Il forno del nonno
Fave caliate, mandorle e noccioline abbrustolite, focacce e poi il pane croccante e profumato: una piccola festa per me
D’estate la mia famiglia si trasferiva in campagna, nella casa del Cozzo Corvo. Se penso a quelle villeggiature rivedo mia madre intenta a fare il pane. Impastava la farina in cucina con mani esperte; vi mescolava il lievito e il sale e gradatamente vi aggiungeva l’acqua fino ad ottenere una pasta soda al punto giusto. Poneva le vastedde su una tavola lunga e stretta e le copriva con panno e coperta. Per farmi star buono mi faceva dei panini a forma di trecce e mi dava dei tocchetti di pasta che io modellavo diligentemente. Poi andava ad accendere il fuoco nel forno che si trovava dietro la casa di nonno Mariano. Per me era una piccola festa: le stavo sempre intorno. Mia sorella, già una signorinella, le dava una mano affiancandola nel lavorare la pasta. Di mio fratello Nino quasi sempre non se ne sapeva nulla. Lui si perdeva nel folto del frutteto per sistemare i lacciuoli (fatti con i lunghi peli della coda del mulo) nei nidi dei cardellini. Non era facile questa caccia: richiedeva molta abilità e un po’ di fortuna. I cardellini, vispi e diffidenti, spesso riconoscevano quel cerchio estraneo sul nido e riuscivano a rimuoverlo a beccate. A volte qualcuno rimaneva impigliato; Nino lo metteva in gabbia e lo accudiva amorosamente. Il babbo o era in mezzo ai giardini (frutteti) o in altre proprietà o fuori per i suoi affari.
Mentre il forno ardeva con ramaglia e legna raccolte in giardino, la mamma scostava la cenere e la brace con il rastrello ed abbrustoliva fave, mandorle secche, noccioline, vi metteva a cuocere delle focacce, che mangiavamo subito dopo averle tagliate in due e insaporite con olio, formaggio e origano.
Il forno era pronto quando i mattoni delle pareti da rosso infuocato trascoloravano verso il bianco. Mio padre, (o mio fratello Nino) portava al forno la tavola con i pani pronti. La mamma, dopo aver pulito ben bene il piano del forno, col rastrello e con l’apposita scopa, prima asciutta e poi bagnata, infornava i pani con una pala di legno e chiudeva lo sportello di ferro spalmandone i bordi con un impasto di cenere.
Dopo venti minuti o mezz’ora, non ricordo bene, mia madre apriva lo spioncino e con l’aiuto di una candela ad olio sbirciava dentro; al momento giusto scoperchiava il forno ed un intenso profumo di pane inondava la veranda e il pergolato davanti casa. Dopo aver riempito una cesta con le vastedde croccanti, la mamma, ormai rilassata, andava a sedersi sulla ghiuttena a fare due chiacchiere col nonno e con zia Rosa, la sorella del babbo ancora schietta in casa, sempre indaffarata a spazzare, rassettare, spesso ingrugnita senza ragioni apparenti. Parlavano soprattutto la mamma e il nonno. Ogni tanto emergeva la zia per fare una precisazione o lamentarsi di qualcosa. I discorsi del nonno cadevano inevitabilmente sullo zio Pinù disperso in Russia, che io non ricordavo perché troppo piccolo al momento della sua partenza. “Figghiuzzu miu. Chissà unni sarà, mmezzu a tutta dda nivi. Mi pari ca d’un mumentu all’autru avissi a spuntari da stu violu”.
Degli altri tre figli in guerra non parlava perché sapeva che erano vivi. Zio Manè e zio Santo erano sul fronte greco-albanese, zio Gioacchino, imbarcato su una nave da guerra. La mamma porgeva al nonno un filoncino di pane caldo caldo che lui tagliava a metà, vi versava i condimenti e se lo mangiava lentamente. A quel punto la mamma prendeva la cesta del pane e tornava a casa per preparare da mangiare, seguita dalla sua appendice che ero io.
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