Pene e delitti, di Cesare Beccaria

di Redazione Antenati - martedì 27 maggio 2003 - 4850 letture

Questa inutile prodigalità di supplizii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la pena di morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno. Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio d’ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutt’i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo diritto, o alla società intera.

Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino; perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere: ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa della umanità [...].

Non è l’intenzione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni, che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni coll’aiuto di lei, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto, ritorno sopra di noi medesimi: Io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione, se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in una oscura lontananza [...].

La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori, che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue, il sentimento dominante è l’ultimo, perché è il solo. Il limite che fissare dovrebbe il legislatore al rigore delle pene, sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplizio piú fatto per essi, che per il reo.

Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intenzione della pena di schiavitú perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato.

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene


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