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Sul dare i nomi

Collodi e Pinocchio, Tristram Shandy, François Truffaut. Tre scene e i quattrocento anni di Don Chisciotte

di Sebastiano Leotta - sabato 27 agosto 2005 - 6944 letture

Nel nome di Pinocchio

1) < Che nome gli metterò > ? Disse fra sé e sé. < Lo voglio chiamare Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene.Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.> Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.

La favola collodiana si apre con un pezzo di legno che si rifiuta di diventare una gamba di tavolino; c’è, piuttosto, nel legno una inquietudine - una vocina sottile sottile - che chiede di essere ascoltata. Diversamente da Mastro Ciliegia, Mastro Geppetto non si sottrae all’ascolto e si mette subito all’opera per tradurre il desiderio di quella vocina.

Giorgio Manganelli osserva giustamente che l’azione di Geppetto sarà quella non di fabbricarlo, ma di estrarlo, si tratta, aggiungiamo, di dare peso e materia al pensiero iniziale: ho pensato di fabbricarmi da me un burattino di legno... . Ma prima di tradurre in atto la possibilità del legno decide di dare un nome al burattino, un nome proprio. In quella macchina teleologica che è il Pinocchio di Collodi - il legno che diventa un burattino e poi un bambino- il Nome diventa diretta anticipazione della necessità immanente della storia collodiana: domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato, promette la Fata al burattino.

Denominando la cosa che gli sta davanti viene antiveduta la sua umanità futura; il nome proprio dato ambiguamente a un burattino (ma solo gli umani portano di diritto il nome proprio e poi, l’unico dei pre-umani che porta il nome proprio, tranne un paio di casi insignificanti, è solamente Pinocchio), esprime che lì nel legno c’è qualcosa da cercare e che sarà pienamente comprensibile quando la possibilità iniziale sarà tradotta completamente in atto.

Dunque non basta l’idea, bisogna nominare questa idea e soprattutto è necessario che questo proposito incontri una potenza materiale che l’accolga (si capisce come questo è il punto di ogni discorso non religioso sull’inizio e come in questo modo viene ridotto il ruolo della volontà di Geppetto).

Il nome Pinocchio non è altro, allora, che il segno personale che anticipa quell’essere irripetibile che il burattino sarà, sigillo e memoria del mistero che sta alla base di ogni provenienza nel mondo degli esseri e dei nomi.

2) Su Tristram Shandy

Tra le stravaganze di Walter Shandy, il padre dell’eroe sterniano c’è quella di un cratilismo spinto e cioè: che una nominazione adeguata debba avere un efficacia positiva e operativa sulla futura biografia del figlio: La sua opinione, su questo argomento,era, che c’era una strana sorta di magica impronta, che un nome buono o cattivo, come lo chiamava, imprimeva inesorabilmente sul nostro carattere e sulla nostra condotta (...) Quanti Cesari e Pompei, diceva, solo perché ispirati da quei nomi, non ne sono stati resi degni?

Quindi il padre pensa che all’ eccellenza del Nome debba seguire una esistenza altrettanto eccellente. Quindi ogni forma di trascuratezza nell’imposizione del nome dovrebbe evitarsi a favore di una ricerca accurata, perché alla fine gli individui sono conseguenza del nome, o meglio, il nome diventa principio direttivo e ispiratore delle loro azioni. Ma il romanzo ci riserva sorprese.

Per il protagonista del romanzo, il futuro Tristram, che viene al mondo in maniera un po’ rocambolesca e con un difetto al naso (che per Walter Shandy è simbolo di calamità future) si rende necessario, sempre per l’ effetto magico del nome, annullare la negatività di partenza con un nome come Trismegisto, e cioè tre volte grande. Ma essendo rimasto in ritardo per il battesimo del figlio, ci pensa la cameriera che non ricorda il nome per intero ma solo la sillaba iniziale, cioè Tris: Susannah era partita in vantaggio, e lo mantenne- E’ Tris qualcosa grido Susannah- Non c’è nessun nome di battesimo al mon do che incominci con Tris- all’infuori di Tristram- Allora è Tristram-,gisto disse Susannah.

