Le dimissioni di Veltroni e le primarie

Veltroni ricordava spesso i tre milioni e mezzo di elettori che l’avevano votato, ma era, a mio avviso, un suo modo di darsi coraggio in mezzo alle continue risse e alle contestazioni che non riusciva a dominare.

di Antonio Carollo - martedì 24 febbraio 2009 - 1832 letture

Un leader, a mio parere, deve avere idee e forza per imporle. Veltroni aveva le prime ma non la seconda. La forza deriva da un’investitura popolare non drogata. Quella del 14 ottobre è stata una parvenza di primarie; infatti il leader eletto non è riuscito a liberarsi dalle logiche, dai tatticismi, dai giochi egoistici dei notabili e dei capi corrente in quanto debitore della sua elezione proprio a questi signori. Ciò che è accaduto con quelle primarie è la quintessenza del vecchio modo di fare politica Oggi mi sembra che non ci sia nulla di più antidemocratico dell’accordo stretto tra organi dirigenti di un partito su una candidatura che, vuoi o non vuoi, è destinata a rappresentarli. La segreteria di Veltroni in qualche modo risentiva di questa debolezza d’origine e, per converso, della forza rimasta intatta in capo a questi signori delle tessere. Le primarie ipotecate o condizionate dal peso delle clientele politiche dei vari maggiorenti di partito sono semplicemente una rappresentazione farisaica nei confronti degli iscritti e dei simpatizzanti. Veltroni ricordava spesso i tre milioni e mezzo di elettori che l’avevano votato, ma era, a mio avviso, un suo modo di darsi coraggio in mezzo alle continue risse e alle contestazioni che non riusciva a dominare. Le nomenclature ammazzano i partiti. Un candidato leader alle primarie deve presentarsi con la sua faccia e col suo programma; deve sottoporsi alla prova di una campagna elettorale a diretto contatto con gli elettori, recependo i loro umori e i loro bisogni, senza esclusione di colpi nei riguardi degli avversari Solo da una battaglia politica giocata dal basso può emergere un giovane, o meno giovane, leader capace di tenere in pugno il partito. Qualcosa di simile è già successo (in piccolo) alle primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, con Matteo Renzi. In questo modo si costruisce l’autorità del leader; si crea un rapporto nuovo e reale con la popolazione; scompaiono le influenze dei notabili, deleterie per l’unità e l’immagine del partito; tutti sono chiamati a collaborare col capo. Il centrosinistra oggi è nel caos anche perché non ha capito di dover dare questa svolta nel rapporto partito-elettorato. Oggi l’interlocutore del cittadino è il leader; il rapporto è diretto e univoco. Guardate cosa succede nella Lega, nel Pdl, nell’Udc, nell’Idv: il partito non è che una macchina organizzativa azionata da stretti collaboratori del leader. Negli States è così. Il successo viene col necessario collegamento con la società civile. Non sono da snobbare neanche le moderne tecniche del marketing. Nella sinistra tutto questo viene bocciato come cesarismo. Noi apparteniamo a una cultura democratica diversa, si dice; il pluralismo, sale della democrazia, è una ricchezza e va salvaguardato. Non si vuol capire che il pluralismo delle opinioni e delle proposte non viene cancellato ma trasferito al dibattito della base del partito e sotto gli occhi della cittadinanza, sia in un primo momento nella campagna delle primarie che poi quotidianamente (per così dire) nel dialogo con i cittadini. E’ un taglio netto alle vecchie pratiche e ai riti consunti della ormai veneranda e impresentabile partitocrazia, che, tra parentesi, ha portato l’Italia all’attuale disastro, chiaramente superata anche dall’orientamento politico-legislativo del nostro ordinamento, fatta salva l’antistorica e antidemocratica soppressione delle preferenze in alcune elezioni.. Inutile dire che non condivido nulla della prassi scelta nell’odierna crisi del Pd. Un leader sconfitto in elezioni importanti deve mettere a disposizione il suo mandato, d’accordo; però le sue eventuali dimissioni vanno presentate correttamente a chi lo ha eletto, cioè, con una sua urgente convocazione, al popolo delle primarie, a cui, tra l’altro, si dà voce a caldo per un largo e proficuo dibattito sulle cause della sconfitta e per l’elezione del nuovo segretario (o la rielezione del dimissionario) e dei nuovi dirigenti-collaboratori a livello nazionale. Invece sta avvenendo il contrario: i soliti maggiorenti accettano le dimissioni e nominano il sostituto; a ottobre si celebrerà il congresso e si eleggerà il segretario. Spazio immenso per manovre e manovrette e per la felicità di chi non molla mai il suo spicchio di potere. Il tutto mille miglia lontano dalla comprensione e dal coinvolgimento degli iscritti, dei simpatizzanti, degli elettori e dell’opinione pubblica.


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