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La letteratura corteggia le metafore della matematica / di Paolo Marocco

Thomas Pynchon, David Foster Wallace, Houellebecq, Eric Rohmer, Hans Magnus Enzensberger. - Fonte: il Manifesto, 20 maggio 2005, p. 14.
di Redazione Antenati - domenica 22 maggio 2005 - 7361 letture

Romanzi di Thomas Pynchon, di David Foster Wallace e di Houellebecq che guardano al calcolo e al concetto di errore. C’è ma non si vede. Per la coscienza umanistica il sapere scientifico sembra trovarsi nella posizione della lettera rubata di Poe, bene in vista dove nessuno andrebbe mai a cercarla

PAOLO MAROCCO

In un film di Eric Rohmer, La mia notte con Maud, il protagonista, un ingegnere interpretato da Jean Louis Trintignant, trascorre una notte trincerato in una posizione morale che rifiuta i reiterati approcci della sensuale e ostinata Maud. I motivi di tanto ascetico rigore sono stati spiegati qualche scena prima, durante l’incontro tra l’ingegnere cattolico e un suo vecchio amico di liceo, il marxista Vidal. L’argomento dell’incontro è stato una discussione sul problema pascaliano della scommessa, secondo cui una scelta con bassa probabilità di vittoria è preferibile a una complementare e meno rischiosa, quando la posta in gioco è infinita. Il concetto ha maglie larghe, essendo applicabile alla salvezza eterna come alla Rivoluzione d’ottobre, a seconda delle interpretazioni, ma i due personaggi, nello sviluppo successivo, preferiranno riprodurlo nell’ambito più ordinario del corteggiamento. Il film, da cui Rohmer ha tratto anche un racconto che dà il titolo alla raccolta La mia notte con Maud (Einaudi 1988, 229 p., 14,50 euro) è un ottimo esempio di utilizzo della matematica non soltanto tematico, ma dispiegato nell’intreccio della storia e nella caratterizzazione del personaggi, senza intrappolare l’una e gli altri in un rigido modello astratto. Il fantasma di Pascal, uno dei padri del moderno calcolo delle probabilità, nonché enunciatore dell’equilibrio tra Esprit de géométrie e Esprit de finesse, viene calato dolcemente sul testo. Rohmer può essere visto come un erede sia della matematizzazione seicentesca del mondo sia dell’Illuminismo scientista settecentesco. Le sue trascrizioni della contemporaneità attraverso modelli del passato, si rivolgono in questo caso a un’epoca anteriore alla scissione tra il pensiero umanistico e quello scientifico, precedente al Big Bang del diciannovesimo secolo, quando una specializzazione dei diversi ambiti disciplinari e una tendenza al riduzionismo da parte di molti scienziati, creò la fatale separazione. Sebbene qualche indizio dell’antica alleanza fosse sopravissuto anche nel romanticismo, e nonostante autori come Musil e Joyce avessero adottato schemi e idee provenienti dal panorama scientifico, l’accoppiamento tra lettere e scienza sarebbe rimasto un fenomeno inusuale. Questa tendenza è rimasta inalterata. Oggi assistiamo a una presenza sempre più diffusa della matematica nelle attività teoriche e pratiche dell’uomo, ma per la coscienza umanistica il sapere scientifico sembra trovarsi nella posizione della lettera rubata di Poe, nel posto più in vista dove nessuno andrebbe mai a cercarla.

Pronti finalmente a gettare un po’ di benzina sulle ceneri di quest’irrisolta equazione, sono recentemente intervenuti due autori, Enzensberger e Odifreddi, con due pamphlet che rispecchiano un’ottica per certi versi complementare. Hans Magnus Enzensberger in Gli elisir della scienza (Einaudi, 2004) dedica alcuni saggi e poesie alla necessità attuale di una ri-congiunzione tra scienza e poesia, chiedendosi se esista una soluzione all’«enigma» che ha estromesso la matematica dalla civiltà delle lettere, e, in mancanza di risposte, si consegna nelle mani dei pochi pionieri che remano controcorrente. Un germe di cambiamento viene individuato nell’acculturazione dei lettori riguardo a temi scientifici grazie alla crescita, in Germania come in tutta Europa, di editoria e convegni specializzati, in particolare in fisica e matematica. Senza dubbio uno tra coloro che hanno più dato una mano in questo senso è Piergiorgio Odifreddi, autore del recentissimo Penna, pennello e bacchetta. Le tre invidie del matematico (Laterza, 2005). Mentre Enzensberger si preoccupa di segnalare il disinteresse dei letterati per la matematica, Odifreddi sembra concentrato a rivendicare le possibilità di convivenza delle due discipline. La sua è un’utile e ricca casistica di testi letterari che manipolano strutture matematiche applicate a operazioni sintattiche e semantiche (combinazioni, algebre elementari, grafi e racconti nidificati, e così via). La biblioteca da cui attinge è quella del fulgido passato degli schemi al cui interno fiorivano sestine e sonetti, e quella degli autori che hanno scoperto nella matematica delle precise regole creative linguistico-letterarie, in testa il gruppo dell’Oulipo, a cui aggiunge altri scrittori di dichiarato interesse per un’organizzazione formale del racconto, come Julio Cortázar e Italo Calvino.

