Sei all'interno di >> :.: Culture | Libri e idee |

Storie di uomini e di città

Il PCI a Roma : tracce di una storia che parla ancora / a cura di Enzo Proietti. - Roma : Bordeaux, 2020. - 409 p., [3] : br. ; 21 cm. - ISBN 978-88-32103-83-0.

di Sergej - domenica 6 dicembre 2020 - 1935 letture

Segnaliamo qui un libro molto interessante, una iniziativa editoriale importante. Nato dalle attività di una associazione culturale e politica, l’Associazione Berlinguer di Roma, il libro curato da Enzo Proietti è tra le cose che più interessanti che che abbiamo letto, riguardanti la storia politica italiana - in questo caso, riguarda Roma e il PCI - in questo fine 2020.

Contributi di Giulio Bencini • Goffredo Bettini • Paolo Bufalini • Antonio Castronovi • Paolo Ciofi • Armando Cipriani • Lionello Cosentino • Patrizia Gabrielli • Umberto Gentiloni • Sandro Morelli • Pasqualina Napoletano • Edoardo Perna • Luigi Petroselli • Enzo Proietti • Vittoria Tola • Renzo Trivelli • Antonello Trombadori.

Chi acquista il libro direttamente presso l’Associazione Berlinguer, contribuisce alla vita di questa associazione culturale: i nostri lettori romani sono invitati a farlo.


Sinossi editoriale

Questo libro è la raccolta di testimonianze di ex segretari di Federazione e di autorevoli dirigenti del Pci romano, una serie di riflessioni sul “grande miracolo” compiuto da quel partito che ha saputo coniugare la rappresentanza delle classi sociali più sofferenti alle grandi passioni determinate dalla voglia generale di cambiamento. Si raccontano gli anni più bui e quelli delle grandi vittorie, che hanno significato grandi speranze, ma anche la sofferenza di gruppi dirigenti obbligati a duri confronti sia con la base che con il gruppo nazionale. Una storia politico-umana, che ripercorre i decenni del secolo scorso, e innerva la storia del Pci a Roma con le vicende nazionali, com’è ovvio, e che estrae dai racconti dei protagonisti l’evoluzione, le trasformazioni della città a cui la politica dei comunisti romani ha contribuito, ma racconta anche quando quelle trasformazioni sono state affannosamente rincorse. Si intravvede la voglia di passare dalla “traccia” alla storia vera e propria di un partito, aprendo una riflessione collettiva, dopo decenni di rimozioni, quando non vere e proprie falsificazioni. Solo le testimonianze dirette, oggi, possono fare testo, e questa è la strada da seguire.


Alcune note a margine

"Io cerco un centro di gravità almeno momentanea / La Terra, l’Emilia, la Luna / Io e te in un temporale interminabile in Sud America" (La terra, l’Emilia, La Luna, Le luci della centrale elettrica)

JPEG - 23.2 Kb
Copertina del libro Il PCI a Roma, a cura di Enzo Proietti

Dopo le grandi narrazioni, le storie generali che hanno provato a dare il quadro generale di una storia politica in cui i singoli agivano in contesti più grandi di loro - la grande storia nazionale o tra Stati, i grandi eventi come le guerre mondiali o le ristrutturazioni economiche epocali -, è la volta delle narrazioni particolari, territoriali. Si passa dai grandi personaggi ai quadri intermedi. E qui la storia si complica perché si umanizza e si determinizza: da una parte la storia comincia a passare sulle diverse attitudini e sulle diverse specificità dei singoli; i limiti umani, le intelligenze di questo o quel determinato quadro, cominciano ora a fare la differenza. E nello stesso tempo fanno le differenze le specificità regionali, territoriali, le storie dei luoghi. I grandi eventi non risparmiano i singoli territori, ma i singoli territori rivivono e interpretano questi eventi in maniera propria, sulla pelle dei singoli, quasi sasso su sasso - zolla su zolla. Nella storia italiana, si inizia a fare storia regione per regione - sulla linea del nuovo protagonismo che il riassetto istituzionale ha consegnato alle Regioni. Una storia quasi dialettale, regionale o persino cittadina.

Così dopo le grandi narrazioni sulla storia del PCI (quella di Spriano, le cose scritte da Bocca ecc_) ecco le storie regionali. Non ultima questo Il PCI a Roma, edito da Bordeaux ma prodotto dall’associazione Berlinguer, che raccoglie il materiale di una discussione indetta da questa associazione, con contributi documentari provenienti anche da storici segretari del PCI romano e dirigenti del partito (a livello nazionale). Il tutto curato molto bene da Enzo Proietti, che ha avuto parte nella storia del PCI romano.

