Io non dimentico: I fatti della scuola Diaz

di Francis G. Allenby - lunedì 20 aprile 2015 - 2585 letture

Quello che sto per scrivere non sarà una citazione precisa di eventi e contingenze: sono solo sensazioni e ricordi, e voglio che rimangano tali anche per chi li leggerà. A Genova, qualche anno fa, erano riuniti i capi di molte nazioni: i potenti. Il G8, lo avevano chiamato. C’erano tante persone, giovani e no, che manifestavano contro la globalizzazione, contro il potere. Un ragazzo perse anche la vita negli scontri; tuttavia in quei frangenti le cose divengono talmente indefinibili, le reazioni umane sono talmente imprevedibili che tutto diviene parte di un fato, un destino ineluttabile che, come dicevano gli antichi greci, regola le nostre esistenze. In ogni caso questo conferma che a Genova c’era, fuori di ogni dubbio, un contesto di estrema violenza. Ma quello che accadde dopo fu solo il frutto di una volontà maligna. I capi delle forze dell’ordine decisero e i sottoposti eseguirono, senza discutere. Dimentichi della lezione di Don Lorenzo Milani, il quale scrisse che “L’obbedienza è la peggiore delle tentazioni”, essi obbedirono. E fecero male. Quando, in pieno assetto di guerra, quei poliziotti entrarono nella scuola Diaz diedero sfogo a tutto quanto c’è di più selvaggio e feroce nel cuore degli uomini: la prepotenza, la sopraffazione, la crudeltà. Chi picchiò, brutalmente, quella gente (e c’erano giovani, ma anche qualche anziano) lo fece dimenticando le più elementari regole del riguardo che si deve ad ogni essere umano: calpestarono la loro dignità, calpestarono la loro essenza più vera. Ragazzi e ragazze furono spogliati – psicologicamente ed anche fisicamente – e privati delle loro essenze, delle loro nature, del loro decoro. Chi aveva il compito di tenere l’ordine diffuse il disordine ed il caos più puro: giustificò, senza saperlo, ogni atto criminale compiuto da quel momento in poi. Perché il loro compito era, ed è, difendere la gente, non pestarla a sangue. Molti, però, sembrano scordarlo, come è accaduto, ed accade, per altri episodi di maltrattamenti che hanno portato alla morte di persone fermate o detenute. Quel malaugurato giorno, a Genova, c’erano fra le più alte cariche dello stato e della polizia: nessuno si è mai preso le sue colpe; tutti, invece, hanno messo in atto il consueto, nostrano e meschino, scaricabarile. Eppure, Gianfranco Fini, c’eri anche tu al G8, vero? Ora ti si può fotografare mentre fai il pensionato d’oro al supermercato, con la tua giovane moglie al fianco. Ci fa piacere che tu adesso ti tinga i capelli di biondo, stile cherubino. E mi chiedo, anche, per quanti di loro ciò che è stato fatto è da imputare solo al loro impeto, a quel velo che è caduto sugli occhi e che ha fatto sì che si commettessero tante nefandezze? Dal medico, lo psicologo, che ha fatto loro il test di attitudine, comprovando e certificando la loro affidabilità emozionale, fino all’ultimo dei funzionari che li ha abilitati al servizio: non vi sembra dobbiate farvi un bell’esame di coscienza tutti quanti? Uno di quegli agenti, di recente, ha rivendicato ciò che è stato fatto con parole di esaltazione e di trionfo: erano parole che mi ricordavano tanto quelle che si sentivano ripetere alla radio e sulle piazze durante il ventennio… Quello che mi auguro è solo che quel velo cupo che oscurò le viste di quegli agenti – e che a quel che vedo e leggo non si è ancora sollevato – sparisca, un giorno, perché possano pentirsi, ravvedersi. Non si può essere mariti e padri di famiglia se non si pensa che ciò che è stato fatto a quelle persone potrebbe essere fatto, un giorno - con gli stessi presupposti, nelle stesse circostanze - ai loro figli, o a quelli che amano di più.


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