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"Le ribelli" - Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore" di Nando Dalla Chiesa

Recensione de "Le Ribelli, Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore" di Nando Dalla Chiesa..

di Donatella Guarino - martedì 20 marzo 2007 - 15323 letture

Le ribelli. Sono donne forti, tenaci, capaci di amare. In modo totalitario come – forse - solo una donna sa fare. “Fino alla ribellione aperta per amore (p. 97)”.

E’ questo il messaggio, forte, che emerge alla presentazione del libro “Le ribelli – Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore” di Nando Dalla Chiesa fatta l’8 marzo a Palazzo Impellizzeri a Siracusa, in un incontro organizzato dall’Associazione culturale Biblios onlus e Biblios cafè, alla presenza dell’autore.

Questo libro, che vorrei definire di storia, come ha detto lo stesso Dalla Chiesa “si presta a diversi modelli di lettura…Non è saggistica. Sono storie al di là della fantasia”.

Sorelle, madri, donne che contro tutto e contro tutti hanno detto di no alla mafia e al potere mafioso. Ed è “la forza rivoluzionaria dei loro sentimenti” che ha cambiato il pezzo di mondo attorno al quale hanno vissuto, hanno patito, hanno pianto. O ancora vivono, patiscono, piangono…

Ritratti, tutti al femminile, di donne del nostro tempo. Ritratte con parole belle, che entrano dentro. Dense di significato. Sono le ribelli.

Sei donne e sei storie raccontate, pezzi di storia civile e politica del nostro Paese.

Il titolo non è casuale. Scrive l’autore nella prefazione:” Nel rendere onore alla donna siciliana, considerata per lunghissimi decenni l’emblema della sottomissione e del silenzio, esso ambisce anche a contestare con la forza dei fatti una letteratura che ha posto dalla parte dei “ribelli” proprio i mafiosi. I ribelli fu infatti il titolo di un fortunato libro dello storico inglese Eric J. Hobsbawm”.

La scelta di ricorrere ad un narratore interno – ma solo per i titoli dei singoli paragrafi - pone l’accento su ciò che è e che vuole essere il libro: far parlare loro. Queste donne accomunate da tragedie personali e colpite da ferite che non si rimarginano…

Sono la madre di Salvatore Carnevale

“(…) Lei si chiamava Francesca Serio. E il figlio per il quale aveva inutilmente chiesto giustizia per dieci anni si chiamava Salvatore Carnevale. Faceva il sindacalista a Sciara, piccolo e sconosciuto paese in provincia di Palermo”. Ucciso dalla mafia nel 1955. Con il “Lamentu pi la morti di Turriddu Carnevali” Ignazio Buttitta ne fece un eroe popolare.

“(…) Era arrivato a Sciara che aveva pochi mesi, Salvatore. Con la madre, donna giovane e bella, abbandonata dal marito…Francesca era stata sin dall’inizio l’esatto contrario dello stereotipo di donna siciliana tramandatoci dalla tradizione orale e dalla ricerca sociale. Senza marito e senza complessi, impegnata nella sua sfida con un universo chiuso fondato sul principio di sottomissione…Raccoglitrice di olive, mietitrice, zappatrice…Si era spaccata la schiena per dare al figlio, come diceva con orgoglio, il “diploma” quello di quinta elementare…Poi nel ’51 Carnevale guidò un’occupazione in contrada Giardinazzo”. E a questa ne seguirono altre. Il suo impegno a favore dei poveri cresceva. E lui era responsabile anche di aver fondato in paese la prima sezione del sindacato. E ancora, la prima sezione del partito socialista.

La sua integrità morale e la sua incorruttibilità non furono perdonate.

“Gli spararono al fianco, al torace. Poi, mentre era a terra, gli tirarono tre colpi di grazia…Due in testa, uno alla bocca…Colpirono alla testa, devastandogli la massa cerebrale, per distruggere le sue idee. Colpirono alla bocca perché aveva osato esprimerle per difendere i più deboli”.

Francesca parlò. Fece i nomi degli assassini. Stabilì il principio che si può denunciare la violenza mafiosa.

