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Senza spina dorsale. L’Italia, l’Iraq e l’Islam

Dopo l’uccisione del caporalmaggiore Alessandro Pibiri, trentunesimo militare caduto in Iraq, abbiamo assistito ancora una volta al rito delle dichiarazioni di circostanza...

di pietro g. serra - giovedì 15 giugno 2006 - 3050 letture

Dopo l’uccisione del caporalmaggiore Alessandro Pibiri, trentunesimo militare caduto in Iraq (ma al triste computo debbono aggiungersi anche sette vittime civili), abbiamo assistito ancora una volta al rito delle dichiarazioni di circostanza da parte delle autorità politiche e istituzionali - rito che suona sempre più vuoto, stanco e ripetitivo. “Parole, parole, parole”, per dirla con una vecchia canzone. Parole che, tuttavia, superato il forte senso di nausea, fastidio e rabbia che inevitabilmente assale chiunque non si accontenti delle verità preconfezionate e provi a ragionare, offrono, a quanti si pongono in una prospettiva metapolitica, il destro per sviluppare qualche utile (si spera) riflessione.

Un primo dato che emerge dalle luttuose vicende irachene è una conferma del carattere sempre più inessenziale della dicotomia destra/sinistra. I vari schieramenti politici si dividono su questioni di dettaglio, ma sulla sostanza sono d’accordo. Così, nessuno osa mettere in discussione il bric-à-brac propagandistico messo in piedi dagli Stati Uniti per giustificare la propria politica espansionistica (la lotta al terrorismo e l’esportazione della democrazia); i contrasti non vertono sul “se”, ma sul “come”. Questa convergenza strutturale è una costante, dal momento che la ritroviamo pure su altre importanti questioni, e sta mettendo in imbarazzo la parte più movimentista della sinistra che, dopo essersi battuta per far cadere il governo Berlusconi, rischia di trovarsi con il classico pugno di mosche in mano. L’elezione di Bertinotti alla presidenza della camera ha tutta l’aria di un osso gettato al cane per tenerlo buono.

Se proviamo a passare in rassegna alcuni dei refrain recitati dai nostri uomini politici (tutti: di destra, di centro e di sinistra) e zelantemente e acriticamente veicolati dai mezzi di informazione, l’omogeneizzazione delle posizioni è evidente.

Il ritornello di maggior successo dice che non siamo andati in Iraq per fare la guerra (non è forse vero che gli italiani sono “brava gente”?), ma in missione di pace. I nostri morti sono perciò martiri della pace. Lo ha certificato anche il neo-presidente della Repubblica Napolitano, dichiarando che “le nostre missioni all’estero sono missioni militari, ma non di guerra”, ed esibendosi così in una di quelle acrobazie verbali che sembrano essere una nostra specialità e che di sicuro non contribuiscono ad accrescere il prestigio internazionale dell’Italia. Chi sostiene questa tesi lo fa, evidentemente, per tentare di distinguere, pur nel contesto dell’alleanza con gli Usa, la nostra posizione da quella degli statunitensi, che la guerra l’hanno scatenata, ma non si accorge (o finge di non accorgersi) di darsi la zappa sui piedi, perché, lungi dal restare neutrali tra i belligeranti come dovrebbe fare una vera forza di pace, noi ci siamo schierati, sposando la tesi di una delle parti in causa, quella statunitense, appunto. Sono stati, infatti, gli Usa ad avviare unilateralmente il conflitto e a dichiarare altrettanto unilateralmente che la guerra era finita e che ormai si trattava solo di mantenere la pace. Accettando di andare in Iraq in missione “umanitaria”, abbiamo sottoscritto questa visione delle cose, che la dura realtà si è subito incaricata di smentire. È perciò ipocrita meravigliarsi se la resistenza irachena se la prende anche con noi, considerandoci per quello che realmente siamo, ossia una forza occupante contro cui combattere usando tutti i mezzi di una guerra asimmetrica, e non per quello che una potente campagna mediatica vorrebbe farci credere, vale a dire un gruppo di boy scouts con i calzoni lunghi impegnati a costruire scuole e ospedali e a proteggere le “missionarie” e i “missionari” laici delle Ong.

