Ricordo di Manlio Sgalambro
Sgalambro era in quegli anni una sorta di entità invisibile, un essere silenzioso, un magister absconditus di cui continuavo a sapere pochissimo. Quando apparve La morte del sole nel 1982, con il clamore che suscitò, mi precipitai sul libro e...
Di Manlio Sgalambro mi aveva parlato per la prima volta a Lentini lo scrittore Sebastiano Addamo. I due, lo scrittore e il filosofo, erano quasi coetanei (del 1925 Addamo, del 1924 Sgalambro) ed erano amici sin dalla giovinezza. Addamo era già noto, scriveva su «Nuovi Argomenti» e aveva pubblicato con Mondadori e Garzanti. Parlo dei primi anni Settanta, io ero ventenne e di Sgalambro non sapevo nulla. Addamo mi disse che Manlio possedeva una conoscenza di prima mano della filosofia classica tedesca, che era un pensatore originale e rigoroso, con una cultura filosofica vastissima, uno da conoscere. Evidentemente Addamo, narratore e saggista con forti interessi filosofici, aveva già avuto modo di leggere cose sue.
Ma Sgalambro era in quegli anni una sorta di entità invisibile, un essere silenzioso, un magister absconditus di cui continuavo a sapere pochissimo. Quando apparve La morte del sole nel 1982, con il clamore che suscitò, mi precipitai sul libro e, con l’aiuto di Luigi Boggio e di altri amici (Fino Giuliano e Alfio La Ferla in primo luogo) si decise di organizzare una presentazione a Lentini, con la partecipazione, peraltro quasi del tutto silenziosa di Sgalambro, e i contributi di Sebastiano Addamo, Pietro Barcellona e Massimo Cacciari.
Da lì a poco uscirono altri scritti, che lessi ovviamente da musicista e non da filosofo, e che, quasi musicalmente, si muovevano in direzione di una forte condensazione formale e stilistica, sempre più essenziali e perentori verso il congegno aforistico. Quasi simbolico il gioco di specchi con Karl Kraus: «se Karl Kraus avesse scritto Il capitale lo avrebbe fatto in tre righe» [1].
Il nome di Sgalambro divenne conosciuto, forse più di quello di Addamo.
Poi ebbe inizio la ventennale collaborazione con Franco Battiato e divenne addirittura famoso. Mi rimase la sensazione di aver conosciuto tre diversi Sgalambro: uno prima de La morte del sole, uno dopo la pubblicazione del suo libro più noto, e un altro ancora, dopo il 1993, autore di testi per musica, di pezzi teatrali, addirittura cantante (in qualche caso con esiti interpretativi e vocali sorprendenti come nella riproposizione di La mer di Charles Trenet), capace di sostenere senza turbamento l’impatto con il pubblico anche quando, come in qualche caso accadde, una parte di spettatori sembrava non gradire del tutto il repertorio degli anni Quaranta riproposto dal filosofo in concerto con Battiato. Certo quest’ultimo gli deve molto e la qualità di alcuni testi di Sgalambro scritti per il mondo della canzone è elevatissima.
Ma su ciò non ho nulla da aggiungere. Perché, proprio da musicista, ancor più mi interessava la sua ininterrotta riflessione sulla musica disseminata in quasi tutti i suoi libri [2]. La conoscenza dei meccanismi linguistico-musicali era in lui vera, profonda, inaspettatamente sedimentata. Una riflessione che attraversa il mondo della musica non solo classica (da Schubert a Webern a Jim Morrison al jazz, da Ferruccio Busoni ad Adorno e oltre), ma che soprattutto ignora le distinzioni di generi e si pone il problema di un pensiero capace di interpretare il mondo della musica leggera e del rock.
Ed ancor più mi sollecita oggi la sua riflessione sul rapporto pensiero / suono. Riporto, scelti quasi a caso dai suoi scritti, solo alcuni fra i tanti riferimenti possibili:
«Annotazioni come nella musica dovrebbero accompagnare il fluire del discorso, il suo monologare. Segni che come nella musica [...] ritmassero il modo in cui dovrebbe essere capito un determinato passo.»
oppure:
«La filosofia è fatta per la voce. Dev’essere dunque salvato, insieme al concetto, il suo suono. Il nocciolo sensuale presente in ogni pensiero [...] ciò che si pensa non vale più niente senza l’eco del suo stesso suono, che l’accompagna e lo modula in un canto» [3].
o addirittura, con titolo ripreso da un procedimento musicale, Passacaglia:
«[...] Si potrebbe dire che vi sono pensieri cantati. O dove il ripetersi ostinato di quattro battute avverte il suono della verità. È come se una passacaglia sgorgasse dalle cose stesse» [4].
Insomma oggi mi sembra che nella scrittura di Sgalambro, la forma piccola del pensare breve si sia modellata su una struttura di tipo musicale: l’incipit sapientemente e musicalmente scelto di volta in volta, l’uso di cadenze d’inganno, di sospensioni e di stretti rapidissimi di fuga, rimandano ad un modello consapevole di costruzione musicale. I suoi scritti si potrebbero leggere appunto come una grande ’passacaglia’, una serie ininterrotta di variazioni su un basso ostinato, capace di focalizzare e unificare in modo folgorante dettagli sempre diversi in un’unica linea di pensiero. Un basso ostinato materialista e teologico al tempo stesso. dominato ossessivamente dal tema della morte e della fine.
Questo tipo di rapporto con la musica, interno e fondante, credo abbia un ruolo più forte e radicato di quello che potrebbe evincersi dal lungo elenco di collaborazioni musicali che hanno visto protagonista Manlio Sgalambro negli ultimi venti anni.
Un’ultima osservazione su un episodio recente. Nel 2012 un giovane studente di musica elettronica dell’Istituto Musicale Bellini di Catania, Alessandro Farruggio, lavora a un progetto discografico abbastanza particolare: mettere insieme elaborazioni elettroniche, strumenti dal vivo e voci recitanti. Prestano la propria voce, come lettori di testi da immettere in uno stratificato ambiente musicale, Massimo Donà, Mario Venuti, Anna Clementi, Nellina Laganà ed altri ancora. Fra questi, Manlio Sgalambro, che apre la prima traccia del disco [5] con un suo testo, Nota di passaggio. Si tratta di un episodio sicuramente meno noto di altre sue avventure musicali, ma fortemente significativo di una vocazione autentica e antica per la musica e, nel caso specifico, anche di un segno di disinteressato sostegno del filosofo, ormai ottantottenne, nei confronti degli esperimenti di un giovane musicista. Dal mio punto di vista, e in un mondo dominato dal potere e dal denaro, questo piccolo gesto assume una risonanza speciale.
Il disincanto non escludeva evidentemente la generosità. E non è poco.
Questo testo è stato letto al convegno su Manlio Sgalambro, organizzato a Catania il 20 aprile 2015.
[1] Manlio Sgalambro, Del pensare breve, Milano, Adelphi, 1991, p. 122.
[2] Cfr. soprattutto due testi di Sgalambro: De mundo pessimo (Milano, Adelphi 2004, pp. 161-204) e La conoscenza del peggio (Milano, Adelphi 2007, pp. 37-54).
[3] Id., La morte del sole, Milano, Adelphi, 1982, p. 53 e 59.
[4] Id., Del pensare breve, cit., p. 135.
[5] Alessandro Farruggio, Odo voci, Stradivarius, 2012, cd str 57914.
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