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Il coltivatore del Maryland di John Barth

Non spaventino il timorato avventore le mille pagine che si dipanano innanzi a lui, chè il mondo creato dalla effervescente fantasia barthiana lo avvinghierà irrimediabilmente a sé.

di Simone Olla - mercoledì 15 giugno 2005 - 9010 letture

“Negli ultimi anni del diciassettesimo secolo si poteva incontrare, fra i tonti e i matti dei caffè di Londra, uno stangone allampanato di nome Ebenezer Cooke, fornito più d’ambizione che di talento, eppure più di talento che di prudenza, il quale, come i suoi compagni di follia, che avrebbero dovuto frequentare Oxford e Cambridge, aveva ritenuto più divertente giocare col suono della lingua madre che faticare sul suo significato, e perciò anziché applicarsi ai travagli del sapere, aveva imparato l’estro del verseggiare e macinava quinterni di distici alla moda del giorno, spumeggianti di Giovi e di Juppiteri, clamorosi di rime stridenti, incordati di similitudini tese fino al punto di rottura.”

Le prime righe del romanzo presentano all’uditorio il protagonista delle vicende di lì a venire e introducono immediatamente il lettore nella lontana epoca in cui si narrerà, disvelando dapprincipio le peculiarità di una prosa aulica e raffinata che lascia già intendere orditi sapientemente intrecciati, trame meravigliosamente dispiegate, mirabolanti avventure che il fiato mozzano.

Non spaventino il timorato avventore le mille pagine che si dipanano innanzi a lui, chè il mondo creato dalla effervescente fantasia barthiana lo avvinghierà irrimediabilmente a sé, trascinandolo pei perigli fra un continente e l’altro. Tangheri e ribaldi d’ogni sorta, pirati e imbroglioni patentati saranno comuni compagni d’avventura. E storie e racconti verranno raccontati e recitati, ripresi e trasformati, masticati e rimasticati per il gusto di sentirne il sapore e di apprezzarne il contenuto e la forma. L’universo del “Coltivatore del Maryland” in cui avranno il piacere di dimorare sarà un fervido teatro che riscoprirà l’antico stupore degli eventi oralmente tramandati intorno a fuochi scoppiettanti sotto le stelle, un iridescente palcoscenico da rimirare in silenzio sì da non perdere neanche un alito del sussurro più insignificante di ogni singola comparsa. Perché a dispetto del perenne vortice di accadimenti che travolgerà i protagonisti, non verranno trascurati gli aspetti psicologici e le loro caratterizzazioni, che anzi acquisteranno consistenza effettiva e quasi reale.

Il tema centrale del romanzo può essere evinto dalle parole pronunciate ad un certo punto da Henry Burlingame, vecchio tutore e guida spirituale di Ebenezer , al suo pupillo:

“ Noi siamo qui seduti su una cieca roccia che naviga nello spazio; e tutti quanti corriamo a capofitto verso la tomba. Credi tu che ai vermi importerà qualcosa, quando avran fatto di te un pasto, se tu hai passato il tuo momento a sospirare senza parrucca in camera tua, o se invece hai saccheggiato le auree città di Montezuma?”

Innocenza o esperienza? Candore o malizia? Inazione o azione? L’ingenuità “teorica” di Ebenezer, che assume inizialmente connotati disarmanti, è contrapposta alla “saggezza” sperimentale e ambigua di Burlingame, suo alter-ego, ed è in balia delle altrui macchinazioni. E’ la perdita dell’innocenza necessaria per comprendere ed affrontare gli affari del mondo? A quanto si dovrà rinunciare in nome di una sempre coerente fedeltà alle proprie idee?

Sulla cresta di quest’onda portante, Barth si divertirà a sgambettare Ebenezer, aspirante inadeguato cantore della grandezza di un Maryland di cui nulla conosce, e a porlo di fronte a continui fallimenti che dimostrino la vacuità delle sue credenze, l’inutilità della sua ostinazione, la vulnerabilità delle sue posizioni. Ma il suo personaggio gli sfuggirà di mano, o forse no, e si divincolerà e dimenerà, reclamando a gran voce la propria dignità. In questo frenetico bailamme chi più si divertirà sarà il lettore, che osserverà, sempre più coinvolto, l’autore che smonta e ricostruisce episodi in virtuosistico equilibrio fra satira e parodia, secondo la miglior tradizione del romanzo settecentesco e con frequenti richiami alla cultura classica.

E si farebbe un torto a John Barth se non si chiudesse con un’ampia citazione, che renda appieno la grande capacità evocativa della sua narrazione e gli procuri, come merita, qualche nuovo e appassionato lettore:

“ La notte era tempestosa, ma non sgradevole: un vento caldo e umido irrompeva da sud-ovest, faceva schiumare il fiume, piegava i pini come giunchi e portava la nuvolaglia sulle stelle. Ambedue alzarono gli occhi alla splendida vista.

Dimentica la parola cielo - disse Burlingame distrattamente, balzando sul suo castrato - E’ una benda sui tuoi occhi. Non c’è “cupola del cielo” lassù.

Ebenezer sbattè le palpebre due o tre volte: con l’aiuto di queste istruzioni, per la prima volta vide il cielo notturno. Le stelle non erano più punti su un nero emisfero appeso come tetto sulla sua testa; il rapporto fra di loro egli lo vedeva adesso in tre dimensioni, delle quali quella che sentiva più profondamente era la profondità. La lunghezza e la larghezza dello spazio fra stella e stella parevano trascurabili al confronto: ciò che lo colpiva era il fatto che alcune stelle erano più vicine, altre più lontane, e altre inimmaginabilmente remote. Vedute in questa maniera, le costellazioni perdevano completamente il proprio senso, si rivelava il loro carattere spurio, e anche il falso presupposto del navigatore, ed Ebenezer si sentì privo di orientamento. Non riusciva più a pensare il su e il giù: le stelle erano semplicemente là fuori, sotto come sopra di lui, e il vento pareva urlare non dalla baia ma dal firmamento medesimo, dagli sterminati corridoi dello spazio.

Follia – sussurrò Henry.

Lo stomaco di Ebezener era in agitazione; vacillò sulla sella e si coprì gli occhi. Per un vertiginoso istante gli parve d’essere a capo sotto sul fondo del pianeta a guardare le stelle giù anziché su, e che soltanto stringendo la gambe al sottopancia della roana e tenendosi forte al pomo della sella con ambedue le mani potesse evitar di precipitare a capofitto in quelle vaste distese.”

Sublime.

Recensione di Michele Ferraro

Fonte: www.opifice.it


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