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Unioni omosessuali: no a discriminazioni sulle pensioni

Il dovere reciproco dei partner dell’unione civile a contribuire, anche col proprio lavoro, alla comunità partenariale, sussiste anche in capo ai coniugi all’interno della famiglia.

di giovanni d’agata - martedì 24 maggio 2011 - 2725 letture

Un’altra decisione della Corte di Giustizia, la sentenza 10.05.2011 n° C-147/08, dimostra questa tendenza. Questa volta la Corte si occupa di parità di trattamento tra coppie ed in particolare, sulla base del principio di parità di trattamento e sul divieto di discriminazione fondato sulle tendenze sessuali in materia di occupazione e lavoro, ha stabilito un’equiparazione tra la pensione complementare di vecchiaia percepita da un soggetto coniugato e quella di colui che ha contratto un’unione civile, nel caso in cui lo Stato membro abbia legittimato, mediante registrazione, l’unione per coppie dello stesso sesso.

Peraltro, secondo la sentenza che riportiamo, il cittadino ha facoltà di invocare la disciplina contenuta in una direttiva UE, in virtù del primato del diritto comunitario su quello nazionale, senza dover aspettare il recepimento da parte del legislatore interno abbia e sia scaduto il termine impartito allo Stato membro per la trasposizione.

Una decisione non applicabile in Italia, in quanto, come a tutti è noto, in Italia si dibatte da anni sui diritti tra coppie di fatto e coppie dello stesso sesso senza però arrivare ad una conclusione mentre migliaia di famiglie di questo tipo sono ad aspettare e subiscono una serie di evidenti discriminazioni che dovrebbero essere bandite in uno stato che ritiene di essere civile.

Nel caso di specie, il signor Romer era stato dipendente di un ente pubblico territoriale tedesco dal 1950 sino a quando nel 1990 era stato costretto a pensionarsi in conseguenza di uno stato di incapacità lavorativa. Quando nel 2001 aveva contratto un’unione civile registrata col proprio compagno e aveva comunicato il nuovo status civile all’ex datore di lavoro, aveva anche richiesto che la pensione complementare di vecchiaia fosse rimodulata tenendo conto della deduzione più vantaggiosa per il soggetto d’imposta.

Il datore di lavoro aveva obiettato sull’istanza di ricalcolo prospettato in quanto riteneva che fosse riservato dalla legislazione ai soggetti sposati e non stabilmente separati. Quindi nel 2008 l’ex lavoratore aveva ritenuto di proporre ricorso innanzi al Tribunale del lavoro di Amburgo ritenendo che il principio contenuto nella suddetta normativa non fosse riservato solo al “beneficiario coniugato e non stabilmente separato” ma anche applicabile a coloro che avessero contratto unioni civili registrate, in conformità alla normativa interna vigente, sulla scia del principio di parità di trattamento sotteso alla direttiva 2000/78.

La corte adita sospendeva il procedimento rimettendo la vicenda alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e formulando ben sette questioni pregiudiziali. Nel motivare la decisione, la Corte di Giustizia ha ricordato che la legislazione in materia di stato civile è di competenza dei singoli Stati membri ed ha sottolineato che l’obiettivo della direttiva 2000/78 è quello di contrastare, in materia di occupazione e di lavoro, anche le discriminazioni fondate su tendenze sessuali, per rendere effettivo negli Stati membri il principio di parità di trattamento.

In particolare, ai sensi della citata direttiva, la parità di trattamento consiste nell’assenza di ogni discriminazione diretta o indiretta, ricorrendo la fattispecie relativa alla discriminazione “diretta” quando un soggetto viene tratto con minor favore, rispetto ad un altro, in una situazione non uguale bensì “paragonabile”. La Corte ha rammentato che dal 2001 la Repubblica federale tedesca ha istituito l’unione civile registrata per i partner dello stesso sesso e solo tre anni dopo è stata varata una legge che, anche sotto il profilo del diritto alla pensione di reversibilità, ha uniformato l’unione civile al matrimonio.

Il dovere reciproco dei partner dell’unione civile a contribuire, anche col proprio lavoro, alla comunità partenariale, sussiste anche in capo ai coniugi all’interno della famiglia. Peraltro, i giudici europei hanno rilevato che se l’ex lavoratore fosse stato coniugato, anziché partner in un’unione civile registrata, gli sarebbe stata calcolata la pensione complementare di vecchiaia in modo più favorevole, subendo pertanto un trattamento meno favorevole basato sul dato concernente la propria tendenza sessuale. In ordine al diritto del singolo di chiedere l’applicazione del principio alla parità di trattamento contenuto nella direttiva 2000/78, la Corte ha stabilito che questo risultava attivabile a decorrere dal 3 dicembre 2003, termine per la trasposizione della direttiva nel diritto interno, senza aspettare che il legislatore interno avesse reso la legislazione conforme al diritto comunitario.

Secondo la Corte, la direttiva n. 2000/78 sulla parità di trattamento in ambito di occupazione e condizioni di lavoro deve essere interpretata nel senso che non sono escluse dalla propria applicazione le pensioni complementari di vecchiaia oggetto del ricorso principale: siffatta direttiva si rende quale ostacolo di un’eventuale normativa interna degli Stati membri, come quella tedesca citata nel giudizio principale, dove un beneficiario partner di una unione civile registrata percepisce una pensione complementare di vecchiaia inferiore rispetto a quella percepita da un soggetto sposato.

Chiaramente tutto ciò è condizionato dalla circostanza che che nello Stato membro il matrimonio sia riservato a soggetti di sesso diverso e coesista ad un’unione civile, come quella prevista in Germania, nonché sussista una discriminazione diretta basata sulle tendenze sessuali poiché, per quanto concerne la pensione di vecchiaia, il partner si trova in una condizione di fatto e di diritto paragonabile a quella di un soggetto sposato.

In ultimo i giudici hanno precisato che il giudizio sulla “paragonabilità” compete al giudice del rinvio e che in ogni caso deve essere compiuto sui diritti e obblighi dei coniugi e delle persone che hanno contratto un’unione civile.


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