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Recessione Italia

Recessione Italia : Come usciamo dalla crisi più lunga della storia / Federico Fubini. - Laterza / L’Espresso, 2014. - 144 p. - (iLibra ; 8). - 5,9 euro in edicola.

di Sergej - martedì 22 aprile 2014 - 4137 letture

"Nel mondo, solo pochi Paesi colpiti da catastrofi naturali o umane hanno avuto tassi di crescita inferiori negli ultimi quindici anni. Resta dunque la domanda che insegue il Paese da una generazione: perché proprio noi?"

La tesi di Fubini:

1) abbiamo la tendenza a dare sempre la colpa agli altri (es: è tutta colpa dell’Europa, è tutta colpa della Germania e della Merkel ecc.), mentre in realtà la crisi economica ha aggravanti tutte interne.

2) la permanenza di sovrastrutture fasciste: così il corporativismo che si riflette nelle due organizzazioni Confindustria e Sindacati, che costano ogni anno oltre 6 miliardi (e nessuno lo dice);

3) c’è stata una mancata riforma quantomeno negli anni del passaggio all’euro proprio per permettere il mantenimento delle sovrastrutture (Sindacato e Confindustria). Es. la complessità burocratica che impedisce la semplificazione e permette la sopravvivenza dei patronati. Es. la Consob.

"In Italia l’autorità Antitrust rimase virtualmente inesistente fino al principio degli anni ’90 e la holding di Stato Iri, creata durante la Grande Depressione, restò tal quale, praticamente con lo stesso top management che aveva avuto durante il regime. Del fascismo rimase in piedi anche la struttura essenziale dello Stato corporativo".

E qui (su antitrust e fascismo) Fubini non ha tutti i torti. (Anche se distinguerei il discorso a proposito dell’IRI).

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Recessione Italia / di Federico Fubini

Su come si possa uscire da queste permanenze di lungo periodo, Fubini non sembra dirlo. Perché se si tratta di problemi di lungo tempo, non si vede come si possa intervenire risolutamente proprio ora, anche se di fronte al terrore dell’implosione (o esplosione) sociale. Non si vede d’altra parte come possa essere risolutiva la politica, là dove proprio la politica è responsabile della conservazione dello status quo; né del resto una auto-riforma interna è credibile (es. dall’interno dei Sindacati per la riforma sul Sindacato).

"L’Italia ha una delle società più ineguali in termini di distribuzione del reddito, più minacciate in termini di generazione del reddito stesso e più asfittiche in termini di opportunità per chi nasce nella famiglia sbagliata" (p. 31).

Nel libro si intrecciano altre voci, raccolte in antologia: così Sylos Labini testimone di un altro tentativo riformista del passato, quello dei “tecnici” nella prima metà degli anni Sessanta. De Rita vede nero: la crisi in atto è effetto della sconfitta in Italia della borghesia, che non esiste più. Ne abbiamo già discusso: c’è una permanenza paludosa della politica che è effetto della palude sociale in cui ci troviamo: dalla metà degli anni Settanta non ci sono mutamenti (spostamenti) sociali rilevanti. Il rapporto tra politico e cittadino ha creato una classe nuova in Italia, la Lumpen Burgeoisie (sottoBorghesia - sulla derivazione del termine dagli studi colonialistici vedi Wikipedia inglese). Un tempo la sinistra diceva: se vuoi aiutare il povero, non devi dargli il pesce ma insegnargli a pescare. Su questa massima la DC negli anni della sua crisi (negli anni Sessanta, tra Moro e Fanfani) ha costruito il suo sistema assistenziale che non risolveva i problemi ma aumentava la corruzione. Il sistema negli anni Cinquanta era quello usato alle elezioni: ti dò una scarpa sinistra, se mi voti ti darò la scarpa destra. Negli anni Sessanta divenne: ti prometto una scarpa, e continuerò a prometterlo anche dopo ma mica sono scemo che ti dò delle scarpe (cioè che risolvo il tuo problema). L’arte del rinvio ha fatto sì che la crisi della metà degli anni Settanta da noi fu risolta da una parte (a livello politico) cristallizzando facce e coalizioni (la lunga permanenza di Andreotti al potere ne è il simbolo) dall’altra invece di creare una borghesia in Italia si è creata una classe diversa, una Sottoborghesia che ha caratteristiche diverse dalla borghesia pur accedendo in parte a fasce di reddito simili. La Sottoborghesia non ha un interesse di classe nei confronti dello Stato, ha un interesse di convenienza rispetto a questo o quell’altro gruppo politico al potere che promette il non-mutamento e l’elargizione di nuovi piccoli privilegi di “settore”. La DC (cattolica) sapeva che la borghesia sarebbe stata (in parte) nemica alla DC stessa. Non poteva venire dalla DC e dai cattolici una “rivoluzione borghese” che non è nelle proprie corde. La LumpenBurgeoisie proviene direttamente dal Lumpen Proletariat, è allenato a considerare “i comunisti” come nemico di classe, ha aspirazioni di spesa borghese. Alla LumpenBurgeoisie appartengono (anche) i ceti arricchiti provenienti dalla criminalità organizzata, ma anche i padroncini (piccoli coltivatori diretti, fino ai padroncini delle licenze dei taxi e dei camion), i ceti che non considerano un dovere il pagamento delle tasse, proprio perché non indentificano il proprio interesse con lo Stato. Una vera e propria classe sociale, che si è via via rinforzata proprio man mano che venivano allargati i privilegi ai singoli ceti e venivano diminuite le prerogative dello Stato borghese. Alla LumpenBurgeoisie ha aderito così anche una parte del ceto industriale che invece di esistere sul “mercato” esiste grazie al mecenatismo statale e al monopolio assicurato dalla corruzione. Una classe che non ha capi unitari, né coscienza di classe. Nel Seicento vi avrebbero aderito in Lombardia anche i bravi di manzoniana memoria.

Fubini ha ragione là dove sottolinea le lunghe durate, la continuità rispetto al fascismo e persino - aggiungo - con alcuni aspetti dello Stato liberale pre-fascista. Si pensi a quanto diceva Gaetano Salvemini a proposito non solo di Giolitti e del suo foraggiare i ceti malavitosi regionali (Giolitti ministro della malavita), e alle caratteristiche del ceto piccolo borghese e medio borghese nelle regioni Meridionali (già allora con molte caratteristiche da LumpenBurgeoisie più che da borghesia vera e propria). Nel 1992 (trattato di Maastricht) l’Italia aderì all’euro perché la debole borghesia italiana (l’alleanza tra Partito d’Azione, PCI e Cattolici di sinistra) sperava sarebbe stata aiutata dall’Europa nella sua lotta contro la LumpenBurgeoisie. La LumpenBurgeoisie ha trovato in Berlusconi un leader (provvisorio) che ha mantenuto nei fatti il potere e il Paese in frigo per vent’anni.

Come si fa a scardinare l’alleanza tra LumpenBurgeoisie e borghesia parassitaria? Basta la politica di assimilazione che prova a includere nel PD i naufraghi delle tempeste politiche della storia recente?


Sinossi del libro

La presentazione del libro nella collana in edicola

L’Italia è il solo Paese della zona euro in cui il reddito per abitante è sotto i livelli del primo gennaio 1999, il giorno in cui debuttò la moneta unica. Neanche la Grecia ha conosciuto una performance così negativa. Nel mondo, solo pochi Paesi colpiti da catastrofi naturali o umane hanno avuto tassi di crescita inferiori negli ultimi quindici anni. Resta dunque la domanda che insegue il Paese da una generazione: perché proprio noi? C’è qualcosa di specifico nella storia italiana degli ultimi cento anni che spiega una simile disfatta nel ventunesimo secolo? Si può scaricare la colpa sull’Europa, o sul rigore di bilancio o sull’assenza delle riforme chieste dalla Germania. Ma un fattore passa spesso inosservato: senza istituzioni economiche al passo con i tempi, e élite politiche e industriali consapevoli di questo, un Paese non ha futuro.

La presentazione del libro nella collana Laterza (I Robinson)

Non c’è un Paese della zona euro che sia stato colpito così duramente come l’Italia dalla crisi finanziaria, economica e politico-istituzionale, ad eccezione della Grecia. La domanda che pesa sugli italiani è: perché proprio noi?

Da quando l’euro è iniziato siamo andati peggio degli altri. Non può dunque essere colpa della moneta unica e delle sue regole, una condizione uguale per tutti, ma di una differenza italiana. C’è qualcosa nella storia del nostro Paese che spieghi la sua debolezza? Si può scaricare la colpa sull’Europa, o sul rigore di bilancio o sull’assenza delle riforme chieste dalla Germania. Ma un fattore passa spesso inosservato: le continuità del corporativismo di origine fascista spiegano molto di un fallimento di queste proporzioni. Senza istituzioni economiche adeguate a questo secolo, ed élite politiche ed economiche consapevoli della sfida, il Paese non si riprenderà.


Recessione Italia : Come usciamo dalla crisi più lunga della storia / Federico Fubini. - Laterza / L’Espresso, 2014. - 144 p. - (iLibra ; 8). - 5,9 euro in edicola.



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