La morte del sole, 42 anni fa a Lentini
42 anni fa, la presentazione a Lentini de "La morte del sole", di Manlio Sgalambro. C’erano Massimo Cacciari, Sebastiano Addamo, Fino Giuliano, Pietro Barcellona...
Quando si ricordano anniversari per certi filosofi che sono vissuti appartati ed hanno schivato volutamente il proscenio (o vi hanno flirtato solo come peccato di vecchiaia), ci si dovrebbe incuriosire. Altrettanto si dovrebbe fare per un maestro del sospetto quale fu Sgalambro, di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla nascita, i dieci dalla morte e quarantadue dalla presentazione del capolavoro seminale, La morte del sole.
L’ultimo libro di Manlio Sgalambro, Variazioni e capricci morali (Milano, Bompiani 2013) fu presentato al pubblico a dicembre, pochi mesi prima di quel 6 marzo 2014 quando il filosofo morì.
In quelle pagine conclusive si legge un aforisma che suona: “«Socievole», lo considerava il peggior giudizio che si poteva dare su di lui”.
Frase bruciante, tipica di un uomo che ricercava l’ironia caustica e tagliente, perfino respingente – anche durante la presentazione di un suo libro; ancora di più se quel libro era (come dicevo, il Primo Settembre del 1982) il primo saggio, appunto La morte del sole, pubblicato dalla Adelphi e discusso quel mercoledì estivo a Lentini.
A parlare del volume dinanzi a centinaia di persone in un auditorium scolastico gremito furono in tanti: lo scrittore Sebastiano Addamo; Filadelfo Giuliano, insegnante e organizzatore dell’evento insieme a Luigi Boggio e Riccardo Insolia; il giurista Pietro Barcellona; Massimo Cacciari, il filosofo che aveva con grande intelligenza e lungimiranza imposto alla redazione di Adelphi la pubblicazione di quel libro così fuori dal “sentire comune” della filosofia di quegli anni, impegnata nel cambio di paradigma del “pensiero debole”. Anche il sensale Bruno Ossino, un mediatore commerciale d’arance appassionato lettore di Nietzsche (che non fu certo autore di gialli da ombrellone!) fece un suo inatteso ma preciso intervento che piacque molto a Cacciari.
Molti altri intervennero: Sgalambro non disse una parola.
- Copertina de La morte del sole, di Manlio Sgalambro, 1982
“Sarà stato il caldo…”, pensò qualcuno. All’inizio di quell’ultimo libro del 2013 c’è un Prologo all’inferno che dà una spiegazione molto più corretta: “Veniva l’estate. Ne aveva qualche ripugnanza. Il caldo afoso, ispido, gli impediva il respiro. Ma la sua ripugnanza era più di una sofferenza fisica. Gli sembrava che significasse qualcosa di più diabolico. Anche gli amanti subivano un rallentamento della loro passione, ma subentrava un elemento che li faceva entrare in un’altra. In quel felice momento in cui si possono avere unioni di altro genere. In cui può avvenire lo scontro, anche il litigio. Intanto il mare con la sua calma induceva al sospetto. Mi vergogno, disse lui. (Scoprivo, con meraviglia, che non sapevo più scrivere.) Era un momento in cui persino pensare gli ripugnava. Ne vedeva piuttosto la leziosità e si insospettiva. Era di questo che si era vantato con se stesso? Mi trovai un giorno in vista di un mare ampio e ondoso. Acque esatte impregnate di passaggi marini. Nella luce più fitta, uccelli di mare sconfiggevano la solitudine e il dolore. Le onde erano altissime ma per strano che possa sembrare io apparivo a me stesso ancora più grande, anzi immenso. E volevo capire che senso mai potesse avere tutto questo. Quanto a me, ora mi sentivo più potente di esse, ora invece mi sembrava che avessero le dimensioni di uno sputo e non c’era molto altro da dire. C’era confusione nella mia testa. E tutto questo mi sembrava strano. Come mi chiamavo, mi chiedevo? Come mi chiamavo veramente? C’era attorno a me gente che sghignazzava. Ero all’inferno o in un lurido caffè pieno di puttane che si aggiravano facendo segni sconci con la lingua. E mi sorprese all’improvviso l’essere nato… A questo punto mi svegliai”.
