L’11 settembre di Matteo Salvini

Ieri sera ho chiacchierato personalmente con Matteo Salvini a me quasi sconosciuto. Eravamo soli dopo cena nello stesso albergo...

di Deborah A. Simoncini - sabato 14 settembre 2019 - 2623 letture

Ieri sera ho chiacchierato personalmente con Matteo Salvini a me quasi sconosciuto. Eravamo soli dopo cena nello stesso albergo. Io leggevo il giornale, lui faceva il solitario. All’improvviso si è bloccato con una carta in mano a mezz’aria. Lo sguardo era insieme perso e melanconico. Si è preso la testa tra le mani e incapace di trattenersi è scoppiato a singhiozzare in modo convulso. Sembrava indifeso o peggio imbranato.

Sono rimasta a osservarlo per qualche istante da lontano, poi mi sono avvicinata e gli ho chiesto cosa stesse pensando. Allora si è come destato. Mi ha rivolto un’occhiata desolata. Ho obbedito a un impulso naturale e mi sono seduta accanto a lui e ho preso a carezzargli la testa, senza dire niente. Presto si è calmato. I singhiozzi si sono fatti più radi. Quando ha abbassato le mani gli ho asciugato gli occhi e gli ho soffiato il naso. Sembrava in preda alla disperazione come gli avessero rotto il giocattolo o perché non lo avevano portato al giardino zoologico. Gli ho chiesto se si sentiva infelice e mi ha detto di sì. Gli ho chiesto il motivo e mi ha risposto che non lo sapeva. Gli ho detto: “Oh, qualcosa ci sarà. Non si piange per niente”. Ha cominciato a parlare con voce rotta, spinto da un bisogno improvviso: “Ho fatto cadere il governo perché provo la sensazione orribile che il tempo passi e che io non faccia niente, che niente accada e che niente mi tocchi davvero. Sento in me una grande riserva di energia e non so come impiegarla e che farmene (per questo andavo al Papeete e in pochi mi hanno capito). Non vorrei arrivare a cinquant’anni e avere il carattere del conte-zio, il suo equilibrio, semplicemente perché lo trovo piatto, logoro. Rassegnarmi a essere grigio? Lo trovo orribile. Non sono così e non voglio esserlo, né diventarlo… Guardi prima i porti e poi i treni che si riempiono e svuotano di genti ed etnie, costellazioni improbabili di cinesi, cingalesi, indiani, marocchini, nigeriani, senegalesi. Si presentano esausti in un combinato di determinazione e rassegnazione che solo gli immigrati possiedono. Da parte mia ho fatto di tutto per risolvere il problema delle immigrazioni in modo rigoroso e straordinariamente disciplinato. Riportarle all’ordine e alla ragione. Mi si rimprovera di aver adottato un linguaggio a dire poco ruvido, stridente e irritante al limite dell’accettabile… La ruvidità è necessaria per richiamare alla responsabilità del pensiero. Non voglio apparire insipido, né sbiadito e privo di vita.

In una sola strada a Milano ho sentito parlare cinque lingue e ascoltato sette tipi di musica… sarà mai possibile… di questo passo dove andremo a finire? Questo è un mondo da cui è meglio restare fuori. Tra l’interesse nazionale e la dimensione europea senza ombra di dubbio bisogna sempre scegliere l’interesse nazionale.”

Per tre quarti d’ora mi ha intrattenuta e parlato dello scarso rendimento del personale al governo.

“Luigi Di Maio, la faccia dal colorito florido, è un promettente copista. Ha tutte le qualità del fattorino. Ha rifiutato la promozione che l’avrebbe portato a prendere il posto del proprio superiore diretto. Non ha risposto che non si sentiva all’altezza di quel posto, ma che si rifiutava perché a lui tocca giudicare per il bene del popolo.

Nel non rivelarsi all’altezza sa camuffare, la sua povertà d’azione, con la tecnica della dialettica. La dialettica indica sempre una via d’uscita. Non si vergogna della propria indolenza, di aver lavorato a rilento e svolto male i propri compiti. Quante osservazioni ho fatto a tal proposito! Alla fine, mi son dovuto dichiarare non più disponibile a tollerare la negligenza altrui, per non andarci di mezzo io. In tutti i modi possibili e immaginabili ho cercato di confermare l’ordine stabilito e non l’inganno delle armonizzazioni”.

Tozzo e corpulento si è appoggiato alla spalliera della sedia, respirando profondamente, del tutto assorto nel suo monologo.

E poi che cosa è accaduto? Gli ho chiesto.

Si è messo a parlare in piena libertà: “Ho continuato a svolgere le mie mansioni. Con fiera tenacia ne ho sopportato tutto il peso. Capace di stare al loro gioco e di correre il rischio di rimanervi impigliato. Un governo storicamente scaduto e irrevocabilmente obsoleto, cosa mai poteva produrre? Il governo è caduto in una giornata afosa, di un caldo inusuale di cui nessuno ha avvertito l’arsura. E’ chiaro che loro appartengono a un tipo di persone limitate, ma non vale per me che sono fatto di altro materiale e ho meritato di essere stato al governo. Adesso, stia a vedere: hanno messo su un impianto ideologico sterile, di tenore agiografico.

Inseguono il principio dell’illusorietà e dell’apparenza. La logica è quella del trucco, del gioco di prestigio. L’impressione è di una complicatezza formale che si risolve in tutta semplicità. Nulla è più ovvio di ciò che si presenta o si spaccia, per mero dato. Sarà facile tra qualche mese smentirli. Un caso di mistificazione, con interventi superficiali, pieni di errori e infrazioni. Un incontro apparentemente inatteso lo presentano come inossidabile. Sarà impossibile imprimergli uno svolgimento interno. Hanno dato vita a un governo compatibile con il sistema vigente nella sua ultima effettiva configurazione che finge di danzare a passi liberi, mentre marcia irreggimentato al seguito dei poteri forti che prima non hanno voluto concedersi, né concedermi.

Hanno restaurato, in una distorsione ideologica della quotidianità, un governo politico assoggettato completamente alle funzionalità europee. Il compito del politico è di promettere la fedeltà, salvo poi, sottile come un martello demolitore, doversi smentire rapidamente per sopravvivere. Questo governo -che magnifica promiscuità - rispecchia fedelmente la realtà sociale del disordine vigente.”

Gli ho risposto (che altro potevo dirgli?) di fare tutto il possibile per allontanarsi dal governo e dalla sua orbita.

“Proclami il suo disaccordo, gridi e si faccia ascoltare come da molti anni fa”. Sul momento non ha detto niente e ha rivolto al cielo uno sguardo angelico. Poi ha sorriso, con un movimento brusco si è alzato e dopo aver guardato intorno al tavolo come un conferenziere, ha detto che ero molto buona e mi ha gettato le braccia al collo. Fissava su di me uno sguardo riconoscente, deliziato, come se conversare con me fosse stato uno dei più grandi piaceri della sua vita.

Per l’imbarazzo, con un’aria dinoccolata, è andato in bagno. Tutto si è come fermato e tutti lo hanno fissato.

“Gesù Cristo, mangiate i vostri dolci… faccio ancora parte della Lega… e ritornerò al governo” ha urlato. “Quando arriverà il momento farò tutto quello che va fatto”.

Le sue ultime parole assordanti, premonitrici e minacciose, sembravano tutto un bel desiderare, volere e pregare.



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