Il tesoro delle mesetas

Decidiamo di restare a San Nicolas. Ormai la giornata è compromessa, chilometri in più o in meno non hanno più senso oggi.

di Antonio Cavallaro - giovedì 14 ottobre 2004 - 5534 letture

Decidiamo di restare a San Nicolas. Ormai la giornata è compromessa, chilometri in più o in meno non hanno più senso oggi. Ci sistemiamo sopra nel soppalco con Ricardo, tiriamo fuori e mettiamo in parata i nostri indumenti bagnati contro il sole, che da dietro le finestre è tornato ad affacciarsi. Ed è lì che ritorniamo dopo una doccia calda: al sole; lo cerchiamo, lo chiediamo, come dei girasoli lo inseguiamo quando va piano piano a nascondersi dietro Itero del Castillio.

"Andate al paese", ci dice Lino, "andate…magari troverete il mio amico Daniel e se gli fate simpatia vi offrirà pure da bere, qui il vino è buono". E quando mai. Così nel mezzo del pomeriggio di questo imprevedibile giorno, mentre Lino col furgone va a posizionarsi su un non precisato altopiano per riuscire a scorgere quanti invitati avrà per cena, noi spinti dai suoi consigli ed attirati dal sole ci rechiamo ad Itero. Dal rifugio la strada e la stessa che poi giunge al ponte sul rio Pisuerga, tranne un primissimo tratto che taglia in due un enorme campo di grano. All’ingresso del paese c’è un’enorme stalla con tante mucche prodighe a divorare fieno. Con la loro strafottenza e la curiosità ebete in uno sguardo laterale che le rende maestose. Il paese è piccolo le case paiono molto vecchie, ma divengono solenni se l’occhio le staglia nell’orizzonte mesetico. Una discesa lastricata di pietre porta al cuore di Itero fatto di uno spazio ampio e vuoto, dove a rincorrersi è solo il vento. Più su scale portano alla chiesa, nella piazzetta che la circonda ci accomodiamo sulle panchine e sul muro e ci raccontiamo ancora di come siamo meravigliati di questa strana giornata.

Dopo qualche minuto tre uomini si avvicinano, uno di loro, quello che sta nel mezzo, ci chiede se siamo pellegrini e se stiamo a San Nicolas. Ci chiede anche che ci facciamo qua, in piazza, se vogliamo vedere la chiesa. Luigi più per una forma di cortesia che altro risponde di si, poi con una faccia sogghignante gli chiede se a lui la chiave della chiesa. A questa domanda i tre uomini scattano a ridere fragorosamente. Ridiamo anche noi. Senza motivo, così, perché il quadretto è carino. Ridendo l’uomo fa due passi indietro e con la mano ci fa cenno di seguirlo verso la chiesa.

La facciata esterna della chiesa è mal ridotta, mancano pezzi di intonaco e al posto del rosone c’è un mattone forato, il portone centrale è di legno ed è protetto da un cancello in ferro che la ruggine ha incominciato a divorare. Quasi a voler fare dispetto ad un giudizio tanto scontato quanto affrettato, l’interno si mostra ricco e prezioso in una maniera così abbondante, che è tale da rendere alla chiesa un cattivo gusto che niente lasciava presagire. Crocifissi e icone affastellati contro pareti rendono stretti i passaggi laterali, così si è costretti a passare in mezzo, fra le panche di legno, per arrivare fino all’altare dove un apoteosi di marmi, bronzi ed ori esplode e giace. Sui capi delle vergini, sulle ali degli angeli, sui corpi martoriati dei cristi, la polvere ricopre come un velo tutto quanto è qui dentro, seppellendolo per una seconda volta. Compiaciuto, l’uomo, con i suoi due compari ammira le nostre bocche aprirsi e farsi incredule, deve essere un gioco che farà spesso con gli stranieri. A differenza dei ragazzi capisco solo dopo chi è l’uomo con la chiave della chiesa, quando dopo averci cercato per le piccole strade di Itero ci invita a casa sua a bere. E’ Daniel l’amico di Lino.

