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Riforme dall’alto e riforme dal basso

di Sergej - lunedì 12 luglio 2021 - 2272 letture

Nel 1781 divenne vicerè di Sicilia Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina - giunse a Palermo il 15 ottobre. Era stato per una decina di anni ambasciatore del Regno delle Due Sicilia a Parigi, frequentatore dei salotti dell’illuminismo francese, invitato gradito alle feste e nelle discussioni. In Sicilia furono 5 anni decisamente intensi. Caracciolo provò ad attuare una serie di riforme “illuministiche”, ma né l’appoggio (formale) del re né gli ampi poteri di cui era dotato riuscirono a smontare la struttura di potere e le convinzioni esistenti. Caracciolo fu rigettato fuori come un corpo estraneo [1].

L’interesse sulla figura di Caracciolo torna in questi giorni in cui, per l’ennesima volta, in Italia si prova una “modernizzazione”. Giungiamo, per l’ennesima volta, a questa necessità, con le spalle al muro della disfatta economica e della “crisi”. Per sottolineare come tutte le precedenti “riforme” non hanno avuto esito, e che l’emergenza è in Italia strutturale dalla crisi economica del 1972-1975. Con Mario Draghi siamo al governatore inviato dall’Europa del neoliberismo. Ancora una volta una riforma dall’alto, visto che dall’interno la classe politica italiana non è capace di auto-riforma; con l’esperienza maturata con il fallimento (miserevole) di Mario Monti le cui pezze si sono dimostrate inconsistenti, prive anche del supporto pubblicistico delle destre, escluse da quel governo (messe da parte perché ritenute, all’estero e non in Italia, responsabili del disastro Italia); con Draghi il piano è il coinvolgimento delle Destre nel governo in modo da avere un minimo di supporto pubblicistico; per fare alcune riforme di sistema che interessano il disegno complessivo dell’Europa neoliberista (oligarchica e plutocratica) che ha imbrigliato il progetto di Unione Europea. Rimane un tentativo di riforma dall’alto e dall’esterno: le Destre italiane si stanno solo piegando ai diktat europei, senza nessuna voglia di cambiare e di modernizzarsi. Le loro strutture, di potere ed economiche, non sono interessate dalla “riforma”. Il resto (le polemiche quotidiane sui giornali) sono la fuffa proprie di una stampa italiana che continua a trovarsi nelle zone basse della classifica dei Paesi con libertà di stampa [2]. I nostri cari lettori che si infervorano appresso a questo e quell’altro argomento del giorno, confezionato quotidianamente dai giornali italiani, sono come quei polli che starnazzano e hanno zampe e ali ben attaccate al laccio di chi li sta portando al tritapolli.

I dati economici e sociali italiani mostrano che c’è bisogno di cambiare. C’è bisogno di una “riforma”. Quando vengono attuati dei cambiamenti, se c’è una redistribuzione di reddito e un miglioramento delle condizioni sociali della maggioranza della popolazione - siamo davanti a una riforma “di sinistra”. Se c’è il miglioramento delle condizioni solo di una parte ristretta della popolazione, siamo davanti a una riforma “di destra”. Negli anni Cinquanta e Sessanta, a fronte anche delle imposizioni “democratiche” imposteci dagli Stati Uniti, l’Italia è stata costretta ad ampliare gli spazi di benessere persino tra i pezzenti. Che, orrore!, hanno persino potuto mandare i figli a studiare e diventare dottori. Per fortuna la strategia della tensione ha permesso di rimettere in riga i pezzenti, abbiamo sfiorato il piano Condor anche noi. Nella mancanza di strutture di elaborazione (le università italiane non hanno mai avuto team né laboratori di ricerca e sviluppo), sono stati i grandi partiti di massa (DC, PSI, PCI) a farsi carico dell’elaborazione della proposta di riforma: l’unificazione delle reti (elettrica, ferroviaria ecc_), il piano INA casa, il piano autostrade, lo sviluppo delle piccole e medie imprese in Emilia Romagna. Con l’azione di alcuni singoli che hanno dato vita a industrie statali o parastatali che hanno costruito quelle infrastrutture che la incapacità del ceto “imprenditoriale” privato italiano non aveva mai permesso di fare: l’ENI di Mattei, la chimica ecc_. È stato uno sviluppo che ha interessato anche altri Stati europei e occidentali (le analisi di Thomas Picketty al riguardo). L’Italia non è mai stata “fuori” da un contesto internazionale. Con la crisi del 1972-1975 il processo si interrompe (in tutti i Paesi occidentali), si ha una ristrutturazione che permette all’Occidente di trovarsi, nel 1989 in condizioni migliori rispetto ai Paesi dell’Est. Ma è una ristrutturazione che non vede più partecipi dei benefici le classi subalterne. Dopo il 1989 entrano nelle classi subalterne anche la piccola e media borghesia.