Sono la madre di Peppino Impastato

“Felicia, che di cognome faceva Bartolotta, non era cresciuta a contatto con gli ambienti mafiosi…A portarla verso la mafia e verso una vita d’amore e d’inferno fu proprio la cultura della Sicilia antica, che sarebbe cambiata lentissimamente solo dopo la seconda guerra (…)”.

“Felicia avrebbe voluto sposarsi con un giovane di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Troppo fuori paese perché il padre acconsentisse. Lei si attenne dunque a quelle che venivano chiamate allora “le regole dell’ubbidienza…Alla fine si sposò con Luigi Impastato…Felicia non lo sapeva ma Luigi era un mafioso vero. Non di grosso calibro né di grandi ambizioni…”.

“Felicia cercò a lungo di sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente, mettendo in chiaro le cose con il marito. In casa lei quei tipi non li voleva. Guai a vederseli girare nelle stesse stanze dove crescevano i figli: Giuseppe, nato nel ’48, e Giovanni, nato nel ‘53”.

“(…) Altro che lo stereotipo della donna che nella famiglia di mafia riproduce i valori mafiosi educandovi i figli sin dall’allattamento. Lei fu l’esempio contrario. Senza rompere la famiglia, senza infrangere le “regole dell’ubbidienza”, allevò i due figli ai valori della democrazia e li protesse nel loro cammino”.

“Il compromesso di Felicia sembrò tenere, almeno per qualche anno. Difficile, costoso sul piano psicologico, ma tutto sommato efficace”.

“Le cose presero una piega nuova e irreversibile quando esplose la prima guerra di mafia tra i Greco e i La Barbera. Era la fase della prima mutazione del potere mafioso…”.

“Peppino non era come il padre…”.

I problemi vennero dopo. Quando Peppino si allontana da quella mentalità mafiosa. La odia. La combatte. “La mafia è merda” affermava.

“Il figlio di Luigi stava superando il segno. Era intelligente, si sapeva, ma perché doveva contestare: “Abbasso la cultura mafiosa”.

I comizi, il giornale, la radio. I cento passi che separavano casa sua da quella di Don Tano Badalamenti “Tano seduto”. Peppino fu cacciato di casa.

“Cercavano di metterla in politica, a loro modo, anche i mafiosi. I quali attraverso il padre cercavano, come si direbbe oggi, di “ridurre il danno”. Passi per il comunista, gli facevano sapere, ma che bisogno c’è di attaccare la mafia? La mafia la lasci stare... Non sapevano, gli uomini di Badalamenti, che stavano anticipando un confronto che nei decenni successivi avrebbe attraversato la sinistra italiana. La sinistra e la legalità. La sinistra e l’antimafia. L’antimafia che fa perdere voti. La politica che non è testimonianza…Il Sessantotto andava oltre, addirittura volava sopra queste cose…”.

Peppino fu ucciso l’8 maggio del ’78. Era in auto. Lo costrinsero a fermarsi. Lo trascinarono in un casolare, lo uccisero e lo misero sui binari che costeggiavano l’autostrada di Punta Raisi (…) Lo fecero saltare in aria con il tritolo, come per inscenare la morte di un terrorista vittima del proprio esplosivo”.

Sono la madre di Roberto Antiochia

“Le rughe. Erano bellissime le rughe di Saveria. Sembravano scolpite da un artista divino. Un dono del tempo e del dolore a lei che amava la pittura e la scultura”.

Roberto Antiochia era il suo terzo figlio, poliziotto a Palermo, dove arrivò nel giugno del 1983.

“La prima auto-bomba fatta esplodere con un telecomando. La mattina del 29 luglio un boato mai sentito annientò il giudice Rocco Chinnici, consigliere istruttore di Palermo, successore di Cesare Terranova, anche lui ucciso quattro anni prima. Birilli. Cadevano come birilli gli uomini dello Stato…Roberto venne gettato così nel vivo di una lotta acre e sanguinosa”.

“Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te” affermò. E dopo la morte di Roberto, con grande dignità, spiegò: “noi donne siamo, anzi dobbiamo essere le più forti. Le donne devono reggere la situazione (…)”.

“Fece della lotta alla mafia la sua missione”. (…) “Francesca, Felicia e Saveria. Tre donne colpite nelle viscere e nel cuore con ciò che di più terribile possa capitare a una madre: l’assassinio del figlio. Tre donne che sono chiamate ad affrontare questa prova da sole, senza un marito accanto. Abbandonata Francesca, il marito mai amato e forse assassinato Felicia, il marito amato e morto di cuore Saveria”.

“La ribellione di Saveria fu questa: viaggiare, in modo infaticabile per l’Italia. Incontrare centinaia di persone. Studenti, soprattutto. (…) “Aveva un sacro rispetto per le scuole come luogo di educazione per tutti”.

Dopo l’assassinio di Pippo Fava difese le posizioni del figlio Claudio: “Un antico proverbio indiano” ammoniva “dice che non puoi giudicare un uomo e le sue azioni se non hai camminato nei suoi mocassini per almeno due lune”. E chiedeva: “E quanti di noi hanno camminato come Claudio a Catania in questi due anni, sulle orme di un padre ucciso dalla mafia, con una pistola alla cintura, portando avanti con pochi amici coraggiosi un giornale coraggiosissimo fra mille difficoltà”.

Sono la sorella di Salvatore e Rodolfo Buscemi

“(…) La signora si chiamava Michela Buscemi. Vestita di nero, di una sobrietà quasi elegante, gli occhi scuri e luminosi, la matura bellezza meridionale di chi a trentacinque anni ha già sperimentato tutte o quasi le fatiche e le prove della vita. La mafia a Michela aveva ucciso due fratelli. Salvatore e Rodolfo (…). Contrabbandiere l’uno e senza fisso lavoro l’altro”.

Michela ha osato infrangere il muro dell’omertà e per questo è stata punita. Isolata e abbandonata dalla famiglia, minacciata in modo orribile, snaturato, dalla madre: “Spero a Dio che lo stesso dolore tu hai da provare, i figli t’hanno ad ammazzare”.

“La madre che augura alla figlia che le ammazzino i figli. Piuttosto che chiedere giustizia per i suoi due figli”.

Michela, donna ribelle. “Ribelle alla povertà, alla società maschile, alla società mafiosa, alla violenza di Cosa Nostra, alla società dei pregiudizi onesti”.

Sono la sorella di Nicola Atria

“Hanno ammazzato Borsellino. Un’ora fa. Una scena libanese. Un’autobomba. Tutti i palazzi intorno danneggiati. Cinque agenti di scorta annientati dall’esplosione. No, non sotto casa sua. Sotto casa di sua madre (…). Verso la metà del pomeriggio di domenica 19 luglio del 1992 questa notizia rimbalzò su migliaia e migliaia di utenze”.

Due mesi prima la mafia aveva ucciso il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Un inferno. Esplose un tratto dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi portava a Palermo. Un lutto che poteva impietrire, costringere al silenzio. E invece no. Una strage, questa di Capaci, che scosse le coscienze del mondo intero. E Paolo Borsellino, amico e collaboratore del giudice ammazzato, era diventato ancora più un punto di riferimento.

“(…) Borsellino era la speranza che il lavoro di Falcone non sarebbe finito, non sarebbe stato spezzato dal tritolo mafioso. (…) Il 19 luglio giunse per telefono la notizia temuta e annunciata: hanno ammazzato Borsellino. (…) La città si interrogava sul suo destino. Angosciata e insieme combattiva. ..Pensando a come sarebbe stata la propria vita senza il giudice. Una persona più di tutte lo pensava. Giovane, fragile, che portava sulla pelle e soprattutto nella memoria e nelle pieghe più profonde dell’animo il peso della storia dell’isola. Si chiamava Rita. Rita Atria. Andava su e giù in un piccolo appartamento romano, due stanze e servizi, ottenuto da pochissimi giorni con l’aiuto dell’Alto commissariato antimafia. (…) Tutto era cominciato l’autunno precedente quando Rita, fiaccata dalla violenza mafiosa, aveva deciso di rompere per sempre il cerchio dell’omertà. Di ribellarsi alla mafia. Non sull’onda di qualche corso di educazione civica seguito nella sua scuola. Ma per amore. Per amore del fratello Nicola, mafioso ucciso dai mafiosi, che già le avevano ucciso il padre, don Vito Atria, mafioso pure lui”.