I due percorsi, quello di Enzensberger e quello di Odifreddi, non sono simmetricamente opposti: nel primo caso viene formulata un’invettiva contro colui che lo scrittore tedesco chiama «idiot lettré», fiero del suo stato d’ignoranza, mentre nel secondo Odifreddi presta la sua attenzione alle opere e non agli uomini, assunte come una statica testimonianza di un sapere collettivo non così drammaticamente separatista. Per il colto e smaliziato scrittore tedesco, che conosce bene l’elenco proposto in Penna, pennello e bacchetta, libri come Gli esercizi di stile di Raymond Queneau o La vita. Istruzioni per l’uso di George Perec non sono stati indubbiamente sufficienti per una svolta. Accolti come un fenomeno curioso e bizzarro, nel migliore dei casi una sorta di settimana enigmistica portata alle vette dell’arte letteraria, hanno assunto un po’ la funzione di un abito fuori moda, i cui strascichi, finiti nelle mani di sistemi per la generazione automatica dei testi, non sarebbero sopravvissuti al talento dei padri. Il giudizio di Enzensberger è di carattere ideologico. L’imputato in questo caso si identifica con un utilizzo meno intensivo ma più sotterraneamente incisivo della matematica, incorniciabile nella risposta che Samuel Coleridge, citato dallo stesso Enzensberger, diede a un amico che gli chiedeva perché seguisse le lezioni di chimica: «Per arricchire la mia riserva di metafore». La metafora, dunque, è vista come osmosi tra le due forme di pensiero, con cui definire un’economia dei concetti e delle idee, un’analisi storica dei conflitti sociali o più semplicemente (ma non riduttivamente) una geometrizzazione delle passioni, come quelle messe in scena da Rohmer in La mia notte con Maud, o da suoi predecessori più autorevoli come Stendhal in Dell’amore. È evidente la portata di senso che va sempre più assumendo la metafora scientifica. Chiamando in cattedra uno dei più autorevoli matematici del secolo scorso, Thomas Hardy, Enzensberger scrive: «D’altra parte, cosa sarebbe la scienza senza le sue metafore?». Il suo ampio spettro resta probabilmente l’invariante che attraversa coscienze e mode, la radiazione di fondo che certifica sì la presenza di un Big Bang iniziale della separazione delle discipline, ma continua a conservarlo sotterraneamente e diffusamente in tutto ciò che ci circonda.

Il commiato di Enzensberger, la speranza che si stia voltando pagina verso un nuovo corso, pare avere acquisito una qualche risonanza nella letteratura degli ultimi anni. Tre opere recenti sembrano svolgere una funzione particolarmente rappresentativa di partizioni matematiche applicate alla prospettiva temporale degli eventi narrati (rispettivamente: passato, presente e futuro), e al concetto di errore: Mason & Dixon di Thomas Pynchon (Rizzoli 1998) Tennis, TV, trigonometria, tornado... di David Foster Wallace (Minimum Fax 1999) e Le particelle elementari di Michael Houellebecq (Bompiani 2000). In Mason & Dixon, i due protagonisti sono un astronomo e un topografo incaricati di tracciare una linea di confine nelle nuove terre americane della seconda metà del diciottesimo secolo. Lo scarto tra il confine geografico-politico, che ambisce alla linearità come forma assoluta di perfezione e accordo tra le parti, e quello naturale, che sembra impegnarsi in tutti i modi per contrastare la fluidità della retta, diventa uno strumento di riflessione sulla possibilità e la verità della misurazione. Nel settecento si sviluppò un’accesa competizione per calcolare i valori più precisi delle distanze sulla Terra e nell’universo. Vennero intraprese diverse spedizioni per stimare la longitudine in ambienti carenti di sistemi di riferimento, come il mare aperto, e missioni scientifiche per studiare il transito di Venere, allora ritenuto l’evento più importante per misurare l’unità astronomica (un avvincente libro sulla storia delle scoperte dei numeri dell’universo è quello di Simon Singh, Big Bang, Rizzoli 2004).