 Non c’è nessun gisto, oca!- è il nome, replicò il curato, immergendo la mano nel catino mentre parlava- Tristram! disse, eccetera eccetera eccetera eccetera, così fui battezzato Tristram..., nome che, fra l’altro, è giudicato dal padre, qualche pagina prima, come basso e spregevole.

In quella catena associativa che come sappiamo regge il romanzo, e che nel caso del nome dovrebbe avere un funzionamento virtuoso, tutto viene capovolto e subentra un’altra associazione, quella della cameriera e del curato, che nulla capiscono della filosofia onomastica di Walter Shandy.

Tra il potenziale taumaturgico racchiuso nel nome e il soggetto di questo nome si inserisce la dabbenaggine, diciamo una sorta di lectio facilior, della cameriera, quasi a interromperne, oppure a deviarne, la magica traiettoria. Insomma l’imposizione del nome riacquista una sua casualità e arbitrarietà.

In questo modo il cratilismo iniziale del capolavoro sterniano non può che convertirsi in parodia.

3) L’enfant sauvage, un film di François Truffaut (1970)

Il film mette in scena una fatto accaduto nella Francia di fine settecento. Nella foresta dell’ Aveyron viene trovato un bambino allo stato selvaggio, probabilmente abbandonato alcuni anni prima. Un medico, il dottor Itard, se ne fa affidare la custodia. Da qui inizia la storia di un rapporto morale e pedagogico con il < selvaggio >. La sequenza che a noi interessa brevemente commentare è una delle più belle del film. Il dottor Itard sta cercando di dare un nome al bambino, non sa che nome scegliere, quando si accorge che reagisce al suono della lettera < o >, allora trova un nome che contiene quel fonema, cioè Victor.

Scrive Truffaut, che nel film, si racconta la frustrazione della conoscenza, con il tentativo ostinato di Itard di annullare questa mancanza. Si può dire che il film è una approssimazione alla lingua del sé. Per Truffaut la natura è mutismo e indifferenziazione. Ogni atto, ogni pensiero, possono raccogliersi (sia pure come memoria e aspettativa) solo attorno al suono e al segno di un nome.

Il presupposto di ogni esperienza è il linguaggio (che Truffaut chiama più generalmente cultura), insomma il nome è il luogo in cui l’io può nominarsi non ancora come specie ma come singolo.

Il nome dato all’enfant sauvage,in un grande scena di battesimo che di fatti lo fa rinascere, diventa il tramite (dove mezzo e fine coincidono) per la riconquista della sua giusta provenienza umana.

I 400 anni di Don Chisciotte

4) Nomi, castità. Nel personale sistema di Don Chisciotte la castità è uno dei mezzi per l’esercizio dell’attività eroica. Il presupposto fondamentale dell’eroe è, a parte l’onore, la fedeltà: fedeltà alle leggi della cavalleria, fedeltà ai sacri doveri: raddrizzamento dei torti, soccorso alle vedove e agli oppressi e, infine, fedeltà alla signora che tiene le chiavi del cuore del cavaliere errante. Ma solo chi si conserva casto, sottratto a ogni distrazione, può aspirare alla massima fedeltà.

Nessuno che non sia animato da irresistibile propositi può consentire facilmente alla castità, occorre, invece, una decisone robusta e virile (M. de Unamuno), decisione che appare quasi impossibile al resto dell’umanità, umanità rappresentata nel romanzo di Cervantes da Sancio Pancha. Per Sancio, il mondanissimo Sancio, la castità non si presenta mai come valore da conquistare o da prendere in considerazione, neanche come mezzo, egli ne è tuttavia sedotto e affascinato tanto da abbandonare moglie e figli per seguire Don Chisciotte.

La castità asseconda l’itinerario spirituale di Don Chisciotte, separando dal mondo essa è elemento di distinzione e provocazione del mondo stesso, del mondo immerso nella concupiscenza, nella cràpula e nel denaro. Il turbamento che il personaggio di Cervantes porta con sé non scompone il mondo, e questo è uno dei motivi della sua comicità, ma si tratta, piuttosto, di vederlo diversamente. Distanza e modificazione della realtà percepita, solo così l’esser casto raggiunge il suo scopo: donare dignità, preparare il mondo alla redenzione di ciò che è debole, degradato e asservito.

