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Quel che resta del futuro: coriandoli e disperazione

Vedo la tragedia dietro quei coriandoli, vedo l’angoscia esistenziale, vedo il terrore di un salto nell’abisso che le nostre generazioni hanno colpevolmente costruito per i loro ragazzi.

di Alessandra Calanchi - mercoledì 19 febbraio 2020 - 3022 letture

Una volta, c’era la goliardia. Gli studenti laureati indossavano buffi cappelli a punta e di notte sciamavano per la città bevendo e seminando schiamazzi. E dopo, tutto tornava come prima.

Poi, sono arrivati gli anni 70, e abbiamo messo in discussione e tutto, dalle toghe ai tailleurs; io mi sono laureata nel 1984 in jeans e la festa è stata fatta in casa con gli amici. Ovviamente ho fatto un piccolo regalo al mio professore, in segno di stima e di gratitudine... piccolo, però, molto piccolo, perché lui non accettava nulla, rimandava indietro casse di vini e ogni sorta di doni e sua moglie si lamentava dei soldi che spendevano, con tutte queste spedizioni. 

Infine, sono arrivati i giorni nostri. Ora sono in cattedra, e devo far firmare agli studenti un protocollo di comportamento per scoraggiare lo scempio che fanno i laureati della città rinascimentale in cui ho l’onore di insegnare.

Coriandoli e sporcizia di ogni sorta, carta, plastica, vetro sono all’ordine del giorno, il tutto condito da cori volgari che risalgono a epoche lontane che si riavvicinano e riacquistano voce nei modi più subdoli. Così si leggeva in un blog 5 anni fa: “Mentre si intona Dottore, dottore…, si lanciano anche uova, coriandoli, stelle filanti, piume, petardi, si attivano sirene da stadio, si grida nei megafoni, si spruzza spumante o vino a basso costo, si cosparge di colla il neolaureato o la neolaureata, in modo che tutto ciò che gli si lancia addosso possa restargli ben appiccicato, lo/a si costringe, a seconda dei casi, a spogliarelli degni del peggiore addio al celibato o nubilato, o a travestimenti e rituali degni del peggiore nonnismo da B movie italiano…”

E ancora è così. Ma non è finita.

Le famiglie, numerose e vestite come se andassero sul Red Carpet, portano enormi mazzi di fiori e cannoni da coriandoli oltre a bottiglie che intendono stappare subito fuori dalle aule. Non è raro vedere colleghi accademici e personale vario armati di scopa e intenti a ridare un po’ di decoro a luoghi che dovrebbero essere oggetto di un maggior rispetto e educazione. I regali, poi, le famiglie non li fanno più ai professori – nemmeno un confetto, ah, sì, perché ci sono i confetti e le bomboniere come ai matrimoni – bensì ai figlioli laureati, sia che si tratti della laurea triennale sia di quella magistrale.... sì perché la riforma ha raddoppiato le feste!

E nessuno sembra rendersi conto di quello che scriveva già la citata Giovanna Cosenza: “innanzi tutto una precisazione, per tutti i laureandi e i loro parenti, amici, morosi che leggono: con la laurea triennale non si diventa dottori. Il nostro ordinamento (3+2+3) prevede tre livelli: la laurea triennale, la magistrale (che possono essere fusi nella laurea a ciclo unico) e il dottorato di ricerca. Nel resto d’Europa si è dottori solo con il dottorato di ricerca. Insomma, da qui a proclamare dottori («Dottore, dottore…») i laureati triennali ne passa. Se vogliamo stare in Europa cominciamo da qui: riserviamo i festeggiamenti alla laurea magistrale.”

Io credo che sia legittimo festeggiare, rallegrarsi di questi giovani che hanno raggiunto un traguardo. Però mi sfugge la celebrazione carnevalesca, l’esibizione volgare del successo, il vociare neo goliardico poco ecologico e poco rispettoso di luoghi deputati alla cultura, all’arte, alla scienza.  Mi sfugge anche il motivo per cui un professore debba richiedere allo studente una dichiarazione antiplagio e una dichiarazione di comportamento consono… mi pare umiliante, me l’avessero chiesta 35 anni fa mi sarei offesa.

E arrivo al punto. Credo che gli studenti festeggino la fine di un incubo. O meglio, quel breve lasso di tempo tra la fine di un breve incubo e l’inizio di un nuovo lungo incubo forse ancora peggiore. La ricerca di un lavoro, l’ingresso nel mondo professionale, un dottorato, un concorso... Vedo la tragedia dietro quei coriandoli, vedo l’angoscia esistenziale, vedo il terrore di un salto nell’abisso che le nostre generazioni hanno colpevolmente costruito per i loro ragazzi.

Perché non ammetterlo? Gli stiamo portando via tutto - il posto fisso, la pensione, il pianeta.  Vedo nelle loro feste chiassose un’alternativa desolante alle proteste giovanili che potrebbero e dovrebbero fare, vedo nei balli e nei tuffi in fontana un tragicamente ludico ripiegarsi da parte di chi ha rinunciato troppo presto a esprimere la contestazione, la rabbia, l’indignazione.

Quando mi capita di raccontare ai miei allievi (amatissimi, dal primo all’ultimo) la favola bella del movimento studentesco, il maggio francese, le barricate, i limoni in tasca, i sit in, le proteste, le lotte per i diritti civili, loro mi guardano come se parlassi di un altro pianeta, e nei loro sguardi assorti percepisco il barlume di un qualcosa che non so definire, di un germoglio che potrebbe rinascere… ma forse è solo una mia fugace impressione. E quanta fatica si fa a portarli verso la rappresentanza negli organi istituzionali, anche solo verso la formazione di liste, anche solo verso il diritto di voto. Eppure l’università in passato è stata teatro di cambiamenti e di una crescita sociale e culturale, ci sono stati tempi in cui gli studenti sono stati i protagonisti, e non i professori, e mi chiedo quale patto si sia incrinato, quale nuova inversione si sia verificata a danno di entrambe le parti.

Il mio auspicio è che la moda delle feste per strada passi, che gli studenti si riapproprino della loro piena consapevolezza di cittadinanza attiva, responsabile ed ecologica, dentro e fuori l’università. Che lascino a casa mamme, papà e coriandoli. Per riprendersi quel che resta del futuro.



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