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Il Made in Italy come barriera alla contraffazione

Intervista a Alberto Brocca, direttore dell’Unione Industriale Biellese. "Il consumatore deve poter scegliere tra un prodotto fatto in un paese dove si rispettano i contratti di lavoro, si rispetta l’ambiente e un prodotto al prezzo più basso in assoluto."

di Vincenzo Raimondo Greco - mercoledì 25 maggio 2005 - 5182 letture

L’Unione industriale biellese chiede che la Commissione europea introduca l’obbligo di indicare il paese di produzione ‘made in...’ su tutti i prodotto circolanti in Europa dovunque prodotti. Siamo in pochi a batterci” ; è quanto ripete una voce al centralino dell’associazione. Una dimostrazione dell’impegno dell’associazione biellese sul versante della lotta alla contraffazione; un tentativo originale per far comprendere, a tutti, quanto possa essere dannosa la vendita di prodotti “firmati” commercializzati a prezzi normali. Un grido d’allarme che mal si sposa con le “musiche”, più o meno note, dei centralini di altre associazioni categoriali. Forse perché gli industriali biellesi hanno una maggiore sensibilità? Forse perché sono maggiormente esposti al rischio? Lo abbiamo chiesto a Alberto Brocca, Direttore dell’Unione Industriale Biellese. “Secondo l’opinione convinta, e non presuntuosa, della nostra associazione - esordisce Brocca - il problema della contraffazione visto nell’ottica della globalizzazione produttiva, non è una questione che interessi solo l’industria biellese ma il futuro di tutto il settore manifatturiero europeo. Cioè se l’Europa non consentirà al consumatore di poter decifrare, attraverso un marchio veritiero, dove è stato prodotto quel tal manufatto, l’acquirente non sarà davvero libero di scegliere".

Può essere più chiaro?

Gran parte della contraffazione deriva dalla carenza in Europa di una norma sulla obbligatorietà del ‘Made in’. Sul mercato italiano vengono riversati quantità straordinarie di capi di abbigliamento con etichetti ingannevoli. Con la legislazione vigente, per esempio, posso scrivere ‘Mariella italian style’ ma, facendo così, induco in errore il compratore. Il compratore, infatti, quando vede scritto ‘Mariella italian style’ è indotto a pensare che si tratti di qualcosa made in Italy. Invece non lo è affatto.

La contraffazione chi danneggia maggiormente?

E’ danneggiato, gravemente, il consumatore, così come sono danneggiati i lavoratori e gli imprenditori che lavorano nella manifattura italiana. Perché il mercato è uno e se vendo io non vendi tu. Il concetto di fondo che ci anima è che il made in Italy è un bene importantissimo per il nostro paese. Nel secolo scorso migliaia di piccoli imprenditori, con una grande capacità, hanno portato in giro per il mondo prodotti che effettivamente, nel novecento, erano made in Italy, fatti in Italia. Oggi con l’esplosione della globalizzazione produttiva; con l’esplosione del pianeta Cina, che vuole diventare la più grande officina manifatturiera del mondo, se non si obbliga chi vende i prodotti a dire dove sono stati fatti è il caos. Il consumatore non sa più chi ha prodotto quell’abbigliamento e non è in grado di esercitare un diritto di scelta.

Non mi dirà che tutto il discorso si riduce al solito ritornello dei prodotti italiani geniali e artisti?

Non solo. Il consumatore deve poter scegliere tra un prodotto fatto in un paese, e non mi riferisco solo all’Italia, dove si rispettano i contratti di lavoro, si rispetta l’ambiente, si rispetta la salute del consumatore e un prodotto al prezzo più basso in assoluto. Fondamentale è una piena libertà di scelta che presuppone una conoscenza. E siccome fare industria A Biella, in Italia ed in Europa costa, indubbiamente, di più che farla in altre parti del mondo, il consumatore deve sapere che il prodotto che si accinge ad acquistare non è fatto in Italia, in Germania o in Polonia ma, per esempio, in India. Se non ha queste informazioni è sottoposto all’inganno.

Lei ha fatto riferimento alla Cina che pare voglia rinunciare al braccio di ferro con l’Europa. Ma il pericolo viene solo da quel Paese o anche da altre nazioni?

Il problema è principalmente cinese; ma quando parliamo di regole ci riferiamo a qualcosa che valga per tutti: anche per il produttore italiano. Le regole sono belle perché devono essere rispettate da tutti. Detto questo aggiungo che,oggi, in termini quantitativi, il problema è soprattutto, come hanno dimostrato le statistiche raccolte dall’Unione Europea, proveniente da quel Paese. Ma la normativa che reclamiamo ha una valenza generale; tra l’altro è in vigore negli USA dal 1930, in Giappone dal 1962, e dal 2005 persino in Cina.

Aumento delle contraffazioni e delocalizzazione produttiva: c’è un nesso?

Si. La globalizzazione produttiva comporta la possibilità di scelta da parte dell’intraprendenza di collocare nel posto più conveniente qualsiasi produzione. Questo fatto implica in sé potenzialità dannose per la contraffazione.

E’ quantificabile il danno per l’industria biellese e qual è il settore più colpito?

C’è un numero che le dà l’idea precisa del problema. Dal 2001 ad oggi il distretto tessile biellese ha perso 5000 posti di lavoro e il 18% del proprio fatturato. Sono numeri incontestabili.

Girodivite.it/Oltrenews.it


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