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Sergio Citti, menestrello di borgata

Nel giorno della ricorrenza dei trent’anni dall’omicidio Pasolini, ricordiamo Sergio Citti. Prima che il tempo e l’oblio facciano il loro corso.

di Piero Buscemi - giovedì 3 novembre 2005 - 5194 letture

Lo ricordiamo così, tra l’andare cencioso, tra polvere, palazzi in costruzione, acque reflue e bambini a piedi scalzi a sguazzarci dentro. Sullo sfondo, una periferia in trasformazione. Specchiata sugli occhi del fratello Franco, in “Accattone” (1961). Gli stessi che chiesero giustizia e verità, per trent’anni. Così profondi e sinceri, davanti alla telecamera del TG3, durante una delle ultime interviste rilasciate.

Sergio Citti raccontava storie. Vere. Raccogliendo per strada umanità di “contorno” e lasciando ad altri, creatività e fantasia da mettere nei libri. Citti le ascoltava le storie. Nei vicoli nascosti di una Roma che, nelle pozzanghere dimenticate, aveva vissuto la seconda guerra mondiale e per la quale, negli anni ’60, il “boom” era solo il ricordo delle bombe che rintronava nelle orecchie.

Si, Sergio Citti raccontava storie. Storie di umili e di vita. Come quelle della Trilogia della vita che, dal 1970 al 1974, consegnò agli schermi i capolavori “Il Decameron”, “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle Mille e una notte”. Capolavori scritti a quattro mani con Pasolini, dove ladri, laici viziosi ed uomini di chiesa, uniti nel raggiro e nell’avidità, sono i protagonisti principali di una vita che si mescola tra il bene ed il male. Senza una netta distinzione.

Lunga la lista di attori, registi e sceneggiatori che devono a Citti il battesimo del cinema di cultura. Da Ninetto Davoli a Michele Placido. Da Gigi Proietti a Francesco Nuti. Da Serena Grandi ad Enrico Montesano. Molti altri devono a lui, un nuovo modo di fare cinema, tra ispirazione neorealiste che riprendono la scia di maestri del calibro di De Sica, e il desiderio-necessità di raccontare le ambiguità della vita. E le sue contraddizioni.

Con la morte di Sergio Citti, scompare un pezzo di Italia di borgata con i suoi personaggi duri da digerire. Un altro pezzo di Italia dei “misteri”. Come l’uccisione dell’amico Pasolini, infangata di menzogna e gratuito disprezzo. La stessa menzogna che colorò per anni i personaggi “veri” dei suoi film.

La stessa che ha trasformato una storia di omicidio politico in una storia sbagliata (grazie De Andre’!) di sesso e vizio di una folle notte di periferia. La stessa che gli ha impedito di raccontare la sua versione su questo omicidio culturale.

La stessa, che cerca un nuovo menestrello per essere smentita.


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