo plastico, l’eros patologico che dòmina e sottomette, il denaro e il lusso che ne consegue), lo scrittore offre spunto di riflessione sul nichilismo contemporaneo ( il nulla, il vuoto morale), qui e ora e sempre. La scrittura aspra, amara, disgustata, dall’andamento ciclico e ritmico come un’ossessione apre in profondità, squarcia il velo dell’apparenza per mostrare il putridume interiore, le interiora, appunto. Ma è anche scrittura còlta che attinge di striscio, in forma di epigrafe ad alcuni racconti, a espressioni gnomiche, riflessioni morali, politico-sociali e letterarie, da Oscar Wilde (L’uomo è molte cose, ma non è punto ragionevole) a Carlo Marx (Meno si è, e meno si esprime la propria vita; più si ha e più è alienata la propria vita), da David Hume (La bellezza non è una qualità delle cose stesse, essa esiste nella mente che le contempla...) all’omaggio a Orwell e al suo “1984” sul trionfo del potere dei media: manipolazione della realtà, che è sostituita da omissioni e menzogne metodiche, dittatura mediatica oggi più di ieri: dal Socing orwelliano (soltanto finzione letteraria) alla costruzione d’una finzione vera - una bellezza artificiale spacciata per naturale verità.

Menzogna, delitto, sopraffazione fisica e morale, e non solo; da che l’abiezione umana non disdegna di ricorrere al nome di Dio per perseguire l’obiettivo prefissato: distruggere l’altro, il diverso, usando la religione della guerra in “L’uomo che morde la coda all’essere. La legge non è uguale per tutti”, e per un frainteso (volontariamente) senso del peccato nel racconto “Due carni allo specchio. L’AMORE AI TEMPI DI PASOLINI” un ragazzo omosessuale viene assassinato da veterotestamentari cattolici osservanti. Eros e Thanatos sono come avvinghiati a una spirale lessicale che stordisce e sfinisce, e il desiderio di possesso mostra, icasticamente, la sua insita crudeltà, il punto di non ritorno. L’anima, invocata a fior di labbra dalle vittime, delira ed è travolta , arsa di pece, trascinata nel buio, nel flusso ininterrotto della coscienza che fatica a diventare piena consapevolezza, non riesce a rivelarsi compiutamente in quanto è vuota , “senza peso”.

Alex, l’io-narrante, chiude la struttura circolare del libro con un passaggio repentino dalla prosa alla poesia, versi visionari dal titolo “Il mio inferno. Per una momentanea fuga dalla rabbia”, assegnando così, di fatto, alla poesia la pesantezza dell’anima per ridare a quest’ultima le ali, la leggerezza per ascendere: nonostante “il cappuccio del boia” , nonostante “la notte impiantata tra gli occhi “ e le “grida in dissonanza” dell’angelo nero “spurio nel regno della caducità” che rappresenta il male sulla terra, luogo e spazio in cui si consumano delitti e oltraggi in nome della pura e semplice “malvagità, della perversione, dell’ossessione di cui i personaggi sono espliciti emblemi e, assumendo variegate forme, si nidificano nelle coscienze“ (Marilena Di Stefano, dalla quarta di copertina).


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