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Margherita Rimi

Della poesia come luogo interiore

par Maria Gabriella Canfarelli - vendredi 7 mars 2008 - 6248 letture

Margherita Rimi. Della poesia come luogo interiore.

Identità soggettiva e alterità sono le costanti principali del lavoro poetico di Margherita Rimi (Prizzi, 1957), autrice presente in molte antologie, riviste e siti web e la cui scrittura ha riscosso consensi in premi letterari nazionali (Gamondiopoesia, prima classificata, 2004 ; Lorenzo Montano, segnalazione di merito 2003-2005-2006 ; Cesare Pavese, premio speciale 2003 ; Maria Marino, segnalazione 2005, e altri). Scrittura singolare, questa, di cui si sono interessati i critici Lucio Zinna, Maurizio Cucchi, Giacomo Bonaggiuso, Gianmario Lucini, Guido Miano, Nuccio Mula, Marilena Renda, Gregorio Napoli, Marco Scalabrino, Giovanni Nuscis ; scrittura che prende le mosse da un tentativo di autoidentificazione attraverso la cultura materna, e susseguente rifiuto ; da un confronto/incontro che genera il dubbio e forse il conflitto con l’alterità femminile più prossima, e che risolve e scioglie il senso di estraneità e della irregolarità esistenziale nella forma espressiva dell’anacoluto, nella frase parcellizzata e nell’assenza del punto (tra un periodo e l’altro) quanto nell’uso di maiuscole a capo verso.

Margherita Rimi ci presenta incertezze sia sul piano delle abitudini che dei luoghi comuni con un discorso latente ma prepotentemente efficace, e anche un “disincantato quanto divertito esercizio di scomposizione e ricomposizione della propria identità” scrive Marilena Renda nella prefazione a “Per non inventarmi” (Kepos, 2002), e inoltre osserva che la poetessa si serve “della possibilità delle parole di mimare la fuga, il ritorno, la caduta, l’invenzione e la re-invenzione di sé e d’altri” grazie a una scrittura a tratti severa, quasi di rivolta e, insieme, mossa dal desiderio di capire, trovarsi, riconoscersi.

E dunque : “Inizio come te / sdottrinata / muta a dondolare” ; “Riparami madre / dalle tue braccia / (...) / dai malcurati amori / dai tuoi terrori // Non parlarmi più / Devi trovarmi / Devi indovinarmi // Il tuo spavento di esistere / è pure il mio”, versi che sembrano attestare la dolorosa tentazione di celarsi e svelarsi, come annota Nuccio Mula, cioè la “incapacità oggettiva di dare corpo alle evocazioni (...), come logos detronizzato”. Questa sorta di incompiutezza, “Qualcosa che manca / e qualcosa da aggiungere / alle parti che restano”, questa parola sospesa e quasi abbandonata, uscita dalla interiorità/custode verso il mondo delle cose e dei sentimenti, non ci salva né ci assomiglia perché apre alla realtà, alla lacerazione e al distacco, alla comunicazione interrotta. Anche ne “La cura degli assenti” (Lietocolle, 2007) la mancata definizione dell’io è principio di indeterminazione, spaesamento, non riconoscimento.

“Quello / che non poteva/ essere // lasciato / lì / solo / e di nessuno / Impensato / Sconsiderato” ; qui si svolge l’attesa solitaria e la paventata assenza di sé, la cura ovvero il “Tirocinio ossessivo / (...) / Le pause intromissive della morte “ e la negazione oggettiva per la provata impossibilità del “passaggio / delle tue labbra / tra i miei desideri // Non mi volevi / quello / che potevo essere”, mentre continua e si determina, invece, il processo di spoliazione tanto dell’anima quanto del corpo, dunque “di me / di questo calibro banale / dei miei chiodi / dei contrassegni sovrapposti / dalle parole”.

La bellezza di questa poesia è spesso spiazzante, e ci pare di sentire l’inquieto rumore di sottofondo d’altre parole rimaste sulla soglia, a sorvegliare l’io dall’eccesso di spreco ; forte e concisa è la scrittura di questa poetessa a cui preme l’essenza, scrive Maurizio Cucchi nella presentazione, “in costante tensione, capace di arrivare al cuore delle cose con una felice asprezza espressiva”.


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