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Immacolata deflagrazione

Donatella Ventimiglia. “Immacolata deflagrazione”. Storia di Hannah e dell’identità perduta in guerra.

di Maria Gabriella Canfarelli - mercoledì 15 marzo 2006 - 4407 letture

Donatella Ventimiglia. “Immacolata deflagrazione”. Storia di Hannah e dell’identità perduta in guerra.

Donatella Ventimiglia, regista teatrale,autrice di saggi di letteratura su Jane Austen, Henry James, interventi critici apparsi su riviste culturali, ha curato laboratori sul linguaggio drammaturgico per la Scuola di Specializzazione per Insegnanti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, città nella quale vive e lavora.

“Immacolata deflagrazione” è una drammaturgia in atto unico il cui linguaggio tende a sottolineare lacerazioni psichiche-corporali, a sminuzzare l’identità della protagonista - prigioniera di guerra e, specularmente, soldato, nel doppio ruolo dunque di vittima e aguzzino, espediente letterario con cui mostrare la doppia violenza dell’azione bellica, e la ricerca della coscienza della prigioniera/soldato Hannah, la cui voce straniata, straniante si auto- chiama nel tentativo di recuperare l’identità perduta nel gorgo: chiamando il proprio nome in scena, per denuncia di orrore e necessità di recuperare l’interezza, con ritmo serrato e poi spezzato, dilatato da puntini di sospensione. E’ l’inizio del dramma di “Anna, Anne, Annie, Annouk, Annick, Annaic, Anais, Anouchka, Annuccia...Nuccia...Aneth, Anita, Aniouta; Nanette, Nanou...Nais, Nancy, Ninon...”, il pronunciamento, l’alfa di “colei che osserva il mondo” come un essere appena nato che impara a parlare a cominciare da sé.

Hannah si “chiama”, dunque, chiama se stessa per non perdersi nell’orrore dello stupro, dell’invasione totale attraverso cui si compie la spoliazione, il furto, l’effrazione del corpo e della mente. Il linguaggio è stringente, stringato a sottolineare la follia della guerra (tra gli uomini e tra sessi), la violazione dell’integrità fisica e la perdita della dignità della persona. Linguaggio assurdamente preciso nell’enunciare codici alfanumerici di bombe, aerei da combattimento, missili. Numeri e alfabeto che ritagliano un contesto ripetibile, ripetitivo: “la taglia margherite utilizzata nella guerra del Vietnam e delle bombe impiegate in Afghanistan”, un rosso sudario come fondale, “sangue, sudore, urina e vomito” una mistura appiccicaticcia di umori corporali, ciò che il corpo secerne nel momento della paura e della morte.

Hannah spinge “la testa sott’acqua” e scende per vedere il fondale, toccare il fondo, e in quel momento la sua figura è una silhouette, un profilo, uno svuotamento, un’ombra senza volto. Ricorda, si aggrappa al ricordo di “Un’altra storia. Una bracciata, due bracciate (...) Bisogna respirare alternato, prima a destra, poi a sinistra.

Ma io non ce la faccio”, a fare ciò che il padre le diceva di fare, nuotare, respirare, resistere, mentre il ricordo della madre è ancora il tenero grido di rimprovero “Hannah, Hannah! Quando la finirai di rotolarti a terra in quel modo?”, ed è la pace di un abbraccio serale “quando si chiudevano le imposte e io mi mettevo sulle tue ginocchia e affondavo la faccia nell’incavo del tuo collo”. Ora è la guerra, è la bandiera: “O tu, lassù!, Dove ondeggi, tu, come serpe (...) stranamente fischiando. (...) sopra tutto e che tutto richiedi, assoluta padrona”.


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