Quasi come l’immaginario del cinema fosse un viaggio onirico

La doppia porta dei sogni. Scritti di cinema / Guido Fink ; a cura di Alessandra Calanchi e Paola Cristalli. - Edizioni Cineteca di Bologna, 2022.
Quando ho provato a leggere il primo capitolo del volume, riguardante il cinema muto, e, nello specifico, il punto in cui si collegano Intolerance (1916) di David Wark Griffith e la poesia di Walt Whitman, credevo che non sarei mai sopravvissuto a una tale esperienza. E invece sono sopravvissuto, eccome.
Il corposo volume ci spalanca le porte al mondo di celluloide, si diceva una volta, che, per quanto uno sia appassionato, non può certo esplorare in modo compiuto in un batter di ciglia. Per appassionarsi alla lettura di Guido Fink dovete essere attratti un minimo dal cinema (e/o dalla letteratura, dal teatro, dall’estetica) e lascarvi trasportare dalla raffinata e suadente prosa dell’autore.
Scorrendo l’indice si capisce che alcuni argomenti sono espliciti: il cinema muto, come detto; il cinema degli anni trenta; quello Yiddish; il cinema inglese degli anni di guerra; quello americano del medesimo periodo; il neorealismo italiano; Hitchcock e la commedia; Bassani e il cinema; lezioni calviniane; il cinema italiano del dopoguerra e quello girato sulla foce del Po e narrato da Gianni Celati; alcune soglie della fantascienza e altri imperscrutabili capitoli i cui titoli lasciano interdetti. Due su tutti mi hanno incuriosito: “In cucina con Paolo Stoppa” e “Una merenda sull’erba e altri equivoci. Questioni di calligrafia”.
- Copertina di La doppia porta dei sogni, di Guido Fink
Lo confesso, ho avuto l’onore di conoscere Guido Fink (28 luglio 1935 – 6 agosto 2019) ai tempi dell’Università a Bologna, quando fu il mio prezioso relatore della tesi, prima di diventare il direttore della rivista Cinema&Cinema, prima che fosse chiamato a dirigere il Centro di Cultura Italiana a Los Angeles. Ho amato le sue lezioni, strapiene di studenti, nell’aula magna di Lettere: insegnava Letteratura Angloamericana, all’epoca, e lo conoscevo come l’autore di un volume intitolato Testimoni dell’immaginario (1978). Non potevi non essere affascinato dalle sue affabulazioni didattiche; dalle sue apparentemente imprecise indicazioni bibliografiche che, in realtà, erano sempre precisissime e preziosissime; dalla sua gentilezza e cordialità che ti rapivano, dalla sua ironia pungente che, sul momento, tralasciavi ma che poi ti attraversava il cervello, aprendoti nuove prospettive. Infine, dalla sua conoscenza smisurata, dalla sua sete continua di cultura che ti faceva immaginare un panorama, una nuova visione della realtà a cui non avevi mai pensato. Un intellettuale raffinato che non aveva mai abbandonato le sue origini ferraresi ed ebraiche ma che era diventato cittadino di una cultura cosmopolita e globalizzata ante litteram.
“Perché lo schermo ci inondi con le visioni angosciose del labirinto, ci faccia provare di nuovo gli chocs e le collisioni di cui parlava Benjamin a proposito di Baudelaire, ci costringa a inoltrarci in uno spazio che è invariabilmente tempo, e tempo dell’angoscia, della fretta, del troppo-tardi […], bisognerà saltare l’epoca tutto sommato ancora ottimistica della seconda metà degli anni Trenta, e arrivare a certi spaccati apparentemente ‘neorealistici’ e ‘documentari’ del decennio successivo” (p. 85). Guido Fink ti trascina in un vortice intellettuale che ti vuole far comprendere come dal cinema si dipanino sentieri imprevedibili, e lo fa con una serie di citazioni cinematografiche che spaventano per l’accuratezza e la mole. Molti di questi esercizi filologici erano impensabili negli anni in cui scrisse questi saggi sul cinema, senza aver accesso a un computer: conosce tutti i film, anche quelli mai giunti in Italia (come Crime School, un film del 1938 con Humphrey Bogart), oppure ci parla del “breve periodo, a partire dal 1921, in cui il regime comunista eleva lo yiddish al rango di ‘lingua nazionale’ e il cinema – un cinema muto, dove questa ‘lingua nazionale’ si può soltanto immaginare o leggere, mischiata al russo, nelle didascalie – si rivolge agli attori del teatro Habima per un adattamento da Sholem Aleichem (Mabul, Il diluvio, 1926) o assume uno sceneggiatore di nome Isaac Babel, salvo poi criticarne l’operato, pur generalmente improntato a un esplicito desiderio di ‘uscire dai ghetti’ e alla speranza che gli ebrei vogliano e possano unirsi alle forze progressiste, come ‘decadente e ideologicamente scorretto’” (103). E guai a fidarsi dei titoli: “In cucina con Paolo Stoppa” (1987) sembrerebbe un saggio sull’attore italiano collegato alla gastronomia e invece è un esercizio sul cinema onirico partendo da un sogno scritto da un non ben definito autore. Per concludere: “Da Chaplin a Schwartz, da Woody Allen a Back to the Future, ci si muove via via con maggior sicurezza nel sogno e nel film, e si è imparato a manipolarli, condizionandoli nel senso voluto. Eppure – e non è che un’ultima contraddizione – se è vero che ormai tendiamo a vivere in un sogno generalizzato e ad arredarlo come più ci piace, è anche vero che è più facile illudersi da svegli: ma di tanto in tanto altri sogni dentro il sogno, più imbarazzanti e più veri, aprono nel nostro technicolor quotidiano squarci di traballante e modesto bianco e nero, ricordandoci per un momento che siamo ancora lì, senza ali e senza macchine del tempo, in platea o nelle nostre cucine, accanto alle nostre madri-vedove e ai nostri padri-Stoppa.” (p. 336).
E poi la fantascienza, il genere che più si presta al collegamento fra letteratura e cinema, anche se entrambi sono spesso considerati di serie “B” dalla critica più schifiltosa: “Non è facile stabilire una differenza radicale, in questo senso, fra oggetti plausibili (persone note, luoghi visitati nell’infanzia) e gli oggetti e le figure inverosimili a cui il fantastico, la fiaba, la fantascienza ci domandano di credere: centauri, ippogrifi, unicorni, marziani. […] un testo fantascientifico può osare qualunque cosa e metterci in crisi in qualunque modo, ma c’è un reato che non può assolutamente commettere: quello di non stupirci, quello di risultare prevedibile” (pp. 239-40). Ma quando si legge un autore di science fiction del calibro di Dick, non ci si può esimere da un collegamento elegante e raffinato come solo Fink ci può suggerire: “il momento in cui la creazione mentale sta debordando nella realtà, come a esempio nella trasformazione di una Chicago immaginaria a una Chicago quasi vera nel Philip K. Dick di The Man in the High Castle, 1962); il finale, contravvenendo alle regole, sarà una morte abbondantemente annunciata. Come in Moby Dick, che non è (ma forse è anche) un romanzo di fantascienza, a furia di parlare del mostro e di voler vedere il mostro si finisce per farlo entrare in scena, per esserne divorati. […] la science fiction da tempo preferisce illuderci che i mostri che possiamo pensare/vedere/creare non siano veri, ma vengano da altri libri, o altri film; da sogni o da incubi già sognati da altri prima di noi. Non so se questa vocazione autoriflessiva della letteratura fantascientifica, ora diffusissima anche in altri generi più nobili, sia già stata adeguatamente messa in risalto: a mio avviso la fantascienza è stata davvero anticipatrice, oltre che in tanti altri e poco piacevoli accadimenti, in questa svolta della narrativa verso la metanarrativa e del cinema verso il cinema al quadrato o fra virgolette.” (pp. 352-54)
E infine le “sue” lezioni calviniane (1995) dove incontriamo di tutto, anche un Umberto Eco giovanissimo e senza barba, sul set de La notte di Michelangelo Antonioni, o almeno “secondo alcuni, per la prima volta sullo schermo”, chiosa Fink (p. 296). E la sua amicizia con Italo Calvino e Guido Almansi (con cui scrisse l’ironico Quasi come nel 1976) che prorompe da indizi, da piccoli dettagli, da piccole indicazioni che farebbero pensare a una realtà, quella del secolo scorso, ormai vecchia e superata ma che ci fa capire come l’analisi di un intellettuale, di questo calibro, possa presagire il travaglio delle disuguaglianze del XXI° secolo, quanto mai attuale, anche se forse colto da una prospettiva meno globalizzata: “È un’Italia che Calvino vede naturaliter schizoide, divisa in due in senso letterale, senza bisogno di ricorrere a quello che Guido Almansi definirà il mondo binario di Italo Calvino: da una parte moderna e industrializzata, dall’altra depressa: Nord e Sud; Detroit e Calcutta: “Mai forse si era data situazione più adatta alla sintesi che volesse rappresentare in tutta la sua complessità il travaglio del nostro secolo” (p. 298).
La realizzazione di questo volume la dobbiamo alla Cineteca di Bologna e alle curatrici Alessandra Calanchi e Paola Cristalli, che hanno svolto un ottimo lavoro di ricerca e di selezione. Un pensiero va anche a Daniela, la moglie di Guido Fink, e a suo figlio Enrico, che hanno fornito i testi e ne hanno autorizzato la ripubblicazione.
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