E se l’irriverente Sgalambro avrà di certo ascoltato (avrà messo un gettone nel juke-box?) nell’estate del 1960 verso i suoi trentasei anni le parole di Bruno Brighetti messe in musica da Bruno Martino (Odio l’estate/ che ha dato il suo profumo ad ogni fiore/ l’estate che ha creato il nostro amore/ per farmi poi morire di dolor), nel 1971 avrà riso di gusto ascoltando le parole di Fetus (Non ero ancora nato/ che già sentivo il cuore/ che la mia vita/ nasceva senza amore//Mi trascinavo adagio/ dentro il corpo umano/ giù per le vene/ verso il mio destino) di Franco Battiato, con cui avrebbe decenni dopo formato uno dei più importanti sodalizi musicali della canzone d’autore nella fine del millennio?
In quel suo La morte del sole, dove rifletteva sul destino dell’Occidente (la terra del tramonto, non a caso), il filosofo lentinese scrisse – citando Benedetto Croce –: “Il concetto di decadenza si accompagna alla luce tutta spiegata che proviene da quel piccolo punto che solo può assicurarla, la ragione. La decadenza, o il sentimento che tutto è compiuto, si accompagna alla ragione, come potè testimoniare Hegel. Il concetto di decadenza, che si fissa con orrore, affidando allo spirito di scongiurarlo come in un atto di soggiogamento nello stesso disporsi al suo esame, irride a ogni «creazione» come ingenua e infantile e di ogni individuale agire non sopporta il ‘male’ che arreca. Ma ogni qual volta si entra in un’epoca in cui il rimorso per ciò che avviene sembra impietrirla, e l’urto dell’immensità del male scuotere la conoscenza dal letargo privo di incanti a cui la vita quotidiana costringe; ogni volta che tutto ormai è chiaro e una quiete immobile e terribile subentra, non la quiete del punto archimedico fuori del mondo ma quella minacciosa e giudice dell’uomo che la trova in sé, i ‘barbari’ salvano la civiltà morente. Sempre coloro che hanno voluto salvarla hanno dovuto prima istupidire. La volontà erompe daccapo da sorgenti inesauste, la forza, l’impeto, e l’oblio del male; quest’ultimo non manca mai nelle epoche vitali, in ascesa, al loro massimo splendore. «Offre riprova del più maturo senso storico che si è acquistato negli ultimi secoli la restrizione sempre maggiore nel racconto dei mali e degli orrori». L’oblio del male è la caratteristica di quella civiltà che l’ha nominato. Si plaude dunque all’energia che ci fa risalire dall’abisso; ma perché essa sia buona, e se lo sia, tutto questo già suppone il male della guarigione che essi chiamano la guarigione dal male” (Quinta parte, paragrafo 28).
Sebastiano Addamo, il concittadino scrittore praticamente suo coetaneo (Sgalambro era nato il 9 dicembre del 1924, Addamo il 18 febbraio del 1925) scrisse un’arguta breve recensione sulla rivista “Ripresa economica”, diretta da Guglielmo Tocco, e ribadì: “Intanto non è strano che un libro di negazioni senza scampo, un libro intelligente, paradossale, patetico e disperato sia stato pensato in Sicilia. Un libro, fra l’altro, tradotto in uno stile inusitato (le scritture filosofiche sono spesso solenni e mollicce) e suggestivo, perentorio da rasentare il dommatismo o il dispregio. Una Sicilia lontana dalla storia e piena di proconsoli. Da qui le cose si avvertono meglio, senza nemmeno il velo ingannevole e multiplo della prassi che fra l’altro in Sicilia spara a lupara. Non è proprio strano che da questo estremo lembo d’Europa venga denunciato il pensiero occidentale e la storia che da tempo – come una cultura per virus – è stata il suo terreno”.
Fino Giuliano, con un taglio diverso scrisse anch’egli sulle colonne di “Ripresa economica”, tratteggiando l’isolamento di Sgalambro: “Questi scarni dati biografici accomunano Sgalambro ai «casi» Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Comune a costoro e ad altri intellettuali siciliani è lo stesso destino, che è anche condizione storica ed esistenziale, di isolamento che trae origine dall’«esasperato e tragico eden» di una regione dove il far cultura ha sempre avuto il senso dell’avventura solitaria, mai il confronto e l’operare comuni. Sgalambro, un «clerc che ha letto tous livres nella solitudine» ci consegna un libro dove anche il lettore dissenziente è «costretto», suo malgrado, ad interrogarsi e a mettere in discussione certezze che, alla fine, possono anche non essere tali”.
Ed era di pochi mesi prima l’altro “caso” eclatante, quello di Gesualdo Bufalino che a 61 anni aveva pubblicato Diceria dell’untore. Sgalambro con la sua Morte del sole esce a 58, e non certo per vanità mondana o velleità di cambiare il mondo.