E qui veniamo al Nome.

La continenza di Don Chisciotte trasforma qualsiasi cosa gli capiti sotto il naso ( modifica sia i nomi propri, sia l’uso e la funzione contestuale dei nomi comuni): una bacinella di ottone diventa l’elmo di Mambrino, delle ghiande per porci invitano alla nostalgica evocazione dell’età dell’oro quando tutto era pace ,tutto amicizia ,tutto concordia. Allo stesso modo si inventano nomi e fantastiche etimologie al solo scopo di innalzare un cavallo male in arnese a nobile palafreno: dopo aver nel suo cervello inventati e poi scartati, allungati ed accorciati, disfatti rifatti una gran quantità di nomi, finì col chiamarlo Ronzinante; nome secondo lui maestoso,sonoro, e che significava molto bene ciò che era stato, quando era stato ronzino,di fronte a ciò che era ora, cioè un ronzino < innante> a tutti i ronzini del mondo.

Tralascio l’ovvio riferimento al nome contadinesco di Aldonza che diventa Dulcinea del Toboso e l’autonominazione cavalleresca del protagonista.

Perché ogni cosa acquisisca sotto lo sguardo casuale e scombinato di Don Chisciotte (una idea del corazòn secondo la magnifica formula di Antonio Machado) un nuovo valore e una nuova innocenza che il mondo non conosce, queste devono rendersi disponibili a una nuova modalità gnoseologia e a una metamorfosi onomastica (cerchiamo di sottrarre questo aspetto del romanzo a una scontata lettura, tipica dei commentatori, dall’effetto comico-grottesco).

Si andò avvicinando all’osteria, ch’egli prendeva per un castello (...) e gli dettero nell’occhio le due sgualdrine che erano sull’uscio e che a lui parvero due vaghe donzelle o due avvenenti gentildonne che innanzi alla porta del castello bel tempo per avventura si dessero.

Don Chisciotte scambia un’osteria per un castello, l’oste per il governatore di una fortezza, un porcaro per un suonatore di corno, che pare uscito da una chanson de geste, e due baldracche che erano lì al seguito di una carovana di mulattieri dirette a Siviglia per due avvenenti e leggiadre castellane

Deh non vogliate, gentili donzelle, in fuga volgervi, né di onta veruna aver temenza, perocchè per l’ordine della cavalleria da me professata non conviene né lice far onta a persona veruna...

Il nostro cavaliere attento a scansare ogni pericolo che potrebbe attentare alla sua castità e a non commettere fellonia contro la sua donna, proprio perché casto nobilita le due donne rendendole degne di gentilezza e di un linguaggio curiale e rispettoso, indirizzando ad esse non uno sguardo carnale, che non avrebbe fatto altro che confermarle nella loro degradazione, quanto un sguardo inedito che le rende oggetto di attenzione e di un cavalleresco riguardo nel mettersi a loro disposizione. In questo modo due puttane qualsiasi, ribattezzate, con un titolo nobiliare, in donna Mugnaia e donna Tolosa, sono consegnate al rispetto dei secoli futuri.

Si tratta allora di produrre una nuova realtà, e dunque tutte le cose devono assumere un nuovo segno che rappresenti la loro nuova destinazione (cioè di essere nuovamente), almeno agli occhi di Don Chisciotte. Solo Sancio rimane immune dalla metanomasia donchisciottesca.

Non sappiamo, per concludere, quale sia l’ordine delle cose, e dei nomi, più conveniente da seguire, se quello reale e referenziale dello scudiero oppure quello immaginario e utopico del nostro cavaliere, ma muchos son los caminos por donde lleva dioso a los suyos al cielo.

NOTE ( solo i testi principali)

Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, a cura di Emanuele Trevi, Roma, Newton Compton 1995;

Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, a cura di Lidia Conetti, Milano, Mondadori 1992;

Il film L’enfant sauvage è distribuito dalla i Collection Cinéma Fnac (DVD);

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Cesare Segre e Donatella Moro Pini, trad. it. Ferdinando Carlesi, Milano,Mondatori 1988 (V edizione I Meridiani); la traduzione della citazione finale è la seguente: molteplici sono le strade per cui il signore conduce i suoi al cielo.


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