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La guerra degli Usa, parte II

Un articolo di Roberto Zavaglia. Il numero dei soldati Usa morti in Iraq si avvicina velocemente ai tremila, mentre i feriti sono 45mila...

di pietro g. serra - mercoledì 15 novembre 2006 - 3723 letture

Con la sua gaffe di lunedì scorso, davanti ha una platea di studenti universitari californiani, John Kerry ha, involontariamente, proclamato una verità. Il senatore sconfitto da Bush alle ultime presidenziali voleva fare dello spirito sull’uomo che lo ha battuto, invitando gli universitari a impegnarsi nello studio per non finire “incastrati in Iraq”. Tutti, però, hanno capito che Kerry ritenesse i soldati impiegati in Iraq dei dropout, degli emarginati i quali, non potendo accedere all’istruzione superiore e, di conseguenza, a occupazioni qualificate, si erano adattati a servire nell’esercito.

La provenienza sociale dei militari Usa giustifica il malinteso. A parte gli ufficiali superiori, i soldati appartengono ai settori svantaggiati della società dai quali è difficile fuoriuscire, nonostante il mito americano esalti la possibilità per chiunque di divenire ricco attraverso l’ingegno e l’operosità. All’indomani dell’11 settembre, in un momento di grande coinvolgimento emotivo, il 69% degli studenti di Harvard si dichiarò favorevole a una risposta militare, ma solo il 38% disponibile a prendervi parte. Oggi che la guerra in Iraq si dimostra molto più difficile del previsto, l’ “armiamoci e partite” raggiungerebbe, probabilmente, una quota ancora maggiore.

Essendo la guerra un affare riservato a qualche centinaia di migliaia di “volontari” di bassa condizione, si comprende come l’opinione pubblica statunitense sia meno turbata di quanto ci si aspetterebbe dalla situazione in Iraq che lo stesso Pentagono, in un documento segreto svelato dal “New York Times”, definisce sull’orlo del caos. Alle elezioni di mid-term del 7 novembre i cittadini voteranno avendo in mente l’Iraq, ma soprattutto altre questioni, forse decisive per l’esito della consultazione. Il noto giornalista Cristopher Hitchens ha confessato, sul “Corriere della Sera”, le sua difficoltà a spiegare a interlocutori stranieri le motivazioni degli elettori. In Virginia grande importanza sembra che rivestano gli stivaletti da cowboy calzati da uno dei due candidati, mentre l’ipotizzato cambiamento di nome della squadra dei “Washington Redskins” scatena un dibattito politico superiore a quello delle vicende di politica estera. Su “Repubblica” l’inviato Alberto Flores d’Arcais ha raccontato che nelle elezioni di uno Stato probabilmente decisivo come il Missouri, le problematiche riguardanti le cellule staminali e altri argomenti di carattere “morale” pesano maggiormente della guerra.

Il numero dei soldati Usa morti in Iraq si avvicina velocemente ai tremila, mentre i feriti sono 45mila. Si tratta di cifre che credevamo l’opinione pubblica degli Stati Uniti a stento avrebbe potuto sopportare. L’errore è stato raffrontare la guerra attuale a quella del Vietnam, dopo la quale il Pentagono, memore della “sconfitta interna”, badò bene ad impegnarsi solo in interventi armati con perdite quasi nulle, come fu l’attacco aereo contro la Iugoslavia. Inoltre, non avevamo sufficientemente riflettuto sui cambiamenti della conduzione della guerra, dal conflitto in Vietnam, combattuto da un esercito di coscritti, agli attuali eventi bellici gestiti in forma sempre più “privata”. Accanto ai soldati volontari morti, ci sono anche 643 contractors e 196 civili Usa caduti. In Iraq, il numero dei contractors, i nuovi mercenari per la maggioranza non statunitensi, è di circa 20.000 uomini, più o meno pari a quello di tutti i contingenti alleati agli Stati Uniti presenti nel Paese.

Alessandro Colombo, nel suo eccellente “La guerra ineguale” (il Mulino), ritiene che la definizione che dà il titolo al suo libro sia più appropriata di quella, usata solitamente, di guerra asimmetrica per gli attuali conflitti degli Usa. I combattimenti asimmetrici, con una enorme disparità di forze, non sono una novità, ma si sono già verificati, per esempio, nelle guerre coloniali. L’ineguaglianza delle guerre attuali risiede soprattutto nella diversa mobilitazione dei popoli. Il conflitto, infatti, avviene esclusivamente sul territorio del più debole, mentre in patria la potenza egemone non ne subisce contraccolpi. Uno studio di alcuni ricercatori dell’università John Hopkins di Boston rileva che i civili iracheni uccisi sono 655.000. Anche se la cifra dovesse essere un poco più bassa, si tratta di una carneficina che coinvolge e sconvolge l’intera società irachena, dalla quale nessun cittadino può sentirsene estraneo. L’Iraq, aggiungiamo noi, dimostra come le guerre ineguali siano combattute tra due Paesi di cui uno è investito da una condizione simile a quella delle due guerre mondiali, mentre l’altro subisce solo dei danni selettivi (i combattenti al fronte) senza vedere turbata la tranquillità del suo orizzonte domestico.

Uno scenario come quello descritto è preoccupante anche perché induce a pensare che gli Usa, nonostante le difficoltà attuali, possano in futuro intraprendere nuove guerre, non preoccupandosi troppo del consenso interno. Si tratta effettivamente di una conseguenza plausibile, ma non è la sola possibile. Non dobbiamo dimenticarci che gli Stati Uniti sono una società con un’opinione pubblica, nelle classi più acculturate, sensibile anche a danni non subiti direttamente. La sconfitta politica della guerra in Iraq e la constatazione che l’iperpotenza non garantisce sempre vittorie facili potrebbe indurre i futuri inquilini della Casa Bianca a una maggiore prudenza. Il problema è che a decidere della pace e della guerra nel mondo saranno, nei prossimi anni, solo gli statunitensi, sulla base dei loro interessi e delle loro paure.

Roberto Zavaglia


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La guerra degli Usa, parte II
18 novembre 2006

L’unica cosa che si può aggiungere al suo articolo è: Gli americani vorrebbero la resa completa di tutti gli irakeni..

Ma non capisco in che senso..

Forse vorrebbero che quella società dismettesse tutte le proprie conoscenze e tornasse all’uso di lance e frecce.. (dismettere l’uso dell’etica, degli abiti, a tante altre cosette...)

Insomma, un super fascismo soft, che non avrebbe ormai nessuna cassa di risonanza (in nessun senso), come avvenne invece per il 2° conflitto.

Ma ovviamente è colpa della destra, ovunque la trovi, è a favore di un pianeta simile a Marte, ben disabitato, ma privo di molti inestetismi.

S.P.