Pietro Barcellona, giurista e docente, descrisse durante il convegno Sgalambro e la sua opera come quella di un osservatore disincantato delle contraddizioni della politica e della società.
Massimo Cacciari, che pubblicò il terzo e più denso articolo di quella pagina di “Ripresa economica” dedicata alla presentazione del saggio del filosofo, argomentò: “Un libro duramente inattuale, privo di «compassione» verso se stesso così come verso il lettore, estraneo, per citare Rilke, alla «madre consolatrice». In quest’epoca della «modificazione» totale, di «pensieri deboli», di impressionismi tardivi, di nihilismi spiccioli, di saggistiche pigrizie, questo libro affronta gli «inciampi», il problema, da sempre, della riflessione filosofica «monumentale», ed ha la forza di farlo non con il sapere disciplinarmente reificato dell’erudito, con quel sapere che Rosenzweig chiamava «Erkennen» ma in presa diretta proprio con l’immagine di quest’epoca, della sua Geldkultur, della sua filosofia del denaro, dello scambio, dell’universale equivalenza. Una vastissima conoscenza filosofica sorregge lo sguardo disincantato e spietato sulla nostra cultura estetica, domina in ogni campo dalle categorie dell’utile, della meditazione dell’economico. Il libro di Sgalambo si colloca, anzi, in quel filone del pensiero contemporaneo, appartato, sempre outsider, ma capace davvero di pensieri perfetti, che potremmo definire critica della cultura estetica. […] Perché, allora, l’interesse di tanti – e provenienti da ambiti culturali addirittura opposti – per questo libro? Forse, proprio per l’evidente esaurirsi di tali ambiti, per l’evidenza, ormai, di ciò che Sgalambro ricorda: la loro appartenenza alla decadenza per il rifiuto che ormai provoca il trombettismo domenicale delle «filosofie» peggiori: quelle che «modificano» il mondo. Forse perché tutti sentiamo la necessità di una interrogazione radicale sul nostro linguaggio, sulle nostre tradizioni, sui nostri «valori». A questo lettore, davvero al di là del vecchio bene e del vecchio male, delle decrepite sette, si rivolge – senza né volerlo, né cercarlo (il filosofo, infatti, egli dice, non è il maestro della ricerca, ma della risposta) – il libro di Sgalambro”.
Cacciari avrà avuto in mente quel saggio incompiuto e postumo di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, uscito nel 1977 ed anch’esso tormentatamente dedicato alla riflessione sulla corrosione del pensiero occidentale, mentre parlava per Sgalambro di critica della cultura estetica?
Il filosofo lentinese gli risponde ancora con la sua scontrosità insocievole, nella Terza Parte della Morte del sole: “La decadenza della compassione a puro intimismo, sostituito a sua volta dall’attivo intervento, mostra l’isolamento dell’individuo al suo grado massimo. La dura scorza della vita fa da isolante e nemmeno più oppone gli individui fra loro regolati ormai da un ordine che ne disciplina i movimenti, in perfetta sincronia, senza che nessuno sia più veramente in rapporto. Il decadimento della compassione mostra radicalmente tutto ciò. Sentire all’unisono non è più il risultato di un atto che si apre alla vita estranea ma è attuato senza sforzo da mass media e slogan politici. Allo stesso modo, isolante è l’agire che si è sostituito alla compassione. Anzitutto l’agire si è specializzato; il medico cura l’individuo, l’avvocato gli assicura giustizia, ma in questo attivo intervento nessuno si incontra. Guarito dai suoi mali, l’individuo percorre da solo il suo deserto in attesa di una parola di pena per la sua sorte. Ma, nell’atto di guarirlo, tutto è finito; avanti un altro. Nella inutile compassione che non guarisce e non aiuta, che lascia l’individuo com’è, si sente però che la propria vita è per l’altro un tutto e che vi è compresa la fine che tosto sopravverrà. Perché questo soprattutto si attende dalla compassione, non un viatico per la vita. Chi vuole cambiare l’altro lo perderà”.
Ecco la temperatura di quel che nella calda estate di 42 anni fa si sarebbe potuto ascoltare, quando Manlio Sgalambro tornava sui suoi passi di bambino e adolescente. Di questo triplice anniversario si parlerà nuovamente a Lentini il prossimo ottobre.
Vi torna la mente anche oggi, perché “Un pensiero va contemplato, non letto. Solo così esso ci elegge”, si trova ancora in quelle pagine della Morte del sole.
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