Questo atteggiamento è tanto più grave in quanto le motivazioni alla base dell’intervento degli Stati Uniti sono rovinosamente crollate. Delle famose armi di distruzione di massa che sarebbero state possedute da Saddam Hussein non v’è traccia, come pure dei presunti legami fra il regime e i terroristi. Basta, d’altronde, leggere un qualunque testo di storia contemporanea del Medio Oriente, a cominciare da quelli di un inossidabile amico degli statunitensi, degli inglesi e degli israeliani come Bernard Lewis, per sapere che tra gli islamisti e i regimi autoritari mediorientali i rapporti reciproci sono sempre stati caratterizzati da un odio mortale. Per i fondamentalisti, Saddam e i suoi omologhi degli altri paesi musulmani sono degli “apostati”, dei “faraoni”, nel senso biblico del termine, ossia oppressori del popolo per conto dell’Occidente, e perciò vanno combattuti ed eliminati, come accadde, il 6 ottobre 1981, al presidente egiziano Anwar al-Sadat.

Paradossalmente, il rovesciamento del regime baathista iracheno ha favorito il terrorismo anziché isolarlo. Saddam Hussein lottava contro il terrorismo più efficacemente di Bush, perché aveva interesse a farlo molto più di lui. Non tutti i fautori del fronte occidentalista sono, però, trinariciuti, ottusi e fanatici al pari di molti dei loro nemici; ve ne sono anche di acuti e perspicaci, i quali si rendono conto dell’insostenibilità della versione ufficiale dei fatti e tentano di ripiegare su una posizione in apparenza più ragionevole. Costoro sono disposti persino ad ammettere che la guerra in Iraq è stata “una guerra sbagliata”, e che dunque non c’è da stupirsi se ce ne andiamo, ma sostengono che in Afghanistan dobbiamo rimanere perché lì la situazione è completamente diversa: laggiù i terroristi c’erano e le ragioni della guerra erano valide (si veda l’articolo di Franco Venturini “Afghanistan, perché restare” sul “Corriere della sera” dello scorso 31 maggio). Domanda: chi pagherà per questo errore (sempre che si sia trattato di un errore e non invece, come crediamo, di una precisa strategia geopolitica) costato decine di migliaia di morti innocenti? Si rimane allibiti di fronte alla nonchalance con cui si fanno certe affermazioni senza sentire quantomeno il bisogno di interrogarsi su questo aspetto non certo secondario della faccenda.

Milosevic è stato processato per molto meno. Ovviamente, non siamo così ingenui da pensare che Bush e la sua cricca possano essere sottoposti a giudizio. Il “guai ai vinti” di Brenno, che rende intoccabili i (pre)potenti, è un legge antica e non abrogata. Ciò che intendiamo dire è che un contesto internazionale simile alla orwelliana fattoria degli animali, in cui cioè in teoria tutti sono uguali, ma alcuni, in realtà, sono più uguali degli altri e possono fare quello che vogliono (bombardare, sequestrare, imprigionare senza processo, torturare, occupare), è inevitabilmente foriero di tensioni e lutti di cui l’intero consesso internazionale dovrebbe farsi carico, anziché lavarsene le mani scaricando semplicisticamente tutte le colpe su una variegata galassia di bad guys sbrigativamente demonizzati in quanto terroristi.

L’eventuale decisione di restare in Afghanistan equivarrebbe comunque a sottoscrivere, esattamente come in Iraq, una cambiale in bianco a favore di Washington (il che continuerebbe a farci apparire, agli occhi degli islamisti, parte in causa e quindi un possibile bersaglio). Sarebbe, infatti, come dare per scontata la ricostruzione dei fatti dell’11 settembre fornitaci dagli Stati Uniti, e che è servita da pretesto per l’intervento.

Sia chiaro che non intendiamo affatto avallare la posizione di complottisti e dietrologi, per i quali Bush e Rumsfeld avrebbero organizzato l’attentato alle Twin Towers e al Pentagono servendosi di manovalanza islamista per poter poi aggredire l’Afghanistan; ma comincia ormai ad esistere una seria bibliografia in materia (citiamo un testo per tutti, quello di Marina Montesano Mistero americano, Dedalo) che evidenzia come la ricostruzione ufficiale faccia acqua da tutte le parti e che, pertanto, prima di scatenare il conflitto, i responsabili statunitensi avrebbero dovuto fornircene una un po’ più credibile e decente. E soprattutto, gli europei avrebbero dovuto pretenderla, invece di impelagarsi in un pantano dal quale non sarà facile venire fuori. D’altra parte, anche se la ricostruzione statunitense fosse perfetta e inappuntabile, resterebbe da spiegare che senso abbia prendersela con un intero popolo per punire un gruppo di terroristi.

Il famigerato Abu Masud Al-Zarqawi, a quanto se ne sa, è stato individuato e ucciso grazie ad una operazione di intelligence - detto in termini più terra-terra, ad una soffiata - alla quale sembra non siano stati estranei ambienti legati a fazioni musulmane ostili al capo terrorista e questa era la strada da percorrere anche con bin Laden, ammesso (e non concesso) che questo fosse l’obiettivo che si voleva davvero perseguire. Limitarsi a fare armi e bagagli e a togliere il disturbo sia dall’Iraq che dall’Afghanistan sarebbe, però, in definitiva, poco onorevole.

