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Il lavoro specchio della fragilità dell’uomo contemporaneo

C’è un legame che unisce i morti di Marcinelle e l’operaio edile morto a Buccheri il 7 agosto

di Emanuele G. - lunedì 11 agosto 2014 - 2197 letture

Possibile che il lavoro debba rimare con la parola morte?

Ciò si evince da due fatti. Uno occorso appena qualche giorno fa. L’altro nel lontano 1956. Di cosa stiamo parlando? Il 7 agosto a Buccheri (provincia di Siracusa) muore folgorato un imprenditore edile. Il suo nome era Francesco Vinci ed aveva 47 anni. Mentre l’otto agosto del 1956 a Marcinelle in Belgio un’esplosione in miniera provocò la morte di 262 persone fra cui 136 italiani.

Pertanto, il quesito introduttivo trova una sua drammatica conferma: il lavoro è morte. Tale dicotomia non avrebbe motivo di esistere. Il lavoro è quell’attività umana che dovrebbe permettere a ogni uomo di vivere una vita dignitosa. Che c’entra allora la morte? E’ un controsenso stridente. Il lavoro è una manifestazione della vitalità dell’uomo. E’ attraverso il lavoro che l’uomo attesta la sua esistenza sulla terra. Se facessimo un excursus all’interno della storia dell’uomo ci accorgeremmo subito che ogni aspetto della vita dell’uomo è un relazionarsi continuo con il lavoro.

Mi riferisco alla vita di famiglia dove giganteggia il lavoro umile ed essenziale delle donne. Quando vediamo alcuni uomini trasformare una landa desolata in un giardino. Le opere dell’ingegno umano sparse ai quattro punti cardinali del mondo. Al raggiungimento di importanti risultati nel campo scientifico. Le conquiste della medicina per debellare patologie croniche. Una bella canzone che rimane nel cuore di molta gente per anni. Un libro che riesce a dare il senso dei tempi. E l’elenco è davvero infinito. Tutti questi fatti parlano di lavoro e di vita allo stesso tempo. Il lavoro a guisa di miglior testimone della vitalità e della vita dell’uomo.

Ma allora perché il lavoro continua a rappresentare un pericolo mortale per noi uomini? Come dare un senso a qualcosa che ci angoscia in maniera sì forte e profonda? Il lavoro è spesso una scommessa. Una lotta instancabile e drammatica fra l’uomo e la realtà che lo circonda. Una lotta impari. Che impone all’uomo sacrifici inennarabili. In cui il risultato non è mai garantito aprioristicamente. E’ per l’appunto una scommessa. Una scommessa che è manifestazione della fragilità dell’uomo. Nel lavoro l’uomo mette alla prova il fatto che è un essere perfettibile e non perfetto.

Dal punto di vista filosofico posso comprendere il principio del lavoro come segno della fragilità umana. Non lo comprendo, al contrario, come valore morale ed etico. Qui si piangono delle vite spezzate in un attimo. Per caso o per negligenza criminale? Non possiamo consolare chi resta accampando determinanti metafisiche. Per chi resta la vita diventa ancora più pesante e triste. Chi muore diventa un’assenza mai più rimediabile per chi resta. Ecco perché, proprio in base al principio della perfettibilità, dobbiamo combattere ogni giorno affinché il lavoro diventi manifestazione di vita e non di morte. Lo si fa agendo secondo buon senso e rispetto delle normative. E’ un interesse collettivo e corale. Il lavoro deve nobilitare l’uomo. E non condurlo alla morte.


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