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Una giornata al Cozzo Corvo

Realtà e leggende sulle turturiciane. Mobilitazione di mogli e di spie. Una frustata di felicità.

di Antonio Carollo - martedì 22 maggio 2007 - 4175 letture

La cena fu piuttosto silenziosa. Mio padre mangiava, come al solito, con buon appetito. Aveva davanti a sè ’u spillongu colmo di pasta fatta in casa. La mamma era abilissima a farla. Prendeva la maidda di legno dal fondo della grande cucina dove, dietro una tenda, stavano tre grandi giare d’olio d’oliva; la metteva sul tavolo e vi versava la farina. Sul vuoto fatto al centro con una mano aggiungeva da una ciotola le uova sbattute, copriva e con la mani cominciava a impastare lentamente versando via via un po’ d’acqua da un bicchiere. La pasta pian piano si consolidava sotto la spinta avvolgente delle mani di mamma; per non farla attaccare la mamma vi spruzzava di tanto in tanto della farina. Quando era al punto giusto la spianava con il matterello e l’assottigliava in una sottile foglia che veniva tagliata con un coltello da un’estremità all’altra. Qui si vedeva maggiormente l’abilità della mamma: senza esitazioni faceva sulla pasta tagli diritti dritti da cima al fondo ricavandone striscie perfette. Allora entravo in azione io. Con un altro coltello, che avevo pronto in mano, facevo un unico taglio centrale perpendicolare a quelli della mamma, in modo da dimezzare la lunghezza delle strisce. Poi prendevo tre canne che tenevamo appoggiate al muro accanto ad una giara, le lavavo sotto la cannella, le asciugavo e le stendevo tra le spalliere di due sedie. Con le mani scrupolosamente pulite (la mamma non transigeva; prima di ogni operazione m’ingiungeva: “Lavati bene le mani col sapone”.) prendevo le striscie di pasta e le appendevo in fila sulla canna per farle asciugare. Finita l’operazione la mamma mi ordinava: “Adesso, via di qui; guai a te se mi fai cadere a terra la pasta”. Infatti una volta, per inseguire una palla, avevo buttato a terra tutto quell’apparato sotto gli occhi della mamma disperata. Era un sabato sera. La mamma non faceva la pasta in casa e non usava per papà il piatto lungo, più capiente degli altri, tutti i giorni: altrimenti l’avrebbe fatto diventare grasso come una botte. Mio padre a 44 anni era un uomo robusto,un po’ pienotto, con la pancia ormai visibile; era alto un metro e settanta, peso sugli ottanta chili. Mangiava con gusto. Tagliatelle e ravioli con salsa di pomodoro o sugo di pomodoro e carne era il massimo per noi. Guardavo come mio padre si sedeva a tavola: adocchiava il piatto, s’aggiustava sul petto una salvietta, prendeva cucchiaio e forchetta con gesto largo, come a compiere una delicata operazione, i polsi della camicia arrotolati sulle braccia; si inumidiva le labbra, mentre il pomo d’Adamo gli andava su e giù; infine affondava le due posate e cominciava la sua personale sinfonia. La salsa di pomodoro di mia madre aveva un sapore unico, nella bocca era una delizia. Tante volte, di nascosto, in cucina prima di cena, prendevo un pezzo di pane e lo inzuppavo nella salsa, cercando di non macchiarmi la camiciola per non farmi scoprire. Quel sapore era una cosa esclusiva della mamma. Né in casa di parenti, né da altre parti l’ho mai sentito. Neanche mio padre ci riusciva quelle rare volte che in campagna, durante la villeggiatura, si metteva a cucinare. Io stesso ci ho provato in seguito quando le necessità della vita mi portarono lontano dal focolare domestico. Niente da fare, anzi niente di fare, come dice la mia nipotina di quattro anni. Eppure gli ingredienti erano quelli: pomodoro maturo raccolto alla pianta poche ore prima, aglio, cipolla, basilico, tutti dell’orto di casa, un pizzico di peperoncino. Non credo