Questo è forse l’unico punto su cui concordiamo con gli occidentalisti (anche se bisogna aggiungere che non è onorevole nemmeno rimanere a tutelare interessi che non sono né europei, né italiani). Al ritiro, dovrebbe perciò accompagnarsi una forte azione diplomatica italiana esercitata presso gli altri paesi europei (che difficilmente ci sarà, perché per fare certe cose bisogna avere una spina dorsale che a noi manca; il nostro discorso è quindi necessariamente astratto) tendente a promuovere finalmente una politica europea nei confronti dei paesi musulmani. Sino ad oggi, come ha osservato Gilles Kepel, la scena internazionale è stata occupata, sul versante islamista, da una politica consistente in un continuo andirivieni fra jihad e fitna. Il jihad, nell’interpretazione impoverita che ne danno i fondamentalisti, è la lotta all’ultimo sangue contro il “nemico lontano”, gli occidentali, in particolare gli statunitensi. Questa lotta rischia però ad ogni istante di capovolgersi in fitna, ossia nel caos e nell’anarchia portati nel dar al-islam, nelle terre conquistate alla fede islamica.

Dopo l’11 settembre è successo esattamente questo. La reazione degli Stati Uniti al jihad ha comportato l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, con decine di migliaia di morti, la profanazione del “sacro” suolo dell’Arabia Saudita, dove si trovano i luoghi più santi dell’islam, calpestato dagli “infedeli”, un peggioramento della situazione dei palestinesi. Questa dialettica tra jihad e fitna, tuttavia, sta bene sia agli islamisti che agli statunitensi, che finiscono così col convergere, sia pure per opposti motivi: i primi, perché sperano di mobilitare le masse islamiche contro il Satana occidentale, i secondi perché possono legittimare il loro dominio presentandosi come i difensori della libertà e della democrazia minacciate. Una politica alternativa, di cui l’Italia potrebbe farsi promotrice qualora avessimo una classe politica degna di questo nome, dovrebbe puntare a spezzare questo circolo vizioso, e solo gli europei potrebbero proporla, non certo gli Stati Uniti, come pensa Kepel, giacché il loro interesse politico li porta, almeno per ora, in tutt’altra direzione.

Kepel sintetizza questa diversa politica nella formula, a nostro avviso insoddisfacente, dell’“Andalusia capovolta”. Nell’immaginario musulmano, l’Andalusia evoca l’età dell’oro dell’islam, distrutta dalla Reconquista spagnola, quando la civiltà islamica riusciva a dettare legge in Europa sia con la forza delle armi, sia con il fascino della sua cultura. Andalusia capovolta significa allora che l’islam europeo e “moderno” che all’epoca si riuscì a creare, può essere riproposto, ma a parti invertite: stavolta toccherebbe all’Europa e/o all’Occidente offrirsi come modello, aprirsi e integrare nelle sue strutture i musulmani del terzo millennio.

Ci sembra oggettivamente difficile che, da parte musulmana, si possa accettare una simile prospettiva che, in sostanza, equivarrebbe a chiedere ai musulmani di assumere una posizione di chiara subordinazione. Per rompere la logica perversa del jihad e della fitna occorre piuttosto scommettere sul riconoscimento della pari dignità fra questi mondi culturali, la qual cosa esclude che possa esserci un discente da un lato e un docente dall’altro, e sulla libera interazione fra questi mondi che produrrà quei mutamenti mentali, culturali, di costume, quelle trasgressioni dei rispettivi patrimoni culturali, di cui tutti, occidentali e orientali, abbiamo bisogno.

Giuseppe Giaccio (Diorama letterario n. 278)


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Senza spina dorsale. L’Italia, l’Iraq e l’Islam
16 giugno 2006

E’ un buon articolo, anche se il titolo fa pensare ad una spina dorsale "guerrafondai".

Il titolo vorrebbe dire invece che la situazione di conflitto è resa possibile solo dalla miopia di nazioni ricche, che non trovano modo di dialogare con quelle povere.

    Senza spina dorsale. L’Italia, l’Iraq e l’Islam
    15 luglio 2006, di : fje

    Il problema e’ che in Iraq non dovevamo andarci. L’Europa doveva cementarsi con una posizione unica e’ cioe’ quella portata avanti da francia e germania, Un NO secco all’intervento da parte di tutti gli stati europei sarebbe stata la soluzione politica migliore, E invece c’e’ stata la spaccatura che ha dimostrato la nostra incapacità di produrre una politica unica europea.