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Per Stefania Noce

"Qualche mese fa una casa editrice Catanese, la Villaggio Maori Edizioni, mi ha incaricata di scrivere un libro su Stefania Noce, per questo sono qui."

di Redazione - martedì 4 dicembre 2012 - 5796 letture

A circa un anno dalla tragica morte di Stefania Noce e di suo nonno Paolo Miano, per mano del fidanzato della ragazza il 29 novembre scorso, a Licodia Eubea, all’ex convento di San Benedetto e Santa Chiara, organizzato dal comune, si è tenuto un convegno contro la violenza di genere dal titolo “Stefania e le altre donne. L’insopportabile pesantezza dei femminicidi”.

Di fronte ad un pubblico numeroso, commosso e partecipe si sono susseguiti, coordinati da Pina Ferraro, assistente sociale e consulente di parte delle famiglie Noce e Miano, gli interventi del sindaco Giovanni Verga, dell’assessore comunale alle Pari opportunità Giovanna Guarnaccia, e delle relatrici: Rita Palidda, docente di Sociologia Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche di Catania; Margherita Carlini, criminologa Forense; Serena Maiorana, giornalista. In conclusone gli interventi di Lucia Sardo e di Franco Battiato.

Pubblichiamo qui l’intervento della nostra collaboratrice Serena Maiorana.

"Buonasera e grazie di essere qui così numerosi. La vostra partecipazione è la cosa più importante per chi, come noi, si occupa di violenza di genere, ma soprattutto per tutte le donne che sono vittima di violenza. Mi chiamo Serena Maiorana, sono una giornalista e, tra le altre cose, mi occupo molto di violenza e discriminazione di genere. Qualche mese fa una casa editrice Catanese, la Villaggio Maori Edizioni, mi ha incaricata di scrivere un libro su Stefania Noce, per questo sono qui. Mi sarebbe molto piaciuto parlarvi a braccio, ma in questa occasione il rischio di essere tradita dall’emozione è alto, per questo ho preferito scrivere il mio intervento, spero mi perdonerete. Prima di cominciare a leggere però tengo molto a ringraziare Rosa e Ninni, genitori di Stefania, per averci regalato questo momento di condivisione e consapevolezza. Grazie.

Qualche mese fa sono stata incaricata da una casa editrice catanese di scrivere un libro per raccontare la storia di Stefania Erminia Noce. La storia della sua vita, la storia della sua morte. E tutto ciò che queste due storie rappresentano in questo paese martoriato. L’Italia è, oggi, un paese ostile alle donne, un paese che non sa e non vuole difenderle e che, così facendo, non salva nemmeno i suoi uomini.

Ho accettato di raccontare ciò che è accaduto a Stefania perché sono fermamente convinta che la sua storia abbia in sé una grande valenza simbolica e sociale, contro la mortificazione quotidiana del ruolo e del corpo delle donne.

Nel 2011 in Italia 137 donne sono state vittime di femminicidio. Quasi sempre l’omicida era il compagno o l’ex compagno. In media muore così più di una donna ogni tre giorni. E questi sono i casi già risolti. Poi ci sono le donne scomparse. I tentati omicidi. Ci sono gli omicidi sventati e ci sono le violenze quotidiane, psicologiche e fisiche. A nord muoiono più donne che al sud, e di solito, sono donne che avevano denunciato o volevano farlo, o più semplicemente donne che volevano lasciare il loro compagno. Donne moderne ed emancipate, che conoscevano il significato della parola stalking e rivendicavano, in qualche modo, la loro identità.

In Italia nel 2012 la reale emancipazione di una donna passa ancora per la violenza. Così è nella vita privata, come in quella sociale. Tutti abbiamo avuto a che fare con la violenza di genere almeno una volta nella vita. O per esperienza diretta oppure per sentito dire. Perché sentivamo le urla dei vicini. Perché sapevamo delle liti. Perché sapevamo della sofferenza.

Noi donne veniamo uccise ovunque, ma in Italia negli ultimi anni i delitti non fanno che aumentare. A partire dal 2005, in particolare, l’escalation procede spedita e inarrestabile, di pari passo con un ritrovato maschilismo gretto e cafone, che vede nell’immaginario collettivo le donne italiane troppo spesso relegate all’incarnazione di consolidati stereotipi che sono il pilastro della nostra cultura. In Italia o sei mamma e moglie e madonna, oppure, troppo spesso (perdonatemi il termine) è facile essere etichettata come semplicemente troia.

Altrove, intanto, è accaduto il contrario. In Spagna, per fare un esempio, fino al 2004 veniva uccisa, in media, una donna al giorno. Nel giro di 7 anni gli omicidi sono diminuiti di oltre l’80%. Un risultato eccezionale ottenuto grazie ad un’azione prioritaria e corale del governo insieme a tutti gli ambiti di intervento connessi, dall’ordine pubblico all’assistenza. Segno inequivocabile che una presa di coscienza sociale condivisa può essere la chiave del cambiamento e che la collettività può e deve assumersene la responsabilità.

Tutte queste cose Stefania le sapeva e le diceva a gran voce. Queste e non solo queste.

Nel 2005, in un suo articolo pubblicato dalla rivista “La Bussola”, proprio Stefania, che all’epoca aveva 18 anni, scrisse:

“Dobbiamo trovare il modo di pensare a un’uguaglianza carica delle differenze dei corpi, delle culture, ma che uguaglianza sia, tenendo presente l’orizzonte dei diritti universali (…) ricordando che le donne sono ovviamente persone di sesso femminile prima ancora di essere mogli, madri, sorelle e quindi, che nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tantomeno, di una religione."

Io e Stefania frequentavamo la stessa università, eppure non ho avuto la fortuna di conoscerla quando era in vita. L’ho conosciuta però due mesi fa, a Licodia Eubea, dai racconti che di lei mi hanno donato sua madre Rosa, suo padre Ninni, sua nonna Gaetana e Serena, la sua amica del cuore. Quattro persone che non smetterò mai di ringraziare per avermi aperto i loro ricordi più intimi. Tutti ricordi felici.

Loro mi hanno raccontato Stefania. Una persona votata alla solidarietà, con un grande senso di responsabilità verso il suo ruolo di cittadina attiva in un paese democratico. Dopo il terremoto dell’Aquila Stefania organizzò una raccolta di beni di prima necessità e con un furgoncino preso in affitto li portò in prima persona ai terremotati.

Per il referendum sulla fecondazione assistita, era il 2005, si spese manifestando pubblicamente in più occasioni la sua opinione in favore dei “4 si”, nella convinzione che l’unica società possibile debba basarsi sul rispetto reciproco, sulla solidarietà e sull’autodeterminazione della donna come di qualsiasi individuo.

A Stefania poi piaceva la letteratura, l’arredamento etnico, la musica balcanica e la voce rauca di Janis Joplin, le piacevano gli orecchini grandi, le piaceva ballare, le piaceva scrivere e le sarebbe piaciuto viaggiare. Ma di lei mi hanno raccontato anche un’altra cosa che mi ha molto colpita. Ninni, suo padre, mi ha detto: “Stefania mi spiazzava: con lei si poteva parlare di qualsiasi cosa e lei sapeva argomentare, eppure metteva sempre in gioco il suo pensiero”. Odiava i dogmi, i pregiudizi, gli integralismi di qualsiasi natura. Odiava i pensieri congelati. Serena invece ha ricordato come “Stefania amava sì discutere con tutti, ma mai per il podio, non aveva ansie da prima donna”. Al contrario: lo faceva perché era profondamente convinta che la curiosità e il confronto dialettico fossero la base per qualsiasi tipo di evoluzione, sociale e personale.

Mi hanno raccontato Stefania che era una donna illuminata dall’intelligenza del dubbio, capace di mettere in discussione tutto, in primo luogo se stessa e le proprie convinzioni. Ed è così che oggi io voglio raccontarla a voi. Come un esempio che tutti dovremmo fare nostro, perché le donne in Italia sono condannate in primo luogo dagli stereotipi cui le inchiodiamo ogni giorno e perché la capacità di essere utili non può esaurirsi in singoli e isolati atti ma, al contrario, si costruisce quotidianamente con la capacità di ascoltare, con l’ansia di comprendere, con la volontà di mettere e mettersi in discussione.

Non possiamo combattere la violenza se prima non riconosciamo il germe che di quella violenza è dentro di noi e nella nostra cultura.

Quando Stefania è morta molti giornali hanno titolato parlando di raptus, di deriva sentimentale. E poi in molti hanno ripreso le parole che a quanto pare il suo assassino, artefice reo confesso anche dell’omicidio del nonno di Stefania Paolo Miano e del ferimento della nonna Gaetana Ballirò, avrebbe detto agli inquirenti poco dopo l’arresto. Pare che le sue parole siano state “l’amavo troppo”. Proprio così “l’amavo troppo”. E tutti i giornalisti ci si sono buttati a capofitto su quelle parole, che sono diventati titoli di articoli scritti con lettere spesse e scure, dall’alto delle prime pagine. Come se il succo di quella storia fosse proprio quello: il troppo amore. Ma allora voglio chiedere a quei giornalisti: cosa c’entra l’amore con la ferocia, con la persecuzione, con la morbosità, con la violenza, con l’idea di rapporto come possesso e con l’identità negata? Non sei più mia e allora non puoi più essere. Stop. Finita.

Questa che raccontiamo oggi non è una storia d’amore finita male bensì una storia di dolore. Un dolore che appartiene a tutti e di cui dobbiamo avere il coraggio di farci carico.

Perché se c’è qualcosa che Stefania ci ha insegnato, o comunque di certo ha tentato di insegnarci, è che il dolore di alcuni appartiene a tutti. E che la condivisione è l’unica via d’uscita. Che essere vivi oggi è una responsabilità verso gli altri vivi, e non solo verso di loro.

In quello stesso articolo scritto all’età di diciotto anni di cui prima vi ho letto un estratto, Stefania scrisse anche:

“Abbiamo grandi debiti con le donne che ci hanno preceduto.”

Ecco: adesso Stefania è una di quelle donne. E noi, noi tutti, le dobbiamo tanto. E non per come è morta ma soprattutto per come ha vissuto.


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