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Terzo settore, luci ed ombre

Intervista al professore Moro che da anni studia il terzo settore. Un settore della società italiana che sta attraversando un periodo di profonda crisi identitaria

di Emanuele G. - giovedì 13 agosto 2015 - 38273 letture

Il professore Giovanni Moro è Presidente di Fondaca (sigla che sta per: Fondazione per la Cittadinanza Attiva) un think-tank europeo costituito nel 2001. Si occupa di scottanti argomenti quali il ruolo pubblico di soggetti privati, i rapporti tra i soggetti della arena pubblica e il proprio ambiente operativo, i mutamenti in corso nei sistemi democratici, la dimensione europea e, infine, la trasformazione strutturale dei modi in cui la cittadinanza si forma, si esprime e si pratica nelle società contemporanee.

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L’anno scorso ha pubblicato un saggio per Laterza dal titolo piuttosto forte: "Contro il non profit". Un soggetto che in virtù di una teoria riduttiva (voluta? - nda) produce informazioni confuse, inganna l’opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare.

Da qui l’esigenza di intervistarlo. Anche alla luce di inquietanti fenomeni che vedono sempre di più il terzo settore al centro di inchieste da parte della magistratura. La più eclatante quella riguardante la società cooperativa "29 Giugno Onlus" di Carminati e Buzzi.

D: Perché un saggio sul “terzo settore”?

R: Perché il tema è così importante che non possiamo permetterci di considerarlo in modo ingenuo o acritico, e nemmeno delegarlo agli addetti ai lavori. Sia sul piano politico che su quello sociale è necessaria un’analisi critica che metta in discussione prima di tutto la etichetta di “non profit” attribuita indistintamente a organizzazioni diversissime tra loro.

D: Dove si possono prendere dati sul “terzo settore”?

R: Esiste un censimento realizzato dall’Istat (l’ultimo con riferimento al 2011), che però soffre dei problemi della concettualizzazione del non profit, prodotta negli Stati Uniti e diffusasi in tutto il mondo. Si tratta di una definizione residuale (non profit è ciò che è non statale e non privato – un “non qualcosa”), che permette che in questo magma si trovi di tutto: squadre di calcio, partiti politici, fondi pensione dei liberi professionisti e tanto altro ancora. Questa concettualizzazione residuale, però, è solo apparentemente neutra, perché in realtà riflette sia una impostazione economicista (il cosiddetto terzo settore esiste in quanto produce ed eroga beni e servizi), sia il modello americano di welfare, basato sulla comunità che finanzia e gestisce i servizi, con un ruolo solo marginale per lo stato. Ma una organizzazione che lotta per i diritti umani non produce alcun bene o servizio e non ha un valore economico né la sua attività è monetizzabile. D’altra parte, almeno in Europa e in Italia l’accesso a servizi come quelli dl welfare non è beneficenza ma un diritto che rientra nel contenuto della cittadinanza.

D: Il “terzo settore” non è un modo con cui lo Stato si lava le mani in riferimento alle politiche sociali?

R: Precisiamo subito che nel cosiddetto terzo settore ci sono molte organizzazioni che non si occupano di politiche sociali, ad esempio quelle ambientaliste. Che si riduca tutto al welfare è un ulteriore sintomo del problema. Quanto alle politiche sociali, sì, in molte situazioni si realizza quella che viene chiamata “sussidiarietà strumentale”, ossia la esternalizzazione non solo della gestione, ma anche della responsabilità dei servizi da parte delle amministrazioni pubbliche. Prendiamo l’esempio di una cooperativa che gestisce la mensa di un asilo nido. Il cibo non è di buona qualità. Allora i genitori protestano nei confronti della cooperativa che dice loro di rivolgersi al comune; e dal canto suo il comune invita quei genitori che protestano a farlo nei confronti della cooperativa. Magari, come succede spesso, quest’ultima risponde che poiché i soldi erano pochi non si poteva fare di più. I genitori a quel punto chiedono legittimamente: ma allora perché avete accettato l’appalto? Questo stesso fenomeno è visibile anche nel campo dell’assistenza ai migranti. Ci sono ottime realtà nel Meridione che non sono note, ma, allo stesso tempo, c’è il CARA di Mineo dove – al di là degli aspetti criminali – non si capisce dov’è lo specifico contributo delle cooperative sociali a una gestione di qualità di 3.000 ospiti. Il fatto è che la sussidiarietà dovrebbe concretizzarsi in reali e solide partnership tra cittadini organizzati e istituzioni pubbliche, mentre non ha niente a che fare con la esternalizzazione e l’abbandono dei servizi di welfare da parte dello Stato a puro scopo di risparmio.

