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Pro o contro la rivoluzione?

A partire dai giubbetti gialli.

di Redazione - venerdì 7 dicembre 2018 - 4625 letture

Abbiamo tradotto e pubblichiamo il seguente testo apparso il 2 dicembre 2018 sul sito Paris Luttes. Ci sembra restituisca alcune delle posizione – e dei limiti- principali del dibattito e degli atteggiamenti presenti nei contesti militanti francesi nei confronti del fenomeno dei Gilets Jaunes. Ma si tratta in fondo di un utile promemoria per ognidove.

Pro o contro la rivoluzione?

Alcun.e.i, da qualche anno hanno formulato in questo modo la questione della loro azione politica: “Cosa farsene dell’idea rivoluzionaria quando la situazione non lo è?” Giustamente, la loro risposta, data dal radicamento nei quartieri, è stata quella della partecipazione alla costruzione dell’autonomia. Oggi l’ipotesi non è più esattamente la stessa, l’aria sembra essere un po’ più nervosa. Può essere dunque, che sia il tempo di riformulare la domanda: “Come riaprire l’ipotesi rivoluzionaria quando la situazione è ben diversa?”

In queste ultime settimane molti.e militanti hanno girato attorno alla questione di un’agitazione percepita come esogena, i Gilets Jaunes. “Sta succedendo qualcosa, ma questa cosa non viene da noi. Siamo a favore o contro?” Un rompicapo profondo. Perché esiste un tale divario tra i militanti e la situazione attuale?

All’inizio si è parlato di “rozzi che non vogliono pagare una tassa ”. Poi si è iniziato a motivare il rifiuto con la disapprovazione dei loro atti razzisti, sessisti, omofobi. In seguito, il rifiuto pressoché istintivo si è modificato in esitazione. Ci si è resi conto che questi soggetti e questi singoli fatti non potevano essere considerati rappresentativi dell’intero movimento dei Gilets Jaunes, in quanto questo movimento è qualcosa di molto eterogeneo.

Nella settimana del 17, nonostante le azioni dirette, i blocchi economici importanti e la manifestazioni selvagge, vi era ancora una certa reticenza nei confronti dei Gilets Jaunes poiché, sebbene ci fosse una rivolta, ugualmente parte dei militanti non era favorevole ad andare a manifestare con “tutti quei fasci”. Al tempo stesso, un’altra parte di militanza spingeva al contrario sulla necessità della presenza militante in quel terreno proprio per non lasciarlo a loro. In ogni caso, c’era la necessità di riflettere. Per due settimane, prudenza, analisi, quasi nessun piano di azione. D’altra parte, una continuità inalterabile delle lotte, quelle solite. Come se i Gilets Jaunes stessero bloccando le strade… del Québec.

Alcun.e.i suggeriscono che, al di là del disprezzo di classe, il motivo profondo è che, quando arriva il momento decisivo, i/le militanti rifiutano il cambiamento, generale o personale che sia. Sottintendendo che questo rifiuto è praticamente intrinseco nella condizione militante. Che esista una deriva conservatrice della militanza? Se esiste una tendenza militante a offuscare la potenzialità di un cambiamento improvviso, è con la paura del non previsto, del non familiare, del non conosciuto che si spiega lo sfasamento con l’insorgere di una nuova situazione.

Una cosa è certa, c’è una mancanza sia di disponibilità sia di gusto per la spontaneità. Ciò che va messo in questione sono le abitudini militanti. Sono queste che hanno impedito di vedere in questo inizio di agitazione inedito, non solamente la rabbia legittima dei Gilet Jaunes, ma anche la possibilità di una sommossa popolare che straripasse oltre i margini e l’intensità di un “movimento sociale.”

Che tutti quei media che non smettiamo di criticare quando attaccano i nostri movimenti abbiano improvvisamente acquisito credibilità agli occhi di questi stessi militanti? Non appena avviene un’aggressione razzista o omofoba, i media vi si gettano sopra. Al tempo stesso però, quando una vecchia sotto-prefettura viene occupata a St. Nazaire e ribattezzata “casa del popolo” o quando vengono cacciati a fasci a Rouen o quando ci si organizza con i sindacalisti per amplificare i blocchi economici… nessuna notizia.

Sabato, il 24 novembre, numerosi militanti sono stati sugli Champs-Élysées. Il giorno dopo questa giornata di rivolta, si constata una maggiore accettazione dei Gilets Jaunes. Le immagini degli Champs-Élysées, oltre che alcuni appelli di importanti collettivi, hanno fatto sì che molti non potessero più fermarsi al loro stesso rinculo. Qualcosa, tra il feticismo dell’insurrezione e un’autentica presa di coscienza, ha portato a percepire la loro stessa non-partecipazione come qualcosa di cui vergognarsi.

Quando i/le militanti hanno iniziato a scaldarsi, è arrivato finalmente il tempo di domandarsi “che fare?” Partecipare alla manifestazione… e dopo? Che carenza di immaginazione mentre dappertutto c’è una festa.

Invece di essere vista come un rischio - di sentirsi inutili e minoritari - la partecipazione oggi potrebbe essere giustamente il momento in cui si spingono le abitudini a diluirsi nella sperimentazione, e questa sarebbe a priori, una buona notizia.

Ci potrebbe capitare di sentire dire che due, tre settimane di “ritardo” è piuttosto il tempo di una giustificabile prudenza. Risponderemmo che, se c’è stato un momento in cui si è potuto dire che si trattasse di un movimento fascista, è stato proprio perché questi ultimi non hanno avuto questo ritardo, come ha dimostrato la parata del Bastione Sociale a Lione il 17 novembre.

Possiamo anche rispondere che per crearsi un’opinione, il terreno resta indispensabile. In ogni caso non è il ritardo ad essere inquietante, quanto i motivi che lo hanno reso inevitabile.

Quest’assenza di reattività è la prova di una riflessione strategica che impedisce l’azione allo scoppio di una situazione che non è stata messa in scena da sé stessi. O altrimenti, dell’insufficienza di riflessione strategica tout-court.

A coloro che hanno respinto e denigrato i primi scossoni dei Gilets Jaunse, è necessario porre una questione: come immaginano loro l’innesco di una situazione rivoluzionaria? A partire dall’azione decisiva di un’organizzazione? Incentrata su un unico soggetto omogeneo? Oppure, se non s’immaginano un cambiamento di ritmo, come pensano di avanzare realmente nella loro causa? Grazie a una temporalità ermetica agli altri che la circondano?

Dal canto nostro, non abbiamo intenzione di discutere se stiamo assistendo ad una situazione rivoluzionaria o meno. Al tempo stesso è possibile che la maggior parte delle rivolte a venire (e una buona parte di quelle passate) siano simili a ciò che si sta producendo da 3 settimane nella Francia metropolitana e alla Réunion. Soprattuto, riteniamo sia auspicabile che si diano in questo modo.

Senza che sia una rivolta scatenata da un partito o un organizzazione politica, senza che un qualsiasi capo, rappresentante o leader stesso riesca a farsene portavoce, ogni tentativo viene denunciato da ogni lato.

Se i primi blocchi sono stati lanciati dall’appello di un numero ristretto di individui - alcuni poco raccomandabili- e in merito a una rivendicazione specifica- l’annullamento di una tassa sui carburanti- il loro superamento è stato quasi immediato. In seguito, l’agitazione si è estesa a macchia d’olio e si è concretizzata, localmente, simultaneamente; ma anche a livello nazionale, con dei momenti di convergenza. Così si è vista fiorire una varietà immensa di gesti di disobbedienza: pedaggi gratuiti, manifestazioni non autorizzate, blocchi economici; e azioni dirette: occupazioni di sottoprefetture, assalti di trattore ai luoghi statali, furti in casa di deputati, saccheggi di grandi distributori… la lista è lunga.

Al posto delle piazze, ora sono le rotonde che costituiscono la base fisica della mobilitazione. Sono il segno di uno spostamento dell’organizzazione verso le periferia. Attualmente, in molti posti di blocco, intorno ai bracieri gli ammassi di bancali iniziano poco a poco a trasformarsi in accampamenti…

Una rivolta, che esige, come molte precedenti, dignità. O meglio, quando se ne sente parlare o se ne discute con quegli uomini e quelle donne che mantengono i blocchi dopo più di 10 giorni al freddo e alla pioggia, si percepisce che questa dignità, la stanno cominciando a ritrovare nella lotta, nello scontro con chi, per ora, è designato come il colpevole principale, il signor Macron.

Come dunque, non allarmarsi per i numerosi atti ripugnanti (una donna a cui è stato strappato il velo o dei migranti aggrediti a Calais) e che non si fermeranno necessariamente a questo? Come non essere infastiditi dagli applausi di fronte alla polizia? O ancora dal numero di bandiere francesi? Potremmo sentirci meglio solo quando a quella francese si aggiungerà anche la bandiera algerina, quella bretone, quella cabila, quella della rivoluzione siriana, del movimento Zapatista accanto a quella dei rossi, neri e LGBT. Perché pensiamo che le identità non scompariranno dall’oggi al domani.

Sembra banale ricordare che sì, nei momenti di rivolta accadono cose brutte, inquietanti. Esse riflettono l’aria dell’epoca, espressione ed espiazione d’idee e di passioni tristi.

La caduta di Macron o anche di un regime non è sinonimo della caduta dello stato, del capitalismo di ogni tipo di oppressione. E ancor meno dell’avvento di un mondo giusto ed egualitario. Ciò che potrebbe accadere non sarà né giusto ne egualitario. Nessuno crede più nella “grand soir” (ndt concetto della fine del XIX secolo che esprime la speranza di uno stravolgimento improvviso e radicale dell’ordine sociale esistente). D’altro canto, sarà una tappa importante da inscrivere in un processo rivoluzionario a lungo termine.

D’ora in poi, da questo momento intenso, non sarà possibile adottare lo stesso atteggiamento di quando si prova a costruire qualcosa pazientemente. La questione ci sembra essere: come partecipare a questo momento di rivolta che si auspica la destituzione del presidente contribuendo all’avanzamento di ciò che vogliamo? Senza cercare di prenderne il potere (cosa in ogni caso poco plausibile), ostacolando i tentativi dei nostri nemici.

Per contrastare le attività di questi ultimi, sarà necessaria una dose massiccia di acume collettivo nello stare dentro i contesti. Questa non è una questione astratta ma qualcosa che si giocherà su tutti i livelli, su scala nazionale come regionale, nei discorsi trasmessi in tv come su ogni rotonda.

Per questo, sarà necessario cercare di attivare tutto ciò che abbiamo provato a costruire in questi ultimi anni in termini di legami, idee o strumenti.

Le amicizie, le alleanze, gli incontri… è il momento di vedersi e discutere, non di che cosa sta succedendo, ma di cosa possiamo fare insieme.

Oltre che risorse materiali, abbiamo sviluppato dei mezzi per combattere la dominazione, sia essa sessista, razzista o di classe. Niente è dato per fatto, niente è soddisfacente, tutto è incredibilmente parziale, ma abbiamo qualcosa da offrire.

Gli medici di strada nelle manifestazioni, le richieste per smettere di pagare l’affitto, le mense popolari per incontrarsi e riuscire a rimediare alla fine del mese.

Ma che cosa ne vogliamo fare di tutto questo? Il tesoro per nostro personale conforto, sperando che qualcuno.a ci caschi addosso girando l’angolo? Questo significherebbe riprodurre i nostri privilegi, anzi peggio, inventarne di nuovi.

O al contrario vogliamo provare ad estenderli, a metterli a disposizione e soprattutto vogliamo permettere la loro alterazione nell’incontro con l’intensità, con l’altro a livelli più complessi. Dobbiamo proporre all’interno di questo contesto delle risposte per combattere al tempo stesso sia il nostro io che il nemico.

Di qualunque cosa si tratti, è meglio contribuire a far sì che una rivolta non venga recuperata piuttosto che profetizzarne il recupero e poi godere di avere avuto ragione.

Per chiarire, la nostra proposta non è quella di chiedere a tutti di infilarsi un gilet giallo. Possiamo farlo, certo, ma l’appello è piuttosto quello di partecipare all’intensità della mobilitazione ognuno a suo modo. Ciò può significare a seconda dei casi andare a incontrare gli/le occupanti delle rotonde, come stravolgere le nostre stesse lotte.

Sabato primo dicembre, l’onda gialla irrompe per la terza volta sull’Eliseo. Parigi è invasa da migliaia di persone che invocano la rivolta, la rivoluzione. Bisogna prendere bene le misure di questo ritmo. Non suonare in controtempo.

Il punto non è più di allearsi con questo “movimento”. Non ci si può alleare con un momento. Ancora meno con una rivolta. Ci si può unire a una rivolta. Ci si può immergere in una rivolta.

Dopo tutto questo, chi ancora vuole discutere se vale la pena di avvicinarsi a ciò che sta accadendo piuttosto che chiedersi che cosa possono fare loro, presentiamo una questione più semplice per animare i loro dibattiti: “La rivoluzione: a favore o contrari?”.

Noi abbiamo fatto la nostra scelta: aggiungere le nostre forze a tutte quelle che vogliono fermare il paese, spingerlo a riflettere e iniziare a costruire ciò che vogliamo.

Contribuire alla caduta del regime e all’organizzazione di ciò che viene dopo.

(un contributore e una contributrice)


Fonte: InfoAut.



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