La sua è una casa modesta ma dignitosa, dopo l’ingresso, c’è una grande stanza con un tavolo, un televisore, delle credenze e sedie. Alla fine della stanza c’è una scala che scende da qualche parte nel buio, qualche stampa adorna le pareti, tutto li dentro è spinto contro le pareti. Sul tavolo raggruppate senza un ordine preciso ci sono sparse centinaia di foto. Daniel ci chiede di aspettarlo e scende per quella scala immersa nel buio, ci guardiamo attorno divertiti, dopo qualche istante Daniel risale dalla scala con in mano quelle che gli spagnoli chiamano "porrones" colme di vino, stranissime bottiglie più simili ad ampolle, con un collo sottile ma lungo. Da una delle credenze prende quattro boccali e versa il vino. Il brindisi è alla salute. I primi li ricordo. Ci mostra le fotografie, ritraggono pellegrini, soprattutto pellegrine a dirla tutta, con o senza Daniel, in solitaria o in gruppo sono tutti, uomini e donne intenti a bere, con un colorito che tradisce il fatto che il divertimento non era iniziato da poco. Saranno le foto, sarà il vento freddo ma ci viene a tutti il desiderio di riempirci i bicchieri. Prosit! Le foto con donne, oltre a essere in maggior numero sono anche le più divertenti: la maggior parte beve direttamente dalla bottiglia ma tutte hanno gli occhi chiusi e la bocca, che quando non si contorce con le labbra in smorfie scaturite nell’atto di bere, si stampa addosso sorrisi pieni che danno idea in alcune di una paresi momentanea. Alle pellegrine "imborracciate"! Trovo una serie di foto che riguardano una ragazza, che Daniel mi dice essere una pellegrina norvegese, messe in un giusto ordine, raccontano di una trasformazione etilica mostruosa. Nel frattempo Daniel continua a fare sali e scendi dalla scala, mettendo altri porrones pieni sul tavolo. Sarà perché siamo persone cortesi, sarà perché ci ricordiamo del freddo, ma quel vino viene subito versato, per non fare torto a nessuno.

Daniel ora è pensionato, prima faceva l’agricoltore e produceva vino, è il suo quello che abbiamo l’onore di bere. "Quindi campi coi soldi dello stato" qualcuno fa questa brillante considerazione, che suscita ilarità e l’ilarità suscita brindisi. Nessuno gli chiede perché lui ha la chiave della chiesa, quando ci dice che non ne è il sacrestano. Continuiamo a guardare le foto, in una c’è Lino con i capelli sparati all’aria e il naso rosso, in altre ci sono signorine che dai loro abiti e dai discorsi che fa Daniel non devono esser state proprie pellegrine o per lo meno non proprio verso Santiago. In una foto c’è addirittura quello che Daniel ci indica essere il Rettore della Confraternita italiana di San Giacomo, che non so se gli spetta come titolo ma in quella foto è davvero magnifico! Daniel non la smette più di scendere e salire dalla scala, il vino non la smette più di fare sali e scendi dal collo della bottiglia verso i bicchieri e il bicchiere continua a salire su verso la bocca e scendere giù verso il tavolo, poggiato lì, con una sempre maggiore pesantezza. Fordismo e Bacco! Non facciamo altro che ridere, se prima erano le parole, le frasi che si trascinavano in bocca a farci ridere, adesso le risate nascono anche solo dalle risate e non finiscono più. A salvarci per fortuna arriva Lino col suo furgone, sicuro di trovarci qua torniamo con lui a San Nicolas per aiutarlo a preparare la cena. Addio Daniel, ci sarebbe piaciuto mettere le nostre facce sorridenti e rubiconde su una delle tue fotografie, lasciarle lì insieme alle altre, sopra al tuo tavolo, catturando magari l’istante in cui abbiamo la faccia più idiota, per regalarti la scusa di un nuovo brindisi o soltanto un’altra risata in compagnia del prossimo pellegrino. Ognuno di noi tre nel tuo soggiorno ha scattato la sua fotografia e se le portata via, mi dispiace non aver potuto contraccambiare.