Debbo dire che quando si passa dalle grandi storia generali a quelle territoriali, si avverte subito la differenza - un sottofondo, un sapore linguistico diverso. Nello stesso tempo c’è un fondo di linguaggio simile - ed è il politichese proprio del PCI, con la sua tendenza a non occuparsi dei singoli casi, dello specifico, ma sempre di contestualizzare all’interno di un discorso più generale. Era il tentativo di quel filone ideologico di astrarre dal caso particolare; nello stesso tempo quella lingua è stato anche il limite di quel filone: l’incapacità a analizzare la cosa, spesso perdendosi in un astrattismo ideologico di maniera. Proprio per questa tendenza, il “fare storia” o lo storicizzare se stessi, è quantomeno inattendibile da parte di chi quel linguaggio e quel punto di vista continua a detenere.

Finquando ci si mantiene all’interno del paradigma ideologico che ha prodotto la sconfitta, non si comprenderà mai la sconfitta nella sua concretezza. Nello stesso tempo, solo chi ci è stato dentro può dire il perché di certi comportamenti - secondo la percezione che se ne aveva - e che non corrisponde alla realtà di quei comportamenti.

La storia del PCI a Roma alla fine è la storia di una sconfitta. In cui un partito diventa altro dalla città e dai cittadini cui si rivolge. E i romani diventano altro da quello che quei gruppi politici avrebbero voluto o continuavano a immaginare fossero i loro referenti diretti.

Se da una parte le azioni amministrative, e politiche, delle giunte di Argan, Petroselli e Vetere provano a portare per la prima volta Roma alla modernità democratica, partendo da una città abbandonata, senza servizi, in macerie. Quello che accade dopo è più complesso e sottile. L’imborghesimento dei quadri da una parte, lo scompaginamento sociale ed economico che Roma (e il resto dell’Italia) subisce tra gli anni Ottanta e Novanta. Ed ecco che le due parti cominciano a divergere, ognuno va per la sua strada. Si stupiscono, i quadri del PCI romano divenuti borghesia, che il “popolo” non li segue più. Solo che questa borghesia è tale solo per reddito e per tipologia di consumi, non è legata al lavoro - se non quello parassitario della burocrazia di partito. Non essendo legata al lavoro reale, è una borghesia sterile, che si mantiene solo perché la durata della vita si è allungata - altrimenti sarebbe sparita prima.

Ma, en passant, tutto questo travalica la specificità storica e diventa anche un quesito di più vasta portata: perché le amministrazioni virtuose, che hanno portato un reale benessere alle popolazioni e alle città, non vengono "premiate" con la rielezione? Perché chi fa bene viene politicamente scartato, e al massimo ti danno il beneficio del rimpianto (comodo, consolatorio ma irreversibile) che non serve proprio a nulla? Hanno ragione i politici "tradizionali" per cui la pratica del compra-voti vale di più della pratica amministrativa corretta?

Se esiste una “banalità del male”, esiste anche una “banalità del bene” (quella ad es_ che fa sì che se fai bene, questo bene non viene riconosciuto e non produce bene, ma si spegne come per inerzia).

Vi è una frattura qualitativa tra i quadri nati prima della guerra e quelli nati - e cooptati all’interno del partito - dopo la guerra. Nei primi è ancora il ricordo della miseria, la politica è lotta per il superamento di quella miseria: è un impegno per la modernizzazione democratica. Per i secondi non c’è questo stimolo. I Veltroni, i D’Alema e successivi sono un’altra razza - un’altra classe sociale.

Non sono cose secondarie, non sono cose che gli altri, che di quei ceti non fanno parte, non avvertano.

