Glenn Gould, la Sicilia, l’orrore

di Alberto Giovanni Biuso - domenica 6 dicembre 2009 - 4749 letture

Propongo ai lettori della rubrica un testo di Giusy Randazzo nel quale la tragedia e il senso della Sicilia emergono con lucida passione. Il link diretto all’articolo è: La mia Sicilia

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Quasi cinque anni fa mi sono trasferita a Genova.

La sera che ho lasciato la Sicilia, guardavo la sua costa allontanarsi e speravo che quel distacco mi potesse permettere di recuperare i ricordi più belli della mia terra.

E’ accaduto.

Ora ricordo: i mandorli in fiore che costeggiano la valle e sorridono ai templi; il giardino della Colimbetra, piccola oasi nel fondo sacro di un luogo antico; le bianche cascate di roccia della scala dei turchi che si gettano a mare potenti e orgogliose; i sorrisi della gente che passeggia per la via Atenea a Natale; il profumo della frutta di martorana, paffuta e allegra, deposta sul piatto accanto alla mia letterina per i morti, e lo sguardo elegante e tenero della dama di zucchero; gli occhi materni di mia nonna che cerca la sua borsa, nascosta in un cantuccio della casa da me e mio fratello per non farla andar via; il suono del mio dialetto che colmava le vie dando colore a ogni cosa e parola all’ineffabile; la mano di mio padre che si poggia sulla mia per darmi coraggio quando la vita si scordava di pagare i suoi debiti; l’orgoglio negli occhi di mia madre quando parlava di me alla gente; la ricchezza dei miei amici che capivano ogni mio gesto, ogni mia parola, ogni mia verità senza altre spiegazioni; gli incontri casuali con i vecchi compagni dell’infanzia, che presentificavano ogni antica memoria; la voce della mia maestra e i suoi goffi movimenti che mi hanno insegnato a insegnare senza paura di amare; le mani che si incontravano di conoscenti, di amici, di parenti, di amori; le processioni di ogni Dioniso che il mio popolo chiama santo, con la gente che urla, che tocca il fondo della follia sacra, perché per un giorno è concesso loro di abbattere ogni razionalità e vivere fuori dal tempo; la mia Sicilia e il suo paesaggio che corre arido, ma conturbante, che si trasforma in colline e montagne, sfidando la ferocia dell’uomo, seminando musica e piacere come canne di un organo o seno di donna.

Ricordo, adesso.

Lo stesso, però, la rabbia m’impedisce di godere dello spazio intimissimo che ho riservato alla mia terra.

Sto ascoltando Glenn Gould e comprendo l’origine da cui e in cui ogni mia delusione di essere umano defraudato procede, trasformandosi in un sentimento angoscioso di impotenza. Ho contato le dominazioni. Greci, cartaginesi, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, piemontesi. La mia Sicilia. Una terra da depredare, da soffocare; una popolazione che a poco a poco ha imparato l’accettazione, il ricatto, la violenza, ricapitolando in ogni nuova generazione quei sentimenti che possono a buon diritto essere annoverati in una morale della passività, dell’ingenuo paternalismo, del vile assenso, dell’attesa del nulla. Ho contato gli uomini che hanno reso la mia terra uno sfacelo. Quelli a cui ancora la storia inneggia. Primo fra tutti il mio concittadino Crispi e il genovese Bixio. Ho contato tutti i mali fino al nostro personale satana, il più grave male nato che potesse partorire il male ricevuto: la mafia. Ecco il vero dominatore della Sicilia, che ha inferto il colpo fatale a un popolo deprivato ormai di ogni speranza. Sono cresciuta con questa tara, vivendola come la tomba di ogni ribellione, come una macchia nella mia identità originaria, come una vergogna da nascondere, che mi portava a dire, anche a me: “Io la mafia non l’ho mai vista”. Invece l’ho vista. L’ho vista quando ho incontrato l’orrore negli occhi degli empedoclini dopo la strage di Porto Empedocle che oggi tutti conoscono come Vigata; quando ho avvertito la vergogna dei miei concittadini per l’assassinio del giovane Livatino di cui non parlavamo per non rievocare il male; quando ho provato rabbia per l’assenza dello Stato il giorno del funerale del povero Stefano Pompeo, bimbo di 12 anni, ucciso a Favara in un agguato.