vi mettesse altro la mamma. Vi metteva sicuramente la sua misteriosa sapienza nel dosare ogni componente e nel cuocere al punto giusto. Dopo il terzo assalto a quella montagnola di pasta coperta di caciocavallo papà si rivolse a me: “Lunedì dovrò andare a Termini Imerese, Ciccio non può rimanere nella stalla in paese; fa troppo caldo. L’attacchi al carretto e lo porti ai Pilieri. La sera lo riporti a Trabia. Stai attento; fallo mangiare e bere , come sempre”. La mamma si fermò di botto a metà strada tra la cucina e la sala. “Ma come, lo mandi da solo? E’ troppo piccolo. Ci può andare Ninuzzu”. Mio fratello alzò la testa dal giornalino che teneva accanto al piatto: “ No no, ho lezione, non posso perderla”. Nino frequentava il primo anno di filosofia all’Università di Palermo. Ormai era considerato perso per la campagna. Mio padre, che aveva voluto farlo studiare, si era rassegnato. Non lo chiamava più, neanche per la raccolta delle olive che ci vedeva mobilitati insieme a una squadra di jurnateri, di cutulatura e di turturiciane. Le turturiciane erano raccoglitrici di olive provenienti da Turturici. Venivano in gruppi, si sparpagliavano tra diverse proprietà, raccoglievano le olive negli oliveti e dormivano in grandi casoni adibiti a magazzini, buttate su pagliericci fatti alla meglio; questo per tutta la stagione di raccolta delle olive che cominciava a ottobre e finiva a dicembre. Erano lavoratrici ricercate perché avevano mani svelte come macchinette ed a sera si vedevano bene i risultati in termini di sacchi pieni d’olive. Intorno a loro, oltre alla fama di lavoratrici imbattibili, fiorivano leggende di convegni notturni proibiti, di prestazioni sessuali da far perdere la testa. Le mogli dei proprietari in quel periodo stavano sul chi vive e tenevano sotto stretto controllo i mariti, i quali dovevano dare ragione di ogni loro uscita di sera. Non di rado parenti di mogli gelose venivano sguinzagliati alle calcagna di uomini che, nonostante le fatiche del giorno, la sera avevano voglia d’uscire a prendere un caffé con gli amici, dicevano loro. Una volta toccò anche a me. Fui spedito in un certo quartiere del paese, in una certa via, per spiare se per caso una persona conosciuta si fosse fatta viva da quelle parti. Fui di guardia qualcosa come due ore e mezza senza vedere anima viva. Tornai a casa moggio moggio e con terrore mi accorsi che papà mi aspettava sull’uscio incazzato nero come una belva: non me la feci sotto ma poco ci mancò: volle avere conto e ragione dell’uscita di sera e dell’ora tarda. Farfugliai parecchio, poi riuscii ad inventare qualcosa di plausibile, mentre mamma e Giuseppina aspettavano trepidanti che la sfuriata terminasse, pronte ad intervenire se le cose si mettevano male per me. Giuro: quella fu l’unica volta che feci (o meglio: tentai di fare) la spia. Adesso papà replicò in mio soccorso: “Ntuniuzzu ormai è granni. Sa fare tutto. Non c’è pericolo. Cicciu è una bestia anziana quieta e affettuosa. Stai tranquilla”. Giuseppina, che sedeva acanto a me, azzardò un: “L’accompagno io”. Papà con uno sguardo la fulminò: “Oé, ma che succede qua; tu si ’na fimmina e devi stari a casa cu to matri! Hai capito o no?” .Avevo nove anni, conoscevo il nostro mulo bene; quasi sempre toccava a me governarlo nelle lunghe giornate estive, quando per due mesi, la mia famiglia, traslocava nella casa di campagna; ma non avevo avuto mai il compito di attaccare e staccare il mulo dal carretto e di guidarlo da solo nei tragitti di andata e ritorno, otto chilometri, per i Pilieri. Fu una frustata di felicità. La notte sognai di galoppare in groppa a Ciccio giovane e focoso come un cavallo. Alle sei ero già in piedi.

(1-continua)


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