Rita aveva solo diciassette anni. La sua scelta costa. E’ ovvio. La madre la allontana considerandola un’infame. A Rita, protetta dall’Alto Commissariato, non restavano che le istituzioni. Il giudice Borsellino era il suo vero punto di riferimento.

“(…) Ma il 19 luglio giunse, tremenda, insopportabile, la notizia. Un fulmine atteso, temuto. Avevano ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta. Rita vide crollare il nuovo mondo ‘fatto di cose semplici’ che aveva appena fatto in tempo a respirare grazie a quel giudice dai baffetti gentili (…) D’improvviso si sentì sola. (…). Sette giorni dopo la strage di via D’Amelio, Rita si affacciò sul terrazzo (…) Si gettò dal settimo piano”.

Nella sua città, Partanna, non c’era segno di lutto. Al suo funerale tante donne, ragazze, signore, vedute da tutta la Sicilia. Una donna, però, mancava: sua madre.

Sono la sorella di Paolo Borsellino

“(…) A Palermo un’altra Rita, molto più adulta di lei, si apprestava intanto ad uscire per sempre dalla sua vita privata. E a iniziare una nuova tappa nella grande lotta di liberazione delle donne siciliane dalla mafia. Era la sorella del giudice dai baffetti gentili. (…) Seppe dalla televisione che suo fratello non c’era più. E sentì che le era stato sottratto un pezzo di mondo”.

“(…) Rita ci pensò. Sentì il dovere di uscire dal suo guscio, di continuare l’impegno di Paolo. (…) Finiva la farmacista Rita Borsellino. Iniziava la Rita Borsellino testimone civile”.

Incontri, racconti, dibattiti. Diventa il simbolo del coraggio, della protesta civile, dello sdegno contro la mafia. Il vessillo della legalità. Ormai non era solo una testimone. Stava diventando una leader civile. Fino a quella che sembrava tra tutte le idee la “più eretica”: candidata alla Presidenza della Regione.

“(…) Circa un decennio dopo si riproponeva la stessa utopia sorta all’inizio degli anni Novanta: portare in politica, dentro le istituzioni, lo slancio dei movimenti antimafia. (…) La sua candidatura contro quella di Totò Cuffaro, così si chiamava il signore cattolicissimo e rinviato per favoreggiamento aggravato di Cosa Nostra. Una missione impossibile. (…) L’Italia intera dell’antimafia e della lotta per la legalità fece il tifo per lei, mentre Cuffaro, puntando diritto sulle radici pirandelliane dell’isola,copriva i muri delle città con manifesti che accusavano: ‘La mafia fa schifo’. (…) Vinse Cuffaro”.

“Rita non si perse d’animo. Disse subito: ‘un’altra storia è già cominciata’(…) ‘Voglio una Sicilia non depressa e che si sappia scandalizzare. Che sappia guardare e costruire il futuro’. Si insediò a Palazzo dei Normanni…da dove guida ora l’opposizione(…). Oggi una donna promette alla Sicilia di Francesca Serio, di Felicia Impastato, di Michela Buscemi, di Rita Atria e di tante altre donne, un futuro diverso. Quel mondo del sentimento che si fa grido, urlo, della sofferenza senza scampo, sempre sospeso tra Eschilo e Dostoevskij, che ha prodotto storia scavando con le mani nei decenni, ora si è fatto politica, istituzione, attraverso una “sua” donna. Ribelle come le altre, come loro. Ribelle dopo loro.Un cammino grandioso, costellato di tante “prime volte”. Che nessuno avrebbe potuto progettare”.

Nando Dalla Chiesa - Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore Melampo Editore € 12,00


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