L’ho vissuta nel mio piccolo mondo familiare, quando a mio padre, imprenditore, chiesero il pizzo; quando non potevo chiamare nessuno perché sentivo il click del telefono sottocontrollo; quando i carabinieri stavano davanti casa mia o all’uscita del liceo. L’ho sentita sin dentro alle ossa la sera in cui mio padre ci chiuse nella stanza da letto della nostra villa sul mare, prese la pistola e scese, spaventato come mai l’avevo visto, nel piano sottostante, credendo che fosse giunta la fine. Ricordo mia madre che ci stringeva, sperando di farci scomparire nel suo petto, terrorizzata. Invece era soltanto un festone di Natale che, cadendo, si era ripiegato riproducendo i passi di uomo. Ricordo lo sguardo di mio papà quando riaprì la porta della stanza in cui aveva nascosto il suo tesoro. Ricordo l’abbandono della casa d’infanzia, perché troppo isolata, per vivere in un piccolo appartamento senza le mie piante e i miei animali.

Ho visto anche l’atteggiamento mafioso, quando ogni mia iniziativa professionale o sociale veniva inibita nella meta, perché avrei dovuto scendere a compromessi ai quali non sono mai scesa; l’ho visto nel controllo dei voti, concessi a molti lestofanti in nome del riconoscimento di diritti miseri, calpestati e vilipesi; l’ho visto in ogni etica resistente al progresso, alla parità dei sessi, all’evolversi dei tempi.

La mafia esiste, sì, esiste tra noi al pari di un vicino di casa. Ha pure un figlio, ormai anzianotto, che si chiama “atteggiamento mafioso”.

La mafia esiste concretamente e non ha pietà. Non ha pietà di un bambino, Giuseppe Di Matteo, che mentre urla “mamma” viene strangolato e poi sciolto nell’acido mentre il suo assassino mangia un tramezzino; non ha rispetto dei luoghi sacri, anzi ci piscia per sfregio mentre Don Puglisi, colpito alla nuca e agonizzante, muore nel giorno del suo compleanno; non ha compassione di Domingo Buscetta, puro come l’acqua santa. E le stragi? Via d’Amelio, a distanza di due mesi dalla strage di Capaci, e poi Milano, Firenze. Altri bambini, Caterina Nencioni di 2 mesi, Nadia Nencioni di 9 anni; altri giovani uomini: Dario Capolicchio di 22 anni. Un sicario sigla tanta cattiveria animalesca (non me ne voglia davvero il regno animale): Gaspare Spatuzza.

La mia Italia, adesso, dimenticherà e mi proporrà Spatuzza come eroe nazionale, magari gli intitoleremo delle vie e faremo di lui un baluardo della cristianità perché studia teologia e non se li vuole mangiare più i tramezzini mentre scioglie i bambini nell’acido e non vuole pisciare più su chi agonizzante gli crepa davanti per mano sua. Lui è un eroe, perché si è pentito. Non mi vergogno più soltanto della mia Sicilia ora mi vergogno dell’Italia che si serve ancora della mafia invece di agire con coraggio.

Ero di sinistra. Da oggi, dopo aver buttato il giornale dentro il cestino della spazzatura, davanti ai miei alunni increduli, oggi informo i miei amici che sono diventata anarchica. Aspetterò, da siciliana quale sono, che la piena passi, nel silenzio dell’accettazione passiva, nel disgusto pieno di me stessa in quanto cittadina impotente, fagocitata dalla rabbia implosami dentro per chi rende degli assassini abominevoli - che uccidono anche quando non uccidono, perché hanno raso al suolo la Sicilia cementificando ogni speranza - degli eroi. Ci meritiamo Spatuzza eroe nazionale. Gli unici a non meritarselo, di certo, sono quei piccoli eroi che oggi, qualunque verità nasconda la morte, stanno meglio di noi. Da oggi, per me, la destra e la sinistra sono soltanto le mani con cui lavoro.

Caliti juncu

Caliti juncu chi passa la china…

E chiovi, chiovi e la fiumara ‘ngrossa

A cu non è forti appressu s’ù trascina !

‘Mpuzza la schina e li radici ‘nfossa

E Diu ti scansi di morti e di ruvina…

Caliti juncu chi passa la china!

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www.biuso.eu


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