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Il declino del cinema italiano in un film

L’uscita dalla scena internazionale delle nostre produzioni è cominciata negli anni settanta. Oggi viene raccontata da produttori e registi nel documentario di Valerio Jalongo "Di me cosa ne sai".

di Dario Adamo - martedì 3 novembre 2009 - 4121 letture

“C’era una volta il cinema italiano…” potrebbe essere il sottotitolo più adatto per il documentario di Valerio Jalongo presentato con successo alle Giornate degli Autori dell’ultima edizione del Festival del cinema di Venezia e che in qesti mesi sarà in programmazione in molte sale italiane

Di me cosa ne sai parte da un interrogativo tutto sommato semplice: perché il cinema italiano che fino agli anni sessanta e settanta dominava la scena internazionale con produzioni importantissime e una florida industria cinematografica nazionale, d’improvviso entra in fortissima crisi facendo scappare via i produttori più importanti e decretando l’inizio della fine per registi, autori ed esercenti? Jalongo cerca le risposta a questa domanda, trovando nei protagonisti di quegli anni, da Dino De Laurentis a Mario Monicelli, testimonianze concrete, affermazioni dure e rivelazioni sincere, facendo emergere le cause di uno dei tanti misteri italiani di quegli anni che questa volta non si macchiano di sangue, ma solo del nero di una realtà troppo amara. Nel presente l’autore trova invece un manipolo di registi che qualche anno fa si erano riuniti per discutere insieme le difficoltà di fare cinema oggi, come quelle incontrate da Felice Farina che per i quasi ottanta minuti del film accompagna lo spettatore nella sua disavventura personale mentre cerca di “sbloccare” il suo film, fermo a causa di strane beghe produttive da più di quattro anni.

Ciò che emerge è la storia di un declino che ha la sue radici in accurate scelte politiche che porteranno l’Italia, cinematografica e non solo, a un lento sfiorire, vittima sacrificale di un carnefice chiamato televisione commerciale. Il regista rispolvera retrospettivamente anche antiche querelle che appaiono oggi fondamentali per capire quel declino, come la lotta di Federico Fellini contro le interruzioni pubblicitarie volute da Silvio Berlusconi, una battaglia sostenuta dal Pci al grido di «non si spezza una storia, non si interrompe un’emozione», la sfida ad una dinamica televisiva a cui oggi il pubblico è ormai abituato ma che allora gli autori cercavano di combattere con tutte le loro forze.

L’irruenza della televisione che spazza via la poesia del cinema, svuotando progressivamente le sale e confinando gli spettatori a scelte preimpostate di largo consumo e bassa qualità, dove a comandare resta soltanto l’Auditel, sigla funesta che seleziona sconsideratamente cosa gli italiani debbano vedere sui propri teleschermi.

Un documentario intenso la cui gestazione è durata molto tempo a causa di impedimenti legati ai diritti d’autore e a questioni d’archivio, ma anche un’opera che era stata concepita inizialmente come un lavoro corale sul cinema italiano e che con il tempo è diventata un’attenta analisi individuale, un’appassionata ricerca tesa a comprendere cosa abbia sostituito quello che una volta era il cinema più bello del mondo. Un bel documento per gli appassionati di storia del cinema e un motivo in più riflettere su alcuni cambiamenti importanti che hanno caratterizzato il passato e che non smettono di influenzare quello che siamo oggi non solo come pubblico, ma anche come società (che voglia ancora definirsi) civile.


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