Usciti dalla guerra, il PCI si fece un punto d’onore a presentarsi non solo come il partito degli ignoranti e dei pezzenti, cercando di far breccia tra la piccola e media borghesia, cooptandone i giovani sperando che quei quadri, più acculturati, potessero meglio servire alle necessità di autogoverno del partito e nella lotta politica. Il problema fu che quei giovani divenuti quadri del partito non riusciva a cooptare all’interno del partito quei componenti provenienti dal proletariato e dalla marginalità che avrebbero potuto mantenere l’equilibrio interclassista all’interno del partito. I quadri si sono sempre più spostati verso la borghesia. E i pezzenti hanno smesso di sentirsi rappresentati da quei borghesi. Ognuno per la propria strada. Il PCI è diventato partito della borghesia “di sinistra” - ma della borghesia appunto. Il PCI è stata anche una grande “scuola” di politica, che ha insegnato che fare politica non è stare al bar e parlare di politica, o pensare che la politica sia solo conquistare posti in un consiglio comunale, e brigare con l’obiettivo di diventare assessorre o sindaco, o manovrare per sparlare dell’avversario interno al proprio partito. Per il PCI politica era fare delle cose, “amministrare” avendo piena conoscenza dei meccanismi legislativi, delle possibilità; e avendo come modello delle cose concrete: che si trovavano nel modo di organizzare la vita quotidiana delle città attraverso gli asili nido, l’urbanistica moderna, l’arredo urbano, i rapporti democratici e l’attenzione tra centro e periferia, la politica dei trasporti: un modello di città possibile che aveva gli esemplari viventi prima nei Paesi dell’Europa del Nord, ma anche in America Latina, in URSS persino, e poi nell’Emilia Romagna. La concretezza derivava dall’esistere quei modelli non nel regno dell’ipotesi universitaria, ma nella realtà “avanzata” che ci si poneva come obiettivi.

La rivoluzione dei sindaci in Italia, prima in Emilia Romagna, poi parzialmente in Toscana, e in Umbria - la rivoluzione dei sindaci comunisti in Italia negli anni Settanta e parte degli anni Ottanta (quando la “spinta propulsiva cominciò a scemare) - fu fondamentale per la tenuta dell’Italia negli anni di ricomposizione sociale: gli anni del terrorismo e del progressivo aumento nel ceto politico e dirigenziale italiano della corruzione, l’uso dell’evasione fiscale come metodo di acquisto del consenso da parte dei partiti al potere. Quei sindaci presero le città per i capelli e le tirarono su dalla melma in cui erano state lasciate affondare da una delle classi politiche più corrotte dell’Europa (la DC e i suoi alleati) - con i loro annessi apparati di controllo (nella magistratura, nelle amministrazioni, nel sindacato ecc_).

Fu, quell’esperienza, ciò che permise all’Italia di rimanere nel novero dei Paesi civili, europei. Il “dono” che diede il PCI alla borghesia progressista italiana. Qui diciamo solo una cosa: che la morte di Petroselli (sindaco che molto ho amato negli anni Settanta della mia adolescenza, che ebbe in Nicolini il battitore libero di una nuova declinazione della pratica della democratizzazione della cultura negli anni ancora “di piombo”) e poi di Berlinguer non vengono a interrompere un percorso “positivo”. Le loro morti segnano la fine di un percorso, che i loro eredi non sanno efficientemente rinnovare; ma quel percorso era già terminato prima della loro morte. Sia Petroselli che Berlinguer erano a un punto morto della loro vita politica già prima della loro morte fisica. Non mi sembra che valga dunque il falso ricordo, per il falso rimpianto: peccato che morì Petroselli perché chissà quante cose si sarebbero potute continuare a fare. Le cose non stanno così. La crisi - di idee e di capacità di rappresentanza, era già prima e quei leader non avevano più idea vera di come affrontarla perché il “tempo” culturale e sociale di quelle generazioni era fuori tempo massimo.

L’apparato, il “partito” dei funzionari che era diventato il PCI, reagì con la “continuità” fasulla. Che non fece che ulteriormente distaccare quella classe politica - borghese, di funzionari e non più di “abitanti” della città - dalla realtà che nel frattempo mutava con una rapidità che non si era in grado di comprendere perché non si era più “lì”, non si era più “nella” città. Se oggi noi continuiamo a pensare a quanto accadde in quegli anni, a quelle esperienze, è perché abbiamo bisogno di un intervento all’interno delle nostre città - che ritroviamo avviate verso un declino altrimenti irreversibile. Quella storia, la lunga tensione di un partito - il PCI - all’interno della variegata realtà italiana, ha una grossa importanza. Per capire cosa ci ha condotto fin qui, e le possibilità che ci sono state - le finestre che si sono aperte - e che ci hanno permesso in questi decenni di non perdere completamente il senso collettivo, sociale, del nostro essere nel mondo.


«Quando i giusti vengono al mondo, il bene pure viene nel mondo e la sventura ne è scacciata, ma quando i giusti se ne vanno dal mondo, la sventura ritorna nel mondo e il bene ne è scacciato» (Tosefta, Sotà, X, 1)



- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -