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Ma noi siamo mai usciti dalla “crisi”?

di Sergej - domenica 30 settembre 2018 - 4360 letture

Da che mi ricordo io siamo stati sempre in crisi. Io appartengo alla generazione del baby boom, sono nato nel 1962. Ho vissuto e ho pieno ricordo della crisi petrolifera, gli embarghi, il clima che si viveva negli anni Settanta. Provengo da una famiglia non ricca, la mia infanzia ha conosciuto ristrette economiche e povertà. Non abbiamo vissuto alcuno boom economico negli anni Sessanta. Forse questa è una esperienza che riguarda altre generazioni o altre famiglie. Ho un ricordo (oggi) degli anni Settanta estremamente negativo: per me rimangono gli anni della crisi economica, dei continui attentati terroristici e mafiosi, il regime televisivo che imponeva un clima da paese assediato. Per me il 1975 è la morte di Pasolini e una cesura, nella storia d’Italia. C’è un prima - gli anni della democrazia in Italia - e un dopo: gli anni della lunga crisi.

Per me l’Italia non è mai uscita dalla crisi dopo il 1975. I quadri dirigenti al potere hanno rimandato: decisioni, problemi, conflitti, soluzioni. E’ la classe politica dei De Mita, Andreotti, Longo e Berlinguer. Divisi e in stallo, l’equilibrio dei due blocchi internazionali che in Italia, paese di frontiera, significava che non ci si poteva spingere troppo oltre né da una parte né dall’altra: come in Austria e in Svezia. La linea di confine.

L’ho scritto anche altrove, dal punto di vista industriale e produttivo fu l’accordo Multifibre del 1974 che, a mio avviso, ha segnato la vita di questo Paese più di qualsiasi altra cosa. Un accordo che è scaduto nel 2005. Con questo accordo l’Italia riusciva a ritagliarsi uno spazio e una scialuppa momentanea di salvataggio. Ci siamo “inventati” la filiera degli stilisti, che per il nostro commercio è stata un’ancora di salvataggio. Stiamo parlando di PIL, non di condizioni reali del Paese. Siamo passati da Paese che aveva scoperto l’oro nel "bianco" degli elettrodomestici a Paese che reimpiega i sarti addestrati per le stole dei cardinali e li fa diventare "stilisti".

La crisi di ristrutturazione di quegli anni è stata molto più dura di quanto si possa immaginare. Si pensi solo una cosa: l’Occidente ha reagito con il thatcherismo, mentre il blocco dei Paesi sovietici non è riuscito a ristrutturarsi, e nel 1989 è crollato.

L’Italia, Paese di frontiera, ha creato l’”alta moda” per la classe media. C’è stato un prezzo. Questo prezzo è stato il “nero”. Per far fronte alla necessità della vendita, l’Italia non ha potuto usare gli schiavi afro-americani (ciò che rendeva economicamente competitiva tutta l’economia del Sud degli Stati Uniti), né il drenaggio sistematico delle risorse dei Paesi del Terzomondo (cosa che potevano fare e continuano a fare Francia [1], Belgio ecc_). Ha potuto fare dumping con l’unica cosa di cui disponeva: la propria massa di lavoratori. Tutta l’alta moda italica si è basata su ampie zone di “nero”. Questo ha innescato un dilagare strutturale del “nero” nella società: l’evasione fiscale, che serve anche per comprare l’appoggio al regime partitico dei vari ceti sociali; il “nero” come dato strutturale, culturale e sociale della nostra società. Una struttura rigida, aliena da qualsiasi possibilità di riforma ma che anzi vede nella riforma una minaccia e dunque si orienta di volta in volta verso quei partiti che garantiscono la continuità dello status quo dominante. Il “nero”, l’evasione, il sistema clientelare e corruttivo non sono un “incidente” dello stato italico.

Una inchiesta del New York Times, a cura di Elizabeth Paton e Milena Lazazzera [2] “Le paghe troppo basse dell’alta moda” ce lo ricorda.

Le classi lavoratrici - operai, impiegati ecc_ - doppiamente sono stati incardinati dal sistema: in quanto stipendiati, sono tassati dallo Stato: l’unica classe sociale che paga le tasse in questo Stato. In quanto in “nero”, partecipano da subalterni al sistema di sfruttamento che permette al sistema di produzione di avere manodopera basso-qualificata, poco pagata e costantemente ricattata.

L’Italia ha così vissuto dal 1974 in poi uno stato endemico di crisi, voluto e necessario perché le classi al potere potessero rimanere in sella. Non a caso il capitalismo italico viene definito come atipico rispetto a quello anglo-sassone e statunitense, legato a famiglie (Agnelli, Beretta, Riva, Caltagirone ecc_) il cui modello ha progressivamente annullato qualsiasi “ascensore sociale” e possibilità di ricambio.

L’apparente “benessere” degli anni Ottanta è stato un artificio contabile, che infatti si è subito sgonfiato ed è durato il breve giro di pochissimi anni.

Viene costruito un sistema economico basato sull’evasione fiscale. Ciò serve a creare ceti che sono solidali e interessati alla stabilità del sistema. Nel medio e lungo periodo significa che si opera un travaso di reddito dalla maggioranza della popolazione ai ceti ristretti; in altre parole, finisce la funzione di ridistribuzione del reddito operata dalle tasse, a favore del finanziamento, da parte dello Stato, di determinati ceti ristretti (che beneficiano dell’evasione fiscale, sono autorizzati all’evasione fiscale).

Dall’altra parte, i ceti operai e impiegatizi che avevano mostrato negli anni Settanta una certa irrequietezza vengono puniti e incardinati. La guerra degli anni Settanta è stata persa da questi ceti, a favore dei ceti evasori. La struttura economica ancora prevede una centralità della produzione (manifatturiera e industriale) e dunque ancora i ceti operai e impiegatizi servono come “soldati”. Come tali, viene mantenuto il sistema politico: accesso ai diritti politici e al welfare, pensioni ecc_. Ma come soldati, sono incardinati in modo che restino il più possibile al loro posto. La “scala sociale” viene progressivamente bloccata.

Evasione fiscale significa che tutte le forme di controllo statale debbono essere allentate e diluite; il lavoro deve sfuggire al controllo statale: per questo nasce il “nero”. Chi lavoro per un evasore fiscale non può ricevere una paga che sia tassata ufficialmente dallo Stato, viene creata una economia parallela che utilizza la stessa moneta dell’economia ufficiale ma sottostà ad altre leggi e normative. I centri per l’impiego statali (gli uffici di collocamento) debbono perdere di efficacia. Il vantaggio per gli evasori fiscali è avere manodopera a minor costo, non sottoposta ai vincoli “legali” e dunque ampiamente sfruttata; l’economia clandestina che nasce (il “sistema napoletano”) permette di produrre in nero prodotti che vengono venduti al mercato nero: il mercato alimenta non solo l’economia interna, ma anche l’esportazione. In questo modo l’Italia fa dumping economico, proseguendo la tradizione che si basava prima sul basso costo della manodopera italiana (e del Meridione) rispetto ai Paesi dominanti.

In questo sistema, il ruolo dello Stato continua a essere prevalente, perché è dallo Stato che comunque continuano ad arrivare gran parte delle risorse. Lo Stato italiano svolge un ruolo non tanto di redistributore del reddito, quanto di mecenate e assistenzialismo per ceti che mostrano segni di difficoltà in questo “stare a galla” tutti e nella collettiva “navigazione a vista”. Quando lo Stato smette dopo il 2005 a fare da mecenate, e i rubinetti si interrompono, il sistema economico entra in crisi. Non entra in crisi l’industria legata all’esportazione, che continua a esportare adattandosi al mercato internazionale; entra in crisi la parte economica (i tre quarti dell’economia italiana) che dipendevano dalle commesse dello Stato e che alimentavano mercato nero, evasione fiscale e sistema della corruzione. Non a caso un apparato tradizionalmente legato allo Stato-parallelo, la mafia siciliana, entra in crisi proprio parallelamente a questo processo di inaridimento delle sorgenti. In Italia il mutamento climatico è avvenuto prima nell’economia assistenziale e mecenatista dello Stato, che non nel clima e nel tempo meteorologico.

Oggi si tende a dare particolare enfasi (negativa) al “ventennio berlusconiano”. In realtà neppure costui ha mai avuto qualità tali da meritarsi una qualsiasi azione “direttiva” del reale economico. Come i suoi predecessori De Mita, Craxi e i suoi coetanei Prodi, è solo stato il garante della fossilizzazione del sistema: del congelamento politico, finalizzato a ché nessuno si intromettesse nella realtà economica del Paese. Nei brevi sprazzi che hanno avuto, gli economisti riformisti l’unica cosa che sono riusciti a proporre è stata quella di provare a legalizzare alcune forme di “nero” nella speranza che una volta “dentro” il sistema legale, potessero essere assorbiti e annullati: la cosa non è riuscita per nessuna delle “riforme” timide e incerte portate avanti da questi eroi della politica come "si cerca di fare il possibile”.

Il modello di sviluppo dell’Italia dal 1974 è stato un modello di crisi permanente, basato sul “nero”. Il "nero" non è stata una deviazione del sistema, ma è il sistema; non è economia "malata" o "mafiosa", ma è l’economia strutturale del Paese. E’ ora che il “nero” venga definitivamente riconosciuto.

[1] https://www.italiaoggi.it/news/ex-colonie-la-francia-governa-con-i-colpi-di-stato-2292550

[2] tradotto e pubblicato su Internazionale, n. 1275, pp. 30-35


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