Al rifugio troviamo altri ospiti, una coppia francese ed un altro ragazzo sempre francese. Barcollando diamo una mano, ci aggrappiamo ai fornelli e cuciniamo, qui ormai ci sentiamo come a casa, oltre a farci piacere è anche la nostra maniera per ringraziare Lino. Quando siamo quasi pronti per metterci a tavola si uniscono a noi altri due pellegrini, padre e figlia: di lui, spagnolo, non ho mai saputo il nome o compreso una sola parola; lei si chiamava Sara, ed è una splendida bambina di cinque anni dai tratti somatici orientali. Insieme viaggiano verso Santiago a bordo di uno strano ibrido veicolo, lui guida una mountain - bike che si trascina dietro un carrello a due ruote dentro il quale ci sta Sara. Li avevo visti oggi a Castrojeriz, tutti e due col casco da ciclista, il padre si era fermato all’albergue a chiedere se poteva riscaldare il latte per la bambina, che per essere una bambina che viaggia ogni giorno per strada è molto ben curata. Lui appare molto stanco, il fango di oggi oltre ad averli rallentati deve averlo parecchio provato, non sarà stato facile affrontare questi altopiani con quel veicolo, badando a quel prezioso carico. Al telefono Sara racconta alla madre che oggi è stato come andare in spiaggia, però senza mare.

Prima di sederci in tavola Lino ci fa accomodare attorno all’altare, poi con un piccolo catino con dentro dell’acqua, simbolicamente lava a ciascuno di noi ospiti un piede, come simbolo di benevolenza ed accoglienza. Una cerimonia consueta qui a San Nicolas, semplice ma molto emozionante. A tavola, la luce di candele nella quale si consuma la cena, regala ancora qualcosa altro. C’è una genuina armonia che ci fa scivolare lungo le sedie, allenta tensioni e apre i sorrisi, i grazie ed i prego si fanno meno indispensabili, formali necessità ed imbarazzo non sostengono le conversazioni. Fuori niente mortifica la luce della luna piena che bacia i colori del giorno come una bocca ampia e carnosa, la bandiera issata stanotte dalla meseta ha la gentilezza di toni tenui ed ovattati, ad ovest scariche di lampi colorano la notte e per qualche attimo gli conferiscono una forma. Dopo cena, è un punto qualsiasi della strada che scegliamo, sigaretta dopo sigaretta, aspettiamo per rientrare, sempre un po’ di più ad ogni tiro, inaliamo la meraviglia che ci circonda. A letto prima di addormentarmi poggio contro la parete la mia mano aperta, spingo. Lascio sulla pietra vecchia di secoli la mia impronta, come questo luogo ha fatto su di me, tracce che non si possono scorgere ad occhio nudo ma che resteranno.

L’indomani mi sveglio presto ma non basta, Lino si è gia alzato e prepara la colazione per tutti, è una mattinata serena. Facciamo colazione tutti assieme, poi un po’ a fatica cominciano le partenze. Iniziano i francesi, ognuno che se ne va saluta gli altri con un abbraccio pur sapendo, che a parte Lino e Ricardo, ci rincontreremo sulla strada. Noi tre raccogliamo i panni stesi e ci prepariamo, decidiamo di andarcene ognuno per conto suo, stamattina ci sono lunghi silenzi a cui nessuno vuole rinunciare. Come al solito, sono sempre pronto per ultimo. Poco male, oggi. Al momento dei saluti Lino mi chiede se non voglio mica un bastone visto che ha notato che sono l’unico a non averlo. Diversi pellegrini o lo dimenticano o lo lasciano di proposito, sapendo che da qui ci si lascia alle spalle la parte più difficoltosa e dura delle mesetas. Ne scelgo uno molto leggero, con un laccio in cima da mettere attorno al polso e con una piccola punta in metallo, un vero e proprio bastone da montagna, sopra ci sono due iniziali: C ed F. Lino e Ricardo mi accompagnano alla porta, li ringrazio di tutto, ci abbracciamo e ci diamo appuntamento per una prossima volta. C’è il tempo per un’ultima risata, il silenzio che segue si rompe solo quando agito una mano nell’aria. Sul ponte che attraversa il fiume mi giro verso il rifugio, Sara e suo padre stanno preparando la bicicletta. Sara mi saluta con un braccio, il sole nascente definisce tutta l’ermita di San Nicolas. E’ una bella immagine per un ultimo ricordo. Chiudo gli occhi.


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