A una di queste missioni parteciparono proprio gli scienziati Charles Mason e Jeremiha Dixon, raggiungendo il Capo di Buona Speranza. Queste immagini, coerenti con la conoscenza dei due protagonisti, assumono oggi un volto nuovo. Negli anni settanta Benoit Mandelbrot, il grande studioso della la teoria dei frattali, riportò l’esempio della misurazione delle coste inglesi, dove metodi differenti segnavano disparità del 20%, denunciando così il valore relativo di ogni misura morfologica. In altre parole, è solo il grado di approssimazione che attesta la verità, più questo è dettagliato più la lunghezza di un confine frastagliato può tendere all’infinito, facendo paradossalmente crollare ogni esigenza di misura. Il confronto tra il sapere dello scrittore, quello oggettivizzabile nel pensiero dei due scienziati realmente vissuti e quello dei personaggi del racconto descrive la contingenza e l’indispensabilità del progetto, che si inscrive nelle illusioni necessarie.

L’uso di metafore matematiche è anche un ingrediente di cui fa reiateratamente uso la scrittura di David Foster Wallace, che di recente ha dedicato un intero saggio alla matematica dell’infinito (ne parliamo nella scheda in alto). Le preferenze di Wallace si orientano verso una rappresentazione dello spazio in maniera più ordinaria e immediata di quanto non avvenga nell’esempio precedente: la complessità è trasferita direttamente alle figure ideali di una quotidianità che le nasconde nel troppo piccolo e nel troppo grande, come nel troppo veloce e nel troppo lento. È per far emergere questa matematica sommersa che l’uso ossessivo del dettaglio, cifra stilistica dello scrittore, diventa necessario. Il titolo di un brano di Tennis, TV, trigonometria, tornado è emblematico: «L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano.» Il tennis viene assunto come luogo della geometria perfetta in accordo con la configurazione mentale dell’uomo: saper giocare bene significa avere inscritta nei propri neuroni quella giusta e difficile equazione che coordina tutti i movimenti (Wallace ne azzarda pure una). Il nemico è tutto il mondo curvilineo dell’imprevedibilità, da una rotazione eccessivamente rapida per le capacità di calcolo del giocatore a un capriccio atmosferico, ossia una funzione con troppi e troppo mutevoli parametri per poter essere prevista mentalmente. La critica all’errore, visto nella sua semplicità dinamica di fallimento rispetto al gesto perfetto, irradia in tutta la gioia, la liberta e la completezza del giocatore. Lo sport assume sia un valore retorico di palestra della vita, sia uno simbolico di formalizzazione di uno spazio vitale.

Un romanzo che ruota anch’esso attorno al calcolo degli errori - ma in una prospettiva completamente differente, che va dalla biochimica all’inseguimento di una conoscenza puramente teorica, alla topologia, al segreto miniaturizzato nella bellezza del capolavoro dell’arte celtica - è quello scritto da Houellebecq con il titolo Le particelle elementari. Utilizzando il riferimento temporale del punto di vista narrante, ambientato nel futuro, in un futuro fino alle ultime pagine insospettabile, viene annunciata la scoperta della replicazione perfetta. Ossia quella riproduzione del codice genetico senza nessun errore di copiatura, che avrebbe condotto alla nascita dell’uomo nuovo, assessuato e immortale, che è poi la figura narrante di tutto il romanzo. Le ultime pagine descrivono un’umanità alle prese con una perfezione un po’ ingombrante, che annovera bizzarri criteri come il numero delle nascite inderogabilmente associato alla sequenza dei numeri primi, ma tutto sommato felice di essersi lasciata alle spalle la baraonda confusa e pessimistica della disomogeneità.

L’aspetto interessante della mutazione descritta da Houellebecq è la sua differenza rispetto al concetto di clonazione, così come siamo abituati a considerarlo oggi. Quest’ultimo viene ottenuto con tecnologie che tentano di imitare la natura senza saperla descrivere affatto (ad esempio mediante una modellizzazione matematica dell’embrione cellulare), mentre l’uomo nuovo del romanzo nasce da un cambiamento interiore del meccanismo genetico, perfettamente descritto da una legge, anche se in una prospettiva anti-evoluzionista. La correzione matematica dell’errore trova una precisa corrispondenza nella dimensione ideologica di una eugenetica matematicamente consistente sebbene piuttosto delirante, rielaborazione di una New-Age contaminata con tristi memorie.


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