D: In che modo il DDL approvato attualmente in discussione apporta miglioramenti alla legislazione vigente sul “terzo settore”?

R: Come molti altri, sono piuttosto critico su questo disegno di legge soprattutto perché c’è un tentativo fallito di tenere conto di interessi diversi e spesso in conflitto tra loro. C’è poco coraggio, invece, nello stabilire come unico criterio valido per discernere ciò che è di interesse sociale da ciò che non lo è (e questo non significa che sia illegale), le attività svolte dalle organizzazioni del cosiddetto terzo settore o non profit che dir si voglia e il modo in cui vengono realizzate. Temo che il provvedimento, al di là di alcune misure di buon senso, non ci aiuterà a distinguere ad esempio un’associazione che gestisce un bar o un ristorante da una che fa l’assistenza domiciliare ai malati terminali.

D: Quali i limiti del “terzo settore”? Lei ne ha indicati due: elusione fiscale e concorrenza sleale.

R: La tipologia comprende anche molte situazioni che sono ingiuste ma perfettamente legittime, come ad esempio le slot machine negli oratori o l’accesso al 5 per mille di soggetti come le fondazioni di proprietà di imprese private. Ci sono poi situazioni in cui i costi di accesso ai servizi prestati da queste organizzazioni – ad esempio sanitari o educativi – rendono questi stessi servizi irraggiungibili alla maggioranza della popolazione. E infine c’è il fatto che il cosiddetto non profit è diventato in tutto il mondo un grande business, cosicché si assiste alla concorrenza per la raccolta fondi, al prevalere di organizzazioni grandi e ricche su quelle piccole e povere anche se con cause più giuste, alla estrema professionalizzazione dei responsabili, fino ad arrivare a quei fenomeni di “sussidiarietà strumentale” a cui mi sono riferito prima.

D: In che modo, secondo lei, bisognerebbe sfruttare al massimo e meglio le incredibili risorse del “terzo settore”?

R: Ci sono a mio parere due cose principali da fare. La prima è riconoscere che il cosiddetto non profit o terzo settore non esiste come entità omogenea e distinguere invece all’interno di questo magma insiemi di organizzazioni che hanno una effettiva comunanza. Non si può, insomma, continuare a considerare le parrocchie uguali alla Confindustria. La seconda cosa da fare è identificare con decisione il valore sociale delle organizzazioni esclusivamente nelle attività che svolgono e nella connessione di queste attività con l’interesse generale. A seconda del grado di prossimità delle attività all’interesse generale si può graduare di conseguenza il sostegno pubblico. Ma siamo noi cittadini che dobbiamo stabilire i criteri per valutare le attività, anche se non ci vuole molto a capire che un ristorante che fa semplicemente concorrenza sleale al suo omologo privato non ha niente a che fare con l’interesse generale, mentre un ristorante i cui camerieri sono ragazzi down (come spesso succede) invece sì.

D: Alla luce delle vicende drammatiche di MafiaCapitale il “terzo settore” è stato sottoposto a un processo di "macelleria sociale"...

R: Beh, direi che è accaduto quello che era contenuto nelle premesse della invenzione del cosiddetto non profit o terzo settore. Da una parte, la definizione residuale e la mancanza di reali elementi distintivi ha permesso a chiunque di entrare in questo magma e sfruttare i benefici che la legge assegna ad esso, senza alcun filtro o controllo reale. Dall’altra, c’è stato un “effetto boomerang”: i comportamenti criminali di alcuni si sono riversati su tutti e hanno coperto tutti di ludibrio pubblico. Nel mondo delle imprese private questo non succederebbe mai: nessuno pensa che il caso Parmalat autorizzi a considerare tutti gli imprenditori come dei banditi; tutti infatti sanno che la responsabilità è del management di quella azienda. Chi si lamenta dell’ondata di antipatia pubblica per le cooperative sociali seguito a Mafia Capitale si dovrebbe ricordare di quando faceva comodo essere guardati con simpatia in quanto “non profit” a prescindere dai propri comportamenti e soprattutto dalle proprie attività.

Grazie professore Moro per gli utili spunti di riflessione che ci ha donato nel corso dell’intervista.

Per maggiori informazioni sulle attività del professore Moro si prega cliccare sui seguenti link:

Fondaca

Euproact

Giovanni Moro


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