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Domenico Caracciolo marchese di Villamaina

Nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, un passaggio che dura qualche decennio, i partiti non sono più i depositari delle proposte progettuali (unica eccezione, il partito di Berlusconi che ha un unico interesse; e il settore della comunicazione televisiva è l’unico che mostra una “riforma” in quei decenni). A fatica si costruisce un sistema in cui da una parte ci sono “i politici”, dall’altra ci sono i rappresentanti di interessi e progetti particolari che interloquiscono con il politico di turno che ha in mano il potere decisionale. È un sistema lobbistico simile a quello anglosassone (il processo di americanizzazione dell’Italia continua, sotterraneo) ma senza l’ufficialità del sistema anglosassone. Ex politici si riciclano in lobbisti. Gli ordini professionali continuano a essere incapaci di una loro elaborazione autonoma delle proposta progettuale. Vince il frammentismo dei provvedimenti, che alimentano piccoli gruppi e categorie. Il problema reale del passaggio dalla prima alla seconda repubblica è stato il nodo reale che non si è stati capaci di risolvere: ovvero, chi e come si dovesse attuare la riforma. Nel conflitto su questo nodo, l’intero sistema è rimasto bloccato per decenni. E il blocco ha favorito il sottobosco delle categorie parziali, i padroncini, e la paura di ciascuno di perdere i propri privilegi - di qui l’aumento della rissosità e permalosità sociale.

Periodicamente, i tentativi di “riforma” (da Spadolini per transitare attraverso Ciampi, Dini, Amato, Monti ecc_), che hanno dato un po’ di ossigeno - e hanno visto specularmente le vittorie negli stadi internazionali delle squadre dell’epoca: da noi i tentativi di ripresa interni vanno di pari passo ai successi della nostra squadra di calcio nazionale. Giusto una boccata, tra lunghi intervalli di apnea - sempre più lunga e sempre più in fondo - nella depressione economica e sociale.

Il M5S è stato l’unico partito che ha provato a incarnare l’idea di un riformismo dal basso - così come era nei partiti germinali della prima repubblica. Con tutte le caratteristiche di quella fase germinale: pochi storici ricordano come fossero la DC e il PCI negli anni Cinquanta: quadri politici in via di formazione, con molto pressapochismo e ignoranza, parole d’ordine assolutamente demenziali (“irresponsabili”, si direbbe oggi); è solo nel corso degli anni Sessanta che si formano veri quadri, politicamente più preparati. Non sembra, in questi giorni, che il progetto M5S sia riuscito a levitare, stante una carenza di strutture politiche di partito al di là della buona volontà dei parlamentari che suppliscono alla mancanza di funzionari di partito - che dovrebbero “tenere” il partito a livello locale. Ma si sa, le strutture costano e i funzionari di partito e gli amministratori locali non si inventano dall’oggi al domani.

Sotto il governo M5S è stato effettuato l’unico tentativo di affrontare il problema della riduzione degli effetti della povertà, in Italia, sulla massa dei 5-9 milioni di poveri reali che ci portiamo appresso da cinquant’anni a questa parte, e su cui nessun governo ha mai provato a mettere mano. Lo hanno chiamato "reddito di cittadinanza", è in realtà un sussidio di disoccupazione; un provvedimento in linea con le logiche neoliberiste [3], ma nonostante questo criticatissimo dalle Destre dominanti in Italia. Perché per le Destre reali italiane persino il neoliberismo è "rivoluzionario".

Nel Fantasma della libertà (Le Fantôme de la liberté, 1974), di Luis Buñuel, "una bambina sembra essere diventata invisibile, a scuola risponde all’appello ma la maestra la segna assente, i genitori accorsi non si accorgono che lei si agita e grida per richiamare la loro attenzione, interviene al polizia ma Aliette, quello è il suo nome, pare sia scomparsa" [4]. I poveri, i pezzenti, nel nostro civilissimo Paese sono come la bambina invisibile di Buñuel. In realtà quel che è evidente è che in Italia è in atto un feroce scontro di classe, in cui "i poveri hanno perso". Solo che i pezzenti, i poveri, siamo tutti noi e non abbiamo coscienza di classe di questo, pensiamo ancora di essere "borghesia".

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voi avete perso

Di contro anche il tentativo di riforma dall’alto non sembra essere riuscito. Non bastano le leggi-quadro se poi non si fanno i decreti attuativi. Non basta sostituire questo o quell’altro dirigente o ministro per influire sul resto della struttura. Tanto più che, spesso, queste riforme dall’alto avvengono utilizzando personale già collaudato, bravi funzionari o dirigenti ma in età - che sono portatori nel migliore dei casi di una pratica di buona amministrazione (che è già “rivoluzionario” visti gli standard di corruzione e collusione delle nostre amministrazioni). Non basta azzeccare il “nome giusto”. Per età si tratta di persone che hanno conosciuto i bisogni e la strutturazione sociale di un Paese di quarant’anni fa; mentre già ora il digitale è vecchio. Ed è vero quel che dice l’attuale ministro dell’innovazione e transizione ecologica: una vera riforma ecologista sarebbe devastante per il nostro sistema sociale (ma lui probabilmente si riferisce al sistema economico). In tutto questo ovviamente sono latitanti quelli che dovrebbero essere i maggiori beneficiari della riforma neoliberista, ovvero gli “imprenditori” italiani: per il semplice fatto che imprenditori in Italia non ne abbiamo (tranne due o tre, peraltro molto anziani), abbiamo alcune poche famiglie che vivono di rendita grazie agli accordi che alle strutture che lo Stato riesce a strappare (a caro prezzo sociale) con i nostri “competitor” internazionali. Per il resto sono solo dediti all’esportazione di capitali all’estero o hanno già trasferito all’estero le sedi delle loro finanziarie.

In questi anni, stante la stagnazione e il “lento e lungo” declino sociale ed economico, abbiamo conosciuto una serie di tentativi di diverso tipo. Non è stato solo uno stagnare, una calma piatta. Tentativi da parte delle élite al potere, tentativi di riforme di destra dall’alto, tentativi dall’esterno di “uniformare” la regione italiana a questo o quell’altro quadro internazionale generale. Periodicamente, quasi generazionalmente, scendono in piazza movimenti portatori di istanze riformiste. L’apparato di repressione ha mostrato di essere sempre all’erta al riguardo (quel che è successo vent’anni fa alla scuola Diaz è lì ad indicarlo): nonostante la presenza del giocatore invisibile pronto a eliminare ogni possibile Masaniello che si profili all’orizzonte come a tagliare le corna ai movimenti con esecuzioni esemplari, ad ogni generazione ci si prova sempre. Dopo la Rete, la Pantera, i Girotondi, il Popolo Viola, le Sardine ecc_, la testimonianza che esiste comunque all’interno di quella cosa complessa che è la società italiana, qualcosa che non si placa nell’indifferenza o nella sudditanza. I dati sociali ed economici non sono confortanti: da qualche decennio perdiamo ogni anno diverse migliaia di ragazzi e ragazze, che non sono fasce sociali assimilabili a quelle che vendevamo (in cambio di carbone) a Germania o Belgio nel secondo dopoguerra. Fa parte del declino lento e lungo che fa di tutti noi un malato in fase terminale. Con i diversi tentativi dall’alto, tecnocratici o dirigistici, speriamo solo che non sia solo accanimento terapeutico e che il malato - “operazione chirurgica tecnicamente riuscita” - non sia già morto.

[1] Sulle vicende del riformismo di Caracciolo esiste una vasta letteratura. I lettori possono partire da: La grande impresa : Domenico Caracciolo viceré e primo ministro tra Palermo e Napoli / Francesco Renda. - Palermo : Sellerio, 2010. - 172 p. - (Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura ; 110) . - ISBN 9788838924910.

[2] Sul report 2021, cfr: sito ufficiale della Federazione stampa italiana. Siamo al 41esimo posto nel mondo.

[3] Si legga su questo li libro di Marco D’Eramo, Dominio, edito da Feltrinelli nel 2021

[4] Anna Lombroso, Rivoluzioni brizzolate, in: Il Simplicissimus.


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