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Quel maledetto 1992. L’inquietante eredità di Falcone e Borsellino

«Di vero c’è solo il botto. Ancora oggi. Di vero c’è solo il botto, e nulla più». Comincia così, con questa citazione da Giacomo Di Girolamo, l’ultimo libro di Augusto Cavadi, Quel maledetto 1992. L’inquietante eredità di Falcone e Borsellino, Di Girolamo Editore, Trapani 2022.

di Davide Fadda - mercoledì 29 giugno 2022 - 906 letture

Lo scrittore siciliano in questo saggio si focalizza sull’eredità etica che le stragi del 1992 ci hanno lasciato e su quanto siano decisivi - in questo senso - i nostri comportamenti quotidiani al fine di attuare una vera “antimafia” del fare a scapito delle sole parole (cfr. p.98). Ripercorrendo le note vicende storiche di quei giorni, l’autore sottolinea quanto «la situazione sia per certi versi identica ma anche, per fortuna, incomparabilmente diversa» (p.15), rispetto a trent’anni fa.

La peculiarità della narrazione di Cavadi è data dalla prospettiva emotiva che egli adotta inizialmente dinnanzi ai fatti del ’92. La logica è infatti di mostrare al lettore quanto l’indignazione personale metta in moto tutta una serie di meccanismi che possono essere l’arma vincente nella strada del cambiamento sociale. Il primo capitolo Tragedia storica, angoscia privata ben sintetizza questo intento. Raccontandoci la sua esperienza personale egli ci invita, come ben argomentato dalla giudice Franca Imbergamo nella Prefazione, a utilizzare questo dolore, e la relativa indignazione, come molla per una maggiore consapevolezza del proprio diritto/dovere di essere cittadini: «Gli ho chiesto – a Giovanni Falcone – perdono. Perdono a nome di quei palermitani che si erano lamentati perché il suono delle sirene disturbava la pennichella pomeridiana. […] Perdono a nome di quel politico (amico!) che, in tv, lo aveva accusato di essere ingiustificatamente cauto nell’incastrare gli amici potenti dei mafiosi. […] Perdono a nome del poliziotto che, in coda con me al panificio, prometteva al collega che l’avrebbe ammazzato lui quel giudice se non l’avesse fatto prima la mafia: troppe lavate di capo per chi veniva sorpreso a leggere la Gazzetta dello sport quando avrebbe dovuto controllare ingressi ed uscite del portone» (p.10).

Nel secondo capitolo, Trent’anni dopo, l’autore mette in evidenza cosa è cambiato e cosa invece è, per certi aspetti, addirittura peggiorato nel contrasto alle mafie. Pur sottolineando come la situazione attuale sia profondamente diversa rispetto al periodo delle stragi, Cavadi ci spiega che, nonostante la sconfitta dell’apparato militare di Cosa Nostra, il rapporto politico tra mafie e istituzioni non soltanto non è morto, ma è rigoglioso; all’ala militare, insomma, si è sostituita, in termini di importanza, l’ala politica delle mafie. Sul piano del cambiamento, invece, si sottolinea come la mancata vittoria di Cosa Nostra non sia da attribuire esclusivamente ai martiri civili più noti, di cui dobbiamo certamente custodire la memoria, ma anche a tutti quegli eroi silenziosi, che fortunatamente non sono morti e di cui spesso non conosciamo il volto, «che hanno perseverato nel fare, molto semplicemente, il proprio mestiere» (pp. 21-22).

Nel terzo capitolo, E domani?, vengono poste le basi di una proposta civica che tenga in considerazione sia la celebrazione dei martiri laici in senso stretto, attraverso la commemorazione, pur sempre necessaria, sia le azioni che quotidianamente debbono poterci distinguere in questo senso. Come fattore primario Cavadi evidenzia la conoscenza del fenomeno, di cui tratta nel capitolo quarto: Anzitutto conoscere. Pur sottolineando che la sola conoscenza del “sistema criminalità” non ne provoca, in automatico, il rifiuto, egli ritiene che questo sia il passaggio iniziale in grado di «abbattere gli stereotipi sul sistema mafioso e focalizzarlo nella sua vera identità: un’associazione gerarchica di cosche i cui membri mirano al dominio e al denaro mediante un consenso sociale ottenuto con proposte di corruzione e, se necessario, con minacce violente» (p.36). Enigmatica, in tal senso, la formula da lui rilanciata: la forza della mafia sta fuori dalla mafia (p. 38).

L’approfondimento sul tema della criminalità organizzata è mal sostenuto, secondo l’autore, da «una preoccupante superficialità intellettuale», la quale troppo spesso edulcora nelle sue opere queste organizzazioni al punto da renderne al pubblico una visione per certi aspetti apologetica. Non basta, quindi, la sola forza repressiva messa in atto contro le consorterie mafiose, ma urge una rivalutazione sociale e antropologica del fenomeno. Per far questo bisogna decostruire la narrazione delle mafie come cancro per approcciarci ad esse, invece, come ad «un modello diffuso di relazioni tra le parti della società» (così V. Sanfilippo citato a p. 61). Bisogna cioè riconoscere che siamo inseriti in un sistema in continua trasformazione di cui tutti siamo un tassello a suo modo determinante. È proprio questo infatti il tema del quinto capitolo Inventare strategie di opposizione nonviolenta: l’autore sottolinea come i giudici Falcone e Borsellino avessero ben chiaro questo aspetto e come tale approccio non fosse solo più umano eticamente, ma anche più efficace professionalmente.

L’approccio nonviolento di Falcone è restituito con le sue stesse parole: «Perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno […] e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono. […] Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi» (p. 65). Nella parte finale del saggio, Boicottare gli affari illeciti e Riscoprirsi animali politici, ci viene mostrata la questione più scottante della tematica, e cioè i rapporti tra le mafie, l’economia e la politica. Il sotto-sistema mafioso immette nel sistema economico ingentissime somme di denaro che sono, a tutti gli effetti, risorse del (e nel) mercato bancario. Questa ricchezza “illegale”, determinata anche dal coinvolgimento attivo di colletti bianchi, innesca un effetto-domino anche nel mercato “legale” creando un cortocircuito per cui moltissime attività lecite sono finanziate da soldi sporchi.

Se quindi l’attività giudiziaria dovrà cercare di stroncare questi meccanismi, il singolo cittadino, nel suo piccolo, può partecipare attivamente al contrasto dei medesimi, attraverso il boicottaggio di attività notoriamente in mano a mafiosi e di prodotti illegali o di dubbia provenienza. Un’ulteriore inversione di tendenza avverrebbe se i cittadini, soprattutto i migliori, si impegnassero nella cosa pubblica in modo attivo così da contrastare le cosche le quali non vogliono essere l’anti-Stato ma, attraverso i propri rappresentanti, farsi Stato: «Si perpetua un circolo vizioso per cui i cittadini più degni non vogliono compromettersi nella gestione della cosa pubblica perché inquinata dalla mafia; le amministrazioni pubbliche corrotte e corruttibili sono sempre più manovrate da boss mafiosi; e ciò allarga il fossato tra esse e i cittadini onesti che si confermano nella decisione di astenersi dall’impegno nelle istituzioni» (p.89).

Nella conclusione del saggio, Rovesciare la pedagogia mafiosa, l’autore illustra come è esercitata l’egemonia culturale mafiosa e come essa abbia primariamente dei risvolti pedagogici importantissimi nella trasmissione dei valori e dei comportamenti all’interno della comunità: «Per questo un’educazione mirata alla prevenzione e al contrasto della mentalità mafiosa è necessaria, ma non deve presentarsi con questa etichetta. La stessa parola – mafia – sulla bocca dell’educatore significa una cosa, all’orecchio del ragazzo di quartiere popolare significa un’altra cosa. Per certi versi l’opposto. La metodologia deve invece fare leva sulla sostanza, sui contenuti effettivi. […] Poi eventualmente da adulto il ragazzo potrà scoprire che i principi ispiratori che aveva gradualmente abbracciato, man mano che abbandonava la filosofia di vita assorbita passivamente da bambino, erano principi frontalmente contrari ai dettami mafiosi» (p.98).

La priorità di un’antimafia del fare rispetto a un’antimafia delle sole parole è un tema di stretta attualità che è stato trattato con originalità dall’autore. Se la via è quella del ’fare’ - nella risoluzione di questo problema plurisecolare - allora non possiamo che interrogarci sulla nostra condizione di individui, sia come esseri umani sia come cittadini. E se la sofferenza dei primi, anche espressa come sentimento di angoscia così ben descritto da Augusto Cavadi, sarà funzionale alla rivalutazione del senso civico dei secondi, allora potremmo dire di esserci avvicinati, forse, al successo.


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