Sei all'interno di >> :.: Primo Piano | Attualità e società |

Spezzare le catene del male

Nel carcere di Padova a confronto familiari delle vittime e detenuti. Più di 500 persone seguono un dibattito teso, difficile, emozionante. Le sofferte testimonianze di Agnese Moro, Sabina Rossa, Ilaria Cucchi, Lorenzo Clemente, Giorgio Bazzega, Silvia Giralucci

di Adriano Todaro - mercoledì 26 maggio 2010 - 3206 letture

Avvicinare e mettere a confronto le famiglie delle vittime e i colpevoli sembrava un’impresa disperata. Metterli a confronto poi, all’interno di un carcere, una missione impossibile.

Eppure quello che è avvenuto il 21 maggio scorso nel carcere di Padova è stato un grande successo. Non era per nulla scontato che andasse in questo modo. Più di 500 persone per tutto il giorno, hanno partecipato, dibattuto, ascoltato con attenzione i relatori della giornata-studio su “Spezzare le catene del male”.

La giornata, organizzata dai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, il periodico del carcere di Padova, ha visto l’appassionata partecipazione di avvocati, magistrati, volontari, assistenti sociali, educatori, familiari dei detenuti e 120 detenuti che hanno gestito l’organizzazione della giornata in tutte le fasi: dall’accoglimento degli ospiti al buffet.

Vittime e colpevoli o meglio familiari delle vittime e colpevoli. Un confronto, lo si è capito dai vari interventi, sofferto, difficile, spesso emozionante. E così si sono trovati, fianco a fianco, la figlia dell’operaio Guido Rossa, Sabina, ucciso dalle Br (1979) e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, massacrato dopo una settimana dall’arresto (2009), la figlia di Aldo Moro (1978), Agnese e Lorenzo Clemente marito di Silvia Ruotolo, 39 anni, uccisa “per errore” durante un regolamento di conti tra camorristi (1997). E poi Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, maresciallo di polizia ucciso dal brigatista Walter Alasia (1976) e Silvia Giralucci, figlia di Graziano assassinato dalle Br (1974).

Dall’altra parte i detenuti. E sono stati loro ad aprire il dibattito raccontando le loro storie, spesso tragiche, ma facendo trasparire anche la consapevolezza di aver compreso i propri errori, di aver conservato la speranza di un percorso riabilitativo, la speranza che i loro errori possano servire ad altri a non commetterne.

Da qui l’importanza del progetto dei detenuti di Padova rivolto agli studenti: “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Un progetto che ha visto il coinvolgimento di centinaia di studenti che per la prima volta sono entrati in un carcere, che hanno avuto un contatto con i detenuti scoprendo che in carcere non ci vanno solo i “predestinati” e che coloro che sono in carcere non sono i “mostri”, ma persone che debbono certo pagare per il male che hanno arrecato ma nello stesso tempo deve essere dato a loro la speranza, appunto, del recupero.

Hanno insistito molto i detenuti su questo concetto che è poi previsto dalla nostra Costituzione, ma non applicato. Investire su questi temi – hanno sottolineato – significa disinnescare “bombe ad orologeria”, significa più sicurezza perché un detenuto che esce a fine pena e che durante la sua detenzione non ha fatto nulla, che è stato in una cella sovraffollata per la maggioranza delle ore, che non ha studiato, non si è impegnato in qualcosa, uscirà incattivito, arrabbiato, violento. E, quindi, più propenso – come ci dicono le statistiche – a tornare a delinquere.

Quello della vivibilità delle carceri è stato un tema ricorrente del dibattito di Padova. Non poteva essere diversamente considerato che oggi per circa 43 mila posti, nelle carceri ci sono in 67 mila detenuti. Non poteva essere diversamente considerato che si sono ammazzati 26 persone, dall’inizio dell’anno (ogni due giorni muore un detenuto). E’ proprio vero che il carcere è l’unica soluzione? L’alternativa al carcere esiste, le leggi prevedono questa possibilità. Perché, allora, queste possibilità non sono sfruttate?

Qualche giorno fa il Garante dei detenuti del Lazio ha denunciato che il 27 aprile scorso è stato arrestato un uomo di 63 anni che deve scontare quattro mesi di reclusione per un reato commesso 15 anni fa. L’uomo pesa 205 chili, ha ovviamente problemi cardiaci, un’ernia, è costretto a muoversi con le stampelle. Non riesce a dormire sdraiato, non riesce a lavarsi da solo, non ha una sedia a rotelle della sua misura. Siamo sicuri che il carcere fosse l’unica soluzione per questa persona? “Certezza della pena” e diritto alla salute sono termini inscindibili, sono termini legati l’uno all’altro.

Ecco che diventa importante un contatto, un colloquio, un confronto con le vittime dei reati. Così da superare l’odio e la sofferenza della pena. “Conosco il male – ha affermato Agnese Moro – perché anch’io so fare il male e l’ho fatto. E ho imparato che non si ferma da sé, se non c’è una decisione. Anche se dire basta non è sufficiente, bisogna essere in due a volerlo. Il male si ferma quando si ricuce un tessuto di umanità che è stato ferito”.

E sta proprio qua il difficile. La difficoltà sta proprio nel cercare di ricucire il “tessuto di umanità”. Difficile perché abbiamo le paure che ci hanno propinato i mass media, la paura del “mostro”, del diverso. La banalità dei luoghi comuni (“se sono dentro è perché hanno fatto qualcosa”, “metterli dentro e buttare via la chiave”), il non voler comprendere, informarsi, leggere le cose criticamente.

Tutte cose che ci ricorda Ilaria Cucchi: “Da quel giorno la nostra vita è cambiata drasticamente. Alla normale difficoltà nell’elaborare il lutto abbiamo dovuto aggiungere la difficoltà di capire ciò che è successo. Al di là della giustizia, che speriamo possa arrivare, abbiamo bisogno di sapere cosa è accaduto per poter andare avanti”. Ilaria non incolpa, in toto, le istituzioni. Dice piuttosto che “E’ evidente che l’errore è stato di singoli e so che ci sono tantissime persone che fanno questo lavoro con impegno e umanità. Individuando e non coprendo le responsabilità di qualcuno, si eviterà di far passare un messaggio sbagliato e far sì che certi episodi non ricapitino”.

Ilaria sottolinea, come Agnese Moro, questo termine: “umanità”. Un termine che non trovava posto nell’animo e nella vita di Giorgio Bazzega che quando ha due anni gli uccidono il padre. In lui c’era solo rabbia e rancore. Lui stesso ci racconta che la sua vita stava affogando nella cocaina e nelle cattive compagnie. Poi, attraverso un blog del giornalista Giovanni Fasanella, conosce Mario Ferrandi, ex di Prima Linea. All’inizio ci sono state grandi litigate. Poi s’incontrano e comincia a vedere in Ferrandi una persona e non un “mostro”. “Oggi – continua Bazzega – non ce l’ho con chi ha ucciso mio padre ed è stato a sua volta ucciso, ma con chi ha indottrinato, armato e mandato al macello quel ventenne. Ora con Mario siamo amici e mi è capitato di cercare un contatto con suo figlio, che sente tutto il peso di un cognome ingombrante”.

Già, i figli. Quelli che un detenuto, nel suo intervento, chiama “vittime senza volto”. Testimonianze di parenti di detenuti, di sorelle, di genitori. Chi si sente abbandonato da tutti, dalla società per un reato commesso da un familiare e chi vuole comunque restargli vicino e fargli sentire la presenza della famiglia “per spezzare la catena e reintegrare davvero una persona”.

Queste esperienze, siano essi vittime o colpevoli, cambiano completamente la propria vita. Silvia Giralucci, oggi giornalista, figlia di un assassinato dalle Br, pensava che l’unica soluzione fosse sbattere in galera i colpevoli e gettare via le chiavi mentre oggi si batte per i diritti dei detenuti. Un po’ quello che è avvenuto a Lorenzo Clemente a cui la camorra ha ammazzato la moglie e oggi lavora come volontario nel carcere di Nisida con l’obiettivo di “levare i figli alla camorra”.

Un’altra figlia è Sabina Rossa figlia del militante Pci Guido, ucciso nel 1979 dalle Br. Lei è una parlamentare ed è da lì, da quell’osservatorio che conduce la sua battaglia per i diritti dei detenuti e per l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. E’ la prima firmataria di un disegno di legge per la modifica dell’articolo 176 del Codice penale affinché la concessione della libertà sia basata, come prevede la Carta, sul criterio della conclusione positiva del percorso rieducativo. E non è un caso, infatti, che già nel passato si era detta contraria alla negazione della libertà condizionale all’ex brigatista Vincenzo Guagliardo, l’assassino di suo padre. “Ci ripensino – aveva detto Sabina in quell’occasione riferendosi ai magistrati –. Guagliardo l’ho conosciuto, è un uomo ravveduto, che ha pagato il conto con la giustizia”.

Esperienze diverse, ma accomunate da una ricerca comune. La ricerca di capire il perché è avvenuto tutto quello, il tentativo di capire, di conoscere il “mostro”, colui che ha cambiato loro la vita. Giustizia e perdono sono cose completamente differenti. La giustizia è quella che chiede Ilaria Cucchi e che chiedono un po’ tutti. Il perdono, invece, è una questione molto personale, intima. Come ben dice Agnese Moro, la giustizia “è un percorso di rieducazione, un atto collettivo finalizzato a ricostruire le regole sociali violate, non la vendetta”.

Un altro carcere è possibile? Certo, e qualcuno indica il carcere di Bollate. Ma è proprio la direttrice del carcere, Lucia Castellano, a smitizzare la “diversità” di Bollate. Castellano parla dell’esperienza della “stanza dell’affettività”, un’esperienza altamente positiva dove, a turno, i detenuti hanno la possibilità di passare una giornata intera con moglie e figli, in una stanzetta dove si è voluto ricreare un piccolo appartamento, un luogo familiare, potremmo dire la normalità. C’è un tavolo, una cucina, un fasciatoio, la televisione, le suppellettili. Non siamo ancora ai rapporti intimi come avviene in Spagna e in quasi tutti i Paesi europei, ma sono comunque momenti particolari, proprio per non recidere i rapporti familiari. “Noi – sottolinea Lucia Castellano – in realtà non facciamo niente di più di quanto non preveda la legge, cercando comunque di sfruttare al meglio le norme. Questo significa consentire i colloqui nelle aree verdi in primavera e estate, permettere i pranzi di Natale e Pasqua in compagnia dei propri cari, garantire un po’ di intimità familiare nella stanza dell’affettività”.

Alla fine del convegno, facce stanche, tirate. Non è stato facile parlare di questi argomenti, ma intanto Ristretti Orizzonti ha rotto l’argine che separa vittime e colpevoli. Va dato atto ai detenuti di Padova di aver saputo organizzare una giornata intensa, altamente qualificata. “Abbiamo voluto dedicare questo evento – sostiene la direttrice del giornale, Ornella Favero – ai familiari di entrambe le parti in causa perché volevamo far incontrare persone che hanno sofferto, farle avvicinare le une alle altre in modo da favorire una comprensione reciproca. E’ questo il solo modo per ‘spezzare la catena del male’ espressione con cui abbiamo voluto